“Per lei farei di tutto: portare in camerino gli abiti di scena, accordare le chitarre, persino pulire il tour bus”.
Così, neanche un anno fa, diceva Jack White di Loretta Lynn mostrando, per la vecchia stella del country, un affetto e una stima tali da sfiorare il fanatismo. D’altronde la sua storia musicale è stata enormemente influenzata dalla figura della Lynn: si racconta, infatti, che, da ragazzino, immediatamente dopo aver visto il film The Coal Miner’s Daughter (tratto dall’omonima autobiografia ufficiale e magistralmente interpretato da Sissy Spacek), Jack sia corso a comprarsi la sua prima chitarra.
Figuratevi dunque la sorpresa e l’eccitazione quando lui e sua sorella Meg ricevono un invito ufficiale (su carta da lettera regalmente marchiata “LL”) che, testualmente, recita: “Loretta vi attende nel suo ranch per colazione”. La firma è quella di Nancy Russell, manager personale di Loretta Lynn e, al tempo stesso, ammiratrice dei White Stripes. È Nancy a segnalare a Loretta che sul retro di copertina di White Blood Cells c’è una dedica esplicita per lei. Scatta così l’invito.
Il ranch della Lynn si trova a Hurricane Mills, Tennesse, più o meno a metà strada tra Memphis e Nashville. Oltre a ospitare la casa di Loretta, la tenuta di oltre 6mila acri è sede di un vero e proprio “amusement park”, visitato annualmente da 300mila turisti, dove, tra cavalcate nei boschi e duetti di banjo e fiddle, si possono rivivere le atmosfere dei vecchi tempi. Quelle, cioè, che riportano alle umili origini della Lynn, davvero “figlia di un minatore” di Butcher Holler nel Kentucky. Che ha vissuto in mezzo ai monti (insieme ai genitori e ai sette fratelli) in una misera capanna di legno, senza servizi igienici. Sino a che, all’età di tredici anni, un certo Oliver “Doolittle” Lynn se l’è sposata e l’ha portata via da quell’incubo.
“Fai il bravo con mia nipote”, gli ha detto all’epoca il nonno cherokee di Loretta, “o ti uccido con le mie stesse mani”.
Doolittle, infatti, era sei anni più grande di Loretta e non godeva di “buona stampa”: il suo soprannome era “Mooney”, abbreviativo di Moonshine (il nomignolo dato in America al whisky distillato clandestinamente di notte, “alla luce della luna” appunto, durante il proibizionismo) che la diceva lunga sui suoi costumi. Per la cronaca, oggi tra le disparate attrazioni del Loretta Lynn Dude Ranch (che vanno da una pista di motocross al museo di memorabilia della stessa Loretta Lynn) c’è anche una replica della capanna di legno di Butcher Holler.
“Accomodatevi pure”, dice Loretta ai fratelli White il giorno del loro incontro quando li riceve nella sua casa di Hurricane Mills, “vi ho preparato pollo fritto, patate al forno e tortini di frutta”.
La Lynn, la cui ospitalità è davvero leggendaria, accoglie i due rocker di Detroit con in mano uno dei suoi mitici abiti di scena (favolosamente kitsch) degli anni 60 e rivolgendosi a Meg le dice: “Dolcezza, questo è un regalo per te”. Poi, mostrando a Jack una pila di suoi vecchi 33 giri, lo invita a scegliere “quelli che ti piacciono di più”. Anche se il dono più prezioso deve ancora arrivare.
Dopo pranzo, accanto al fuoco, Loretta prende infatti la sua Epiphone acustica (quella con il suo nome intarsiato sul manico) e canta ai due ragazzi una nuova canzone, Van Lear Rose. È in quel momento che Jack trova il coraggio di chiederle: “Ti va se la registriamo insieme?”.
“Ma certo tesoro” le risponde la Lynn.
Detto fatto: nel giro di un paio di settimane si ritrovano insieme in uno studio a East Nashville. Il tutto a spese di Loretta anche perché, come racconta Nancy Russell, “i discografici si sono inizialmente mostrati freddi all’idea di questo progetto. Secondo loro i White Stripes erano apprezzati dalla critica ma non facevano volumi di vendita interessanti”. Nel giro di poco tempo, però, il gruppo inizia a vendere piuttosto bene. E i discografici, di colpo, cambiano idea.
Gli artisti, nel frattempo, procedono velocemente con il lavoro e in meno di dieci giorni registrano quattordici canzoni, tutte a firma di Loretta Lynn. Tutte arrangiate in modo sobrio, spartano, molto “rock”, seguendo una logica diametralmente opposta a quella cui la Lynn era abituata. Sotto la guida del celebre Owen Bradley (il producer che ha scoperto Patsy Cline e che ha contribuito a definire il Nashville Sound) Loretta era infatti solita passare mesi in sala d’incisione. Ad assecondare la benchè minima perplessità artistica del pignolissimo Bradley.
“Ho cantato i brani la prima volta”, racconta la Lynn, “pensando fosse solo una prova. Ma Jack ha detto che andava bene così.”.
“È bastato che facesse tre note”, ricorda White, “per farmi andare fuori di testa: non ho mai sentito nessuno cantare così bene”.
Tutti i pezzi del disco sono stati composti da Loretta. Ed è la prima volta che questo accade in quasi cinquant’anni di carriera.
“Ho sempre ammirato”, dice White, “le qualità compositive della Lynn e il suo coraggio”.
Non a caso il suo primo successo del 1960 è Honky Tonk Girl, un pezzo che Loretta scrive dopo aver visto una ragazza ubriaca piangere in un bar di Washington. I torti e gli abusi subiti dalle donne diventano così una delle tematiche forti dei suoi brani che presentano spesso titoli emblematici: Don’t Come Home a-Drinkin’ (With Loving In Your Mind), Your Squaw Is On The Warpath, Fist City.
Ma il coraggio di Loretta Webb Lynn non è emerso unicamente attraverso le sue canzoni: a scuola, ad esempio, ha stoicamente sopportato la frusta per aver dato dello stronzo a suo cugino, ha combattuto duramente giorno per giorno contro l’alcolismo e le violenze domestiche del marito (“Ma quando lui ha provato a darmi una sberla ha ricevuto indietro un pugno assai più forte, che gli ha fatto saltare due denti”), ha baciato in televisione la star afroamericana Charlie Pride solo perché gli avevano detto di non farlo. E, soprattutto, ha saputo superare tragedie autentiche.
Nel 1984, Jack Lynn, il secondo dei suoi cinque figli, muore dopo una caduta da cavallo proprio all’interno del ranch di famiglia.
“La sua morte le ha spezzato il cuore”, ricorda la primogenita Patsy, “ancora oggi non ricorda nulla del giorno dei funerali e per un anno non ha voluto nemmeno sapere dove fosse sepolto”.
Nei primi anni 90, poco dopo la morte dell’amico e partner musicale Conway Twitty, Loretta scopre che il diabete e i problemi cardiaci del marito, l’amatissimo “Doo”, si aggravano. Prima gli viene amputata una gamba, poi anche l’altra. Muore nel 1996.
Patsy Lynn ancora oggi sostiene che “mia madre non è mai riuscita a superare lo shock della morte del babbo. Ha lasciato l’abitazione che dividevano insieme per un altro cottage all’interno del ranch. Ma continua a comportarsi come se lui fosse ancora vivo”.
L’amore per Doolittle ha permesso a Loretta di superare ogni ostacolo e tutte le difficoltà (quotidiane) che il suo matrimonio le ha riservato proprio come descritto nel celebre pezzo sul divorzio, Rated X, rifatto tra l’altro proprio dai White Stripes.
“Doo era divertente e serio, riflessivo e scatenato: la nostra relazione è stata davvero turbolenta. Ma ce l’abbiamo fatta: è stato vero amore”.
L’amore è anche quello che Loretta prova nei confronti della sua musica. Dopo la celebrità assoluta negli anni 60 e 70 e il brusco calo di popolarità da metà anni 80 in poi (in concomitanza con l’avvento del new country) la Lynn, grazie anche all’entusiasmo di Jack White, ha ritrovato stimoli e ispirazione.
“Ho scritto tonnellate di brani”, racconta, “molte sono canzoni compiute, altre sono a livello di semplici appunti. Ne ho portate una manciata e insieme a Jack ne abbiamo selezionate quattordici per Van Lear Rose”.
Secondo White “Loretta Lynn è la più brava cantautrice donna del 900. Ha straordinaria abilità istintiva nel comporre; i suoi pezzi hanno credibilità ma anche valenza pop, possono cioè piacere a un pubblico vasto. Ha uno stile tutto particolare nel costruire i pezzi che si basa su una specie di ‘ritornello doppio’ che non ho mai capito quanto sia voluto o quanto le venga fuori spontaneamente. Fist City è un brano esemplare al proposito”.
Tra le canzoni selezionate per Van Lear Rose c’è anche un pezzo (Have Mercy) che risale a parecchi anni fa e che, ai tempi, Loretta aveva scritto per Elvis Presley. Ma che non è mai stato inciso dal re del rock. “Eravamo amici”, ricorda la Lynn, “parlavamo spesso al telefono. La mia cameriera portava spesso i miei due figli gemelli a Graceland: a loro piaceva raccogliere i fiori nel giardino per portarmeli a casa. Elvis glielo permetteva”.
“Have Mercy”, continua, “è stata suonata da Jack proprio come io avrei voluto che facesse Elvis. Jack e Meg sono davvero bravi: sono salita insieme a loro sul palco dell’Hammerstein Ballroom di New York. È stata un’esperienza fantastica. Sono sicura che, per promuovere il nuovo album, faremo parecchi concerti. D’altronde l’ho promesso a Doo sul letto di morte quando è stato lui stesso a dirmi: ‘Loretta, fin che ce la fai, continua a cantare’.
Non posso tradirlo proprio adesso”.