L’originale approccio interpretativo di Gammon agisce da protagonista, limitando le ampollosità con tratti di timidezza, disincanto e autoironia, consapevole dell’opportunità e dei rischi di autoreferenziarsi a un pubblico preciso, forse ristretto, ma non per questo incapace di levare lo sguardo dal contingente e quindi di levarsi da quel torpore che rischia oggi di non tenere gli occhi bene aperti per poter dare uno sguardo reale alle ferite, personali e collettive. Monica Postiglione e Cinzia Mai ammorbidiscono le linee melodiche con il loro controcanto, così come alcune autorevoli voci fuori campo (De Sica, Gil Scott-Heron, Calvino e il maestro Manzi) rafforzano l’aura dei contenuti.
Album decisamente autentico che punta all’innocenza senza nascondere i suoi spigoli sonori e che mantiene alta la voce dell’irrequietezza anche quando si rifugia nell’intimità, Disordini vive di immagini di mani e corpi, fisicamente ben rappresentati dalle chitarre di Stefano Maurizio (Hugo Race in Baby Play Dead, cover del gruppo australiano The Wreckery) e dalle poliedriche tastiere di Jama Ferrario. Il basso di Zangara è il cuore pulsante che muove e scuote, facendo perdonare agli arrangiamenti alcuni orpelli di troppo, comunque funzionali a legare il nuovo lavoro all’identità storica della band. Citare i singoli brani sarebbe fare un torto al senso di coerenza dell’insieme: accostare l’armonia al disordine oggi è un compito quanto mai arduo, e perciò prezioso.