25/05/2010

HARPER SIMON

Gli occhi di suo padre

Fa freddo stamattina a Milano.
Non c’è che dire: quest’anno la primavera si fa attendere… Per lo meno è spuntato un pallido sole a rendere il tutto un po’ più allegro. E poi c’è il meraviglioso giardino di uno degli alberghi più sciccosi del centro che fa riaffiorare al V.so Aff.mo vecchi ricordi: emozionanti conversazioni con rockstar di ieri e di oggi, da Tori Amos a Thom Yorke, da Damon Albarn a Bill Wyman. Se poi si sta a debita distanza dalla bella (ma rumorosa fontana) si riesce pure ad avere una privacy invidiabile.
Harper Simon mi raggiunge mentre sto finendo la colazione.
«Prenderei anch’io un cappuccino e un croissant», dice alla sua assistente.
Occhiali da sole, maglioncino girocollo, jeans e maglietta, questo 37enne newyorchese (dall’aspetto ingenuo e paffutello stile boy next door) stona un po’ nel contesto elegante dell’albergo milanese.
Eppure l’abito non (sempre) fa il monaco.
«Guarda che se la tira un po’», mi aveva avvertito la sua discografica italiana. «L’altra sera a Parigi è uscito a cena con Marianne Faithfull: sai, lui è uno abituato da sempre a frequentare i rich and famous».
In effetti, di primo acchito, Harper non appare come un gran simpaticone («Talis pater…», penso tra me e me) anche se racconta senza problemi la genesi del suo omonimo album di debutto.
«L’idea è nata almeno quattro anni fa», dice, «i primi pezzi li ho iniziati a scrivere qualche tempo dopo. Consideravo ormai al capolinea la mia avventura con i Menlo Park, gruppo neopunk londinese che avevo fondato e che si è rivelato ben presto un autentico fallimento. E non avevo neppure iniziato la collaborazione con la moglie di mio padre, Edie Brickell (nel progetto Heavy Circles, nda), destinata anch’essa a naufragare. Ma avevo già chiaro il tipo di brani che volevo scrivere e la musica che intendevo suonare. Per questo», continua Harper anticipando la mia prima curiosità tecnica, «ho contattato Bob Johnston, il produttore dei grandi album di Dylan degli anni 60 nonché di quelli di Simon & Garfunkel: desideravo andare a registrare a Nashville dove non ero mai stato, ricreare suoni e atmosfere vintage, avvalermi di grandi leggende del rock».
L’amore per la country music ci accomuna e, magicamente, rende più piacevole la conversazione, ammorbidendo all’istante il rapporto.
«Non so dirti quando e come sia nato il mio amore per il country», prova a spiegarmi, «non l’ho mai ascoltato da piccolo, in casa si sentivano altre cose. Non so quanto abbia a che fare con il fatto che mia mamma sia del Tennessee… forse è davvero nel mio dna».
Già, così sembrerebbe almeno ascoltando Tennessee, uno dei pezzi più riusciti del disco, firmato insieme a papà Paul e che qualche riferimento autobiografico lo contiene pure.
«È vero», annuisce Simon, anche se ci tiene a precisare che «il narratore di quella canzone è un tipo poco attendibile… io adoro la musica country degli anni 50 e 60: non ascolto il new country».
Nel disco ci sono almeno un paio di grandi icone della country music: Charlie McCoy, l’armonica più ambita di Nashville, e Lloyd Green, la cui pedal steel guitar ha impreziosito Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds e migliaia di album registrati nella Music City Usa.
«Mi fa piacere che qui, dall’altra parte del mondo, si possa parlare di questi grandi musicisti, vere e proprie icone della musica americana del Novecento», sorride Harper. «Quando ho contattato Bob Johnston gli ho chiesto, innanzitutto, se avesse voglia di ritornare a lavorare. Sai lui è in pensione da qualche anno… Quando, dopo aver ascoltato i provini di qualche canzone, mi ha detto di sì, gli ho chiesto quali musicisti avesse in mente per il disco. Bob ha capito subito che il mio sogno era quello di collaborare con i personaggi degli anni 60, quelli che apparivano negli album che lui aveva prodotto e che ascoltavo da piccolo: da Blonde On Blonde ai dischi di Johnny Cash e Leonard Cohen».
Nonostante i grandi ospiti (oltre a quelli citati, ci sono tra gli altri Al Perkins, slide guitar di Manassas ed Exile On Main Street, Gene Christmas, batterista di Aretha, Steve Nieve, braccio destro di Elvis Costello, Marc Ribot, chitarrista di Tom Waits), l’album si conclude con una canzone per chitarra acustica e voce (Berkeley Girl), e che sembra essere il pezzo più emblematico dell’album.
«Rappresenta al meglio il modo in cui io scrivo musica», ammette Simon, «chitarra e voce: nient’altro. Berkeley Girl è stata anche l’ultima composizione di questo progetto: l’ho usata per chiudere il disco, anche per dargli, dopo quell’incredibile sfilata di guest star, una dimensione più personale e confidenziale. È un brano del quale vado molto orgoglioso anche se si tratta, in fondo, di una canzone d’amore semplice. Ma è tutta farina del mio sacco. Vuoi sapere come scrivo le mie canzoni? Il Berklee College Of Music mi ha dato le basi teoriche. Ma la mia musica e il mio modo di comporre sono stati principalmente influenzati dalle migliaia di dischi ascoltati».
Da quando la conversazione si è fatta più amichevole, Harper si è tolto gli occhiali da sole, quasi li usi a mo’ di schermo protettivo.
Guardandolo negli occhi, noto finalmente la somiglianza con il famoso padre. Proprio con Paul Simon, Harper (quando aveva soltanto 5 anni) fa il suo debutto televisivo cantando una children song (Bingo) allo show Sesame Street.
«Me la citano tutti» ride Harper, «perché il filmato gira su YouTube: io però non ricordo molto di quell’episodio. Su Internet corre pure voce che abbia lavorato nell’album Graceland di mio padre, ma non è vero: ero semplicemente insieme a lui durante il tour; qualche volta sono anche salito sul palco a suonare la chitarra. Ero un ragazzino… ricordo meglio la tournée del suo lavoro successivo, The Rhythm Of The Saints».
«Io e mio padre abbiamo scritto insieme qualche canzone di questo disco», spiega. «Di solito funziona così: io scrivo la musica, lui mi suggerisce il testo poi insieme troviamo il modo di chiudere il pezzo. Ci vuole un po’ di tempo, anche perché non è facile trovarci, ma il metodo funziona».
«Quest’album è molto personale», confessa, «mi sono esposto parecchio… mi sono reso conto di essere piuttosto vulnerabile ma forse, anche per ciò, credo sia un lavoro onesto. Infatti, pur se contiene momenti ironici o persino spiritosi, il disco affronta argomenti delicati e tocca corde profonde del mio sistema emotivo. Le canzoni parlano di me e della mia vita: non ci sono né trucchi né inganni».
Tra i migliori amici di Harper c’è un altro famoso figlio d’arte, Sean Lennon. Sean, la figlia di Lowell George (Inara) e Adam Green sono la new generation che dà al lavoro un tocco di freschezza e modernità.
«Io e Sean Lennon siamo vecchi amici», racconta Simon, «ci conosciamo da un sacco di anni e ci siamo sempre aiutati, sul lavoro e fuori. Io ho suonato nei suoi album e Sean ha partecipato ad almeno tre pezzi di questo mio disco. Poi, ha ascoltato un po’ i brani e mi ha dato preziosi suggerimenti».
«Uno dei ricordi più belli di questo disco rimane il fatto di aver suonato con tanti ospiti fantastici», spiega Harper. «Ti dico la verità: sono un loro fan e non riesco a capacitarmi di essere stato in sala con un batterista favoloso come Steve Gadd o con un chitarrista imprevedibile come Marc Ribot. È stata anche una bella lezione di umiltà. E, ovviamente, un grande onore».
Questa estate (22 luglio, Castello Sforzesco di Vigevano) Harper Simon aprirà il primo concerto italiano di Kris Kristofferson: una bella vetrina per un figlio d’arte che non si vergogna di nascondere la propria carta d’identità, il suo dna artistico né i suoi gusti musicali così legati alla sua fortunata adolescenza.
Se, da parte nostra, saremo così bravi da non scomodare facili ma impietosi paragoni potremo goderci le canzoni e la musica di uno degli album più interessanti del 2010.

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