01/12/2014

Hikobusha

L’amalgama di elettrorock dissonante, post punk secco ed essenziale e timbrica acustica acquista una particolare armonia che lascia spazio ai contenuti testuali
Il gruppo di Davide Gammon Scheriani e Paolo Zangara chiude la trilogia della D (“lettera che contiene tutto, il dritto e il tondo”) con un album meno presuntuoso rispetto al precedente Discoregime, e una fisicità che sembra mettere meglio a fuoco il lavoro di ricerca sulle dicotomie, sia musicali sia liriche. L’amalgama di elettrorock dissonante, post punk secco ed essenziale e timbrica acustica acquista una particolare armonia che lascia spazio ai contenuti testuali: suggestioni cantautorali in forma di filastrocca, sedimentate senza un apparente ordine (appunto). In questo disordine scomodo e, a suo modo, sincero, circolano con meno forzature le contraddizioni esistenziali toccate dai testi.    

L’originale approccio interpretativo di Gammon agisce da protagonista, limitando le ampollosità con tratti di timidezza, disincanto e autoironia, consapevole dell’opportunità e dei rischi di autoreferenziarsi a un pubblico preciso, forse ristretto, ma non per questo incapace di levare lo sguardo dal contingente e quindi di levarsi da quel torpore che rischia oggi di non tenere gli occhi bene aperti per poter dare uno sguardo reale alle ferite, personali e collettive. Monica Postiglione e Cinzia Mai ammorbidiscono le linee melodiche con il loro controcanto, così come alcune autorevoli voci fuori campo (De Sica, Gil Scott-Heron, Calvino e il maestro Manzi) rafforzano l’aura dei contenuti.
 
Album decisamente autentico che punta all’innocenza senza nascondere i suoi spigoli sonori e che mantiene alta la voce dell’irrequietezza anche quando si rifugia nell’intimità, Disordini vive di immagini di mani e corpi, fisicamente ben rappresentati dalle chitarre di Stefano Maurizio (Hugo Race in Baby Play Dead, cover del gruppo australiano The Wreckery) e dalle poliedriche tastiere di Jama Ferrario. Il basso di Zangara è il cuore pulsante che muove e scuote, facendo perdonare agli arrangiamenti alcuni orpelli di troppo, comunque funzionali a legare il nuovo lavoro all’identità storica della band. Citare i singoli brani sarebbe fare un torto al senso di coerenza dell’insieme: accostare l’armonia al disordine oggi è un compito quanto mai arduo, e perciò prezioso.    
 
 

 

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