Dopo aver esordito nel 2007 con Mescalito ed essersi riconfermato come una delle più interessanti nuove proposte della Lost Highway con Roadhouse Sun (2009), quest’anno il 29enne ex campione di rodeo si è visto finalmente ripagare di tutti gli sforzi fatti macinando migliaia di chilometri in giro per gli Stati Uniti. Il suo terzo, lavoro, Junky Star, è frutto di un’autentica passione per quel songwriting polveroso che cerca di mettere in pratica gli insegnamenti dei grandi maestri, da Woody Guthrie a Bob Dylan, passando per Steve Earle e la Marshall Tucker Band. Ma Junky Star è anche legato al film Crazy Heart, che ha visto Jeff Bridges vincere un Oscar come miglior attore protagonista e Bingham un Golden Globe e un Oscar per il miglior brano originale, The Weary Kind. Si tratta di un pezzo scritto insieme a T Bone Burnett, produttore della colonna sonora, che ha deciso di prolungare questa felice collaborazione producendo anche Junky Star. «È stato un anno fantastico, sono successe cose che non mi sarei mai aspettato potessero accadere… neanche in un migliaio di anni», dice Ryan in linea da New York. La sua voce graffia anche al telefono; parla lentamente, soppesando le parole, come se avesse il timore di risvegliarsi da un bellissimo sogno. Non è abituato a ricevere tutte queste attenzioni e, soprattutto, questo genere di riconoscimenti. Pensate che lo scorso gennaio, quando The Weary Kind ha vinto un Golden Globe come miglior canzone originale, T Bone Burnett si è ritrovato sul palco da solo: «Amico, è stato pazzesco. Durante la cerimonia il mio agente mi ha mandato un messaggio sul telefonino. Diceva: “Ehi, perché non mi raggiungi al bar per un drink?”. Così ci sono andato, e mentre eravamo lì ci siamo messi a chiacchierare con l’attore Jeremy Renner, che a un certo punto dice: “Non sarebbe divertente se mancassi alla tua premiazione?”. In quel preciso istante ho alzato lo sguardo e alla tv ho visto T Bone con la statuetta in mano, che si guardava intorno chiedendosi dove diavolo ero finito. Quando sono tornato al tavolo mi ha detto: “Tu, piccolo bastardo… Eri al bar, non è vero?”. Siamo scoppiati a ridere come matti».
Per capire come e perché Ryan è stato coinvolto in Crazy Heart, bisogna però fare un passo indietro: «È iniziato tutto quando Scott Cooper, il regista del film, mi ha dato una copia dello script. Conosceva i miei primi due dischi e mi ha chiesto se ero interessato a scrivere qualche canzone». Nonostante la giovane età, Ryan non ha avuto difficoltà a identificarsi in Bad Blake, il 57enne cantautore country in cerca di redenzione magistralmente interpretato da Jeff Bridges: «Nel film ho una piccola parte in cui, praticamente, interpreto me stesso. Sono Tony, il frontman di una band che fa da spalla a Blake in una sala da bowling. In passato mi è capitato di suonare in quel circuito, quindi non ho dovuto fingere». The Weary Kind è il fulcro musicale di Crazy Heart: per tutto il film si sentono solo dei brevi, malinconici accenni di questa toccante ballata, ma lo spettatore capisce ben presto che lo sviluppo della sua linea melodica è strettamente legato alla parabola umana e artistica di Bad Blake. La redenzione dell’uomo coinciderà con la “nascita” del brano. «Non è stato difficile relazionarmi alla vicenda di Blake», racconta Bingham. «Quando ero piccolo mio zio e mio padre gestivano una roadhouse nel New Mexico, l’Halfway Bar. La città più vicina distava 40 miglia e per me è stato come crescere nel selvaggio West, a stretto contatto con personaggi che in un modo o nell’altro assomigliavano a Bad Blake. Non necessariamente musicisti, ma uomini che hanno speso gran parte della loro vita on the road, spostandosi da una città all’altra per partecipare ai rodeo o cercare lavoro. E poi lavorare con Jeff Bridges ha reso tutto più facile. È il tipo di persona che ti mette subito a tuo agio… Mi ha detto: “Amico, pensiamo solo a divertirci e facciamo un bel film”». All’Halfway Bar, Ryan ha imparato fin dalla tenera età di 11 anni «tutte le cattive abitudini», ma per fortuna a indicargli la retta via c’erano il vecchio jukebox del locale e la collezione di dischi dello zio: «Ci sedevamo in soggiorno e ascoltavamo quei vecchi album uno dopo l’altro. Ce n’era uno che amavo in particolare: Live At The Armadillo World Headquarters 1973 And The Capitol Theatre 1975 di Commander Cody And His Lost Planet Airmen».
Grazie a Crazy Heart, Ryan ha anche avuto modo di lavorare a stretto contatto con Stephen Bruton, che insieme a Burnett ha prodotto la colonna sonora e scritto gran parte dei brani. «Purtroppo Stephen se n’è andato nel maggio 2009… Il film è dedicato a lui. T Bone ha formato un gruppo di lavoro con diversi songwriter che ogni giorno si incontravano a casa sua per scambiarsi idee. Era fantastico starsene seduti nel soggiorno di T Bone e ascoltare Stephen suonare la chitarra. Un giorno è successa una cosa che non scorderò mai: continuava a suonare uno standard blues finché, a un certo punto, si è annoiato e ha iniziato a suonarlo al contrario. Era un chitarrista eccezionale». T Bone Burnett, invece, «ha la capacità di tirar fuori il meglio dalle persone con cui lavora», dice Ryan. «Quando abbiamo registrato Junky Star c’era una splendida atmosfera in studio, e lui è riuscito a trasferirla nel disco. Ci sono voluti solo tre giorni. Avevo già scritto tutte le canzoni: ho realizzato un demo chitarra e voce e l’ho mandato ai ragazzi della band che ci hanno lavorato per circa un mese e poi, prima di entrare in studio, abbiamo provato per una settimana. Quando è arrivato il momento di registrare sapevamo esattamente cosa volevamo: non si trattava tanto di suonare ogni nota alla perfezione, ma di catturare l’emozione. Volevo tornare all’essenza del songwriting, spogliare le canzoni del suono in eccesso per portare in primo piano i testi». Già all’epoca di Roadhouse Sun, Bingham aveva sentito l’esigenza di scrivere qualcosa di diverso dalle solite storie da bar del sabato sera: «Sono cresciuto povero e arrabbiato, ma ho capito che non serve a niente essere sempre incazzati. Devi cercare di costruire qualcosa di positivo». Junky Star rappresenta un’ulteriore evoluzione di questa filosofia di vita. Crescendo, Ryan si è impegnato a comporre canzoni che «tra 15 o 20 anni non rimpiangerò di avere scritto». L’anno scorso si è sposato e ha comprato la sua prima casa a Los Angeles, nella zona di Topanga Canyon. Anche questa esperienza ha influenzato le nuove canzoni: «Adoro camminare sul molo di Venice e immergermi in questo fiume di vite in movimento. Una delle cose che più mi affascinano di Los Angeles è proprio la varietà umana: persone provenienti da ogni angolo del mondo convivono, ognuna con i propri problemi, la propria vita, il proprio background culturale. Ragazzini di 16 anni che vivono per strada… Cose del genere succedono in tutto il mondo, ma laggiù è come se tutto fosse amplificato». I nuovi brani cercano di descrivere la situazione in cui versa il paese: «Il mondo dei senzatetto, per esempio. È una realtà molto complessa e diffusa nella quale ti imbatti ogni giorno, soprattutto quando passi gran parte del tempo in tour spostandoti da una città all’altra. Ciò che vedi, ogni persona che incontri, sono tutte parti di un’unica realtà». Il protagonista di Hallelujah viene ucciso da un rapinatore, ma non è pronto ad abbandonare la vita terrena; la title track, invece, è figlia di Woody Guthrie, Johnny Cash o Bruce Springsteen: «Un uomo viene a stringermi la mano e si porta via la mia fattoria / L’ho ucciso, ero disperato, e sono fuggito con la sua auto». «Negli ultimi due anni», spiega Ryan, «girando per gli Stati Uniti io e i ragazzi abbiamo avuto modo di vedere con i nostri occhi i problemi che i contadini americani devono affrontare ogni giorno per tirare avanti e non buttare al vento il lavoro di una vita. Anche la mia famiglia ha perso la fattoria che possedeva, all’incirca quando sono nato. Per questo sono cresciuto in diversi posti, i miei si spostavano in cerca di lavoro». Ascoltando i versi di Direction Of The Wind è impossibile non pensare alle scomode domande poste da Bob Dylan all’inizio degli anni 60, le cui risposte soffiano ancora da qualche parte, inascoltate, nel vento: «Già, non è cambiato molto da quando Dylan cantava Blowin’ In The Wind… Ma credo che Obama abbia intrapreso la strada giusta sostenendo la necessità di creare un dialogo. Per capire come stanno realmente le cose bisogna conoscere entrambi i lati della medaglia: siamo tutti sulla stessa barca e se vogliamo fare un passo avanti dobbiamo creare un terreno comune sul quale confrontarci. Siamo vicini a un punto di svolta… La gente è frustrata, si sta rendendo conto che la vecchia strada si è rivelata un fallimento ed è necessario cambiare radicalmente il modo di pensare e agire. Ascoltare A Hard Rain’s A-Gonna Fall», assicura Ryan, «mi ha cambiato la vita». Chissà, forse sarebbe il caso di riascoltarla con attenzione…
09/12/2010