29/01/2024

Il dark blues tra invisibile e memoria: Massimiliano Larocca

A colloquio con il cantautore fiorentino, nel pieno del tour di Dáimōn

 

Il colpo d’occhio è straniante. Sotto una sorta di tendone da circo con graffiti e umori da centro sociale occupato, un cantautore rock accompagnato da una band dal sapore vintage parla di mito, di aree oscure, di abbandono e percorsi nell’anima. Un mix poco urbano o metropolitano, un cantastorie elettrico che attraversa folk-rock, suono analogico alla Lee Hazlewood e un blues contemporaneo fatto sia di ombre che di scatti graffianti. Nuova data per il tour 23/24 di Massimiliano Larocca, che porta al Pompei Lab il suo eccellente album Dáimōn (Santeria/Audioglobe), uno dei migliori dischi italiani degli ultimi tempi. Produzione di Hugo Race, temi forti come il rapporto con l’invisibile e con le proprie aree oscure attraverso una studiata estetica del suono, un pugno di canzoni che diventano storie, tra mito e letteratura. Ne parliamo con il musicista fiorentino.

 

Sei soddisfatto di Dáimōn?

Sì, senza alcun dubbio. Devo dire che arrivo sempre un po’ di tempo dopo a capire il contenuto dei miei progetti, come la storia di questo disco e della trilogia di cui fa parte, che ho scoperto in corso d’opera, me la sono quasi ritrovata addosso. Dáimōn è il secondo tassello del progetto che ha confermato un ottimo team di lavoro capitanato da Hugo Race con una bella parte della scena romagnola dei vari Gramentieri, Sapignoli, Villa, Sacri Cuori. È la mia base di lavoro da qualche anno. Una parte importante della soddisfazione per Dáimōn, che mi sta facendo sentire artisticamente e personalmente coerente, è che ho capito di aver fatto qualcosa di molto più grande dello scrivere canzoni: ho raccontato una storia.

 

Un elemento centrale di questa storia è un aggettivo che hai pronunciato un paio di volte stasera. Una parola che probabilmente spaventa un po’: filosofico.

Premesso che durante le presentazioni dei pezzi uso questo termine con un po’ di ironia, è vero che l’impianto del disco è volutamente filosofico, poiché racconta l’idea del Dáimōn, dell’esplorazione nell’animo umano, nella sua parte più profonda e oscura. Il disco parla del rapporto con l’invisibile, la parte non visibile delle nostre vite. Ho attinto molto sia al mito come critica del presente che alla Terra desolata di Eliot, ma non è un concept nel senso più stretto, c’è un filo rosso che attraversa le varie canzoni e le canzoni sono sempre lo specchio delle nostre vite. Spero che chi le ascolta possa rispecchiarsi. Si tratta dunque di un percorso filosofico in senso lato, con canzoni che oltre ad essere specchio di sé sono anche critica.

 

Non temi che un’impostazione del genere possa essere rischiosa? Oggi l’attenzione di chi ascolta è sempre più frammentaria…

È vero, negli anni ’70 c’era un humus che consentiva un’accoglienza più facile per dischi concettuali o comunque per canzoni “problematiche”, che spingevano a pensare. È un rischio che so di correre e me ne rendo conto, tant’è che dal vivo introduco i brani con l’idea di accompagnare il pubblico in questo percorso, anche con un pizzico di ironia e di leggerezza. Ricordo che quando vidi Townes Van Zandt dal vivo cantava queste canzoni terribili ma tra una e l’altra raccontava una barzelletta, quasi a voler stemperare l’atmosfera dura, pesante. A mio modo faccio una cosa simile, ossia suggerisco una chiave d’ingresso in questa storia, storia che come accennavo è arrivata dopo aver fatto il disco.

 

È interessante questo ritrovarsi addosso, dopo aver scritto le canzoni, una storia che le racchiude. Invece di chiederti se nella tua scrittura nascono prima le parole o la musica, mi piacerebbe sapere se ogni pezzo è una storia a sé o se c’è qualcosa che accomuna tutto…

Questa particolare collezione di canzoni non è stata scritta pensando al Dáimōn.  Non avevo l’intenzione di scrivere un gruppo di pezzi per raccontare questo tema, solo in un secondo momento ho pensato a qualcosa che potesse amalgamarle, a una storia più grande che potesse raccoglierle. In linea di massima però ogni canzone è una storia a sé e ognuna compone un mosaico. Parto sempre da un piccolissimo granello, a volte anche un titolo, sul quale comincio a sviluppare la musica e a pensare a una storia.

 

Questa idea del mosaico torna anche nel ventaglio di sonorità, tanto che emergono cose imprevedibili, tipo il clima vintage anni ’60 di Fatale.

Lì c’è il mio amore per Lee Hazlewood e più in generale l’idea di recuperare il tipo di produzioni anni ’60 che a me piace molto. Abbiamo lavorato nello studio analogico di Roberto Villa (L’Amor mio non muore a Forlì) con l’approccio alla RCA o Ricordi, dove si suona insieme in stile Wrecking Crew in un luogo che serve a creare idee e a costruire i brani in base agli stimoli collettivi. Ed è uno studio che ha un suono con una band che ha un suono, e credo che siamo riusciti proprio a ricreare quel sentimento anni ’60. È come una cartolina bella e ingiallita che si guarda perdendosi nell’evocazione di qualcosa di lontano, così certi suoni puoi sentirli in filigrana e parte il ricordo della musica di un tempo. È il suono della memoria.

 

Anche dal vivo funziona molto bene.

Sì, sono felice per questa live band, è un ibrido molto particolare, da una parte i romagnoli, poi Federica Ottombrino che è napoletana, un’alchimia che credo non si veda spesso in giro, soprattutto in situazioni underground come stasera. Abbiamo molte date in posti nuovi, pensavo che il covid avesse azzerato tutto invece noto una bella vitalità, forse anche più di prima. Il tour sta diventando un banco di prova importante perché è grazie ai concerti che sta passando l’idea del concept.

 

A proposito di musicisti, sul palco hai detto di aver scelto i due romagnoli per il loro fortissimo senso dello swing.

Pensa che Diego Sapignoli ha iniziato da batterista hardcore ma poi è andato a ritroso, facendo un percorso alla fonte, sentendo l’esigenza di conoscere e utilizzare quel linguaggio. Roberto Villa ha suonato con tantissime band, una sono i Gang, inoltre è un ingegnere che progetta amplificatori. Credo di averli scelti proprio per questo, in loro il suono della memoria è molto radicato.

 

Quanto è stato determinante Hugo Race per il risultato finale?

Nell’idea sonora di cui stiamo parlando Hugo ha un’influenza fortissima anche grazie al suo profondo rapporto con l’Italia, dove ha vissuto per molti anni. Anche grazie alle collaborazioni con Afterhours, La Crus, Sacri Cuori e Cesare Basile ha sviluppato un senso estetico che è persino più marcato rispetto a quello di tanti altri produttori italiani: ad esempio i dischi di Nada, tanto per fare un nome, li conosce veramente bene, dunque ha proprio quel tipo di cultura del suono. L’idea della cartolina che ti dicevo è arrivata attraverso il produttore che ha introiettato quel suono e quella memoria lontana e lo ha restituito all’ascoltatore di oggi. È stimolante questa situazione di un intermediario che non è italiano ma che conoscendo quel suono ha partecipato a quest’idea un po’ distopica, tra passato e presente. Basta pensare a Morricone, che per Sergio Leone ha saputo fare musica americana meglio degli americani… o al suono internazionale di Lucio Battisti.

 

Anche la tua musica ha un respiro internazionale. Hai mai pensato di portarla all’estero?

È capitato pochissime volte e sarebbe una cosa bella e importante, anche se non è stato ancora un mio obiettivo. Non saprei da dove iniziare però mi piacerebbe. Sarebbe bello portare questa estetica e questa poetica anche fuori dall’Italia. La musica italiana quando ha funzionato all’estero lo ha fatto bene e con due elementi: quando c’era un’estetica del suono (pensa alle grandi colonne sonore) e quando l’Italia ha raccontato la grande provincia (mi viene in mente Paolo Conte), caratteristiche che all’estero hanno un certo fascino. Torna l’idea del raccontare una storia, e quando la musica italiana ha raccontato sè stessa il risultato è stato memorabile.

 

Sei un grande cultore di musica straniera che però si esprime in italiano.

È vero, la cosa curiosa è che nonostante io abbia ascoltato per il novanta per cento musica angloamericana, ho sempre scritto in italiano, probabilmente la voglia di entrare in dialogo con chi mi ascoltava era molto forte. Negli ultimi due album ho inserito anche qualcosa in lingua straniera ma nella chiave detta prima, ossia con l’obiettivo di mescolare e fondere i linguaggi con un fondo distopico. Come diceva Carmelo Bene è più importante il significante, mentre diamo sempre attenzione al significato. Spero che Dáimōn dia tanti significanti e un po’ meno significati…

 

Dáimōn ha anche un lavoro grafico sui generis, com’è nato?

Le copertine sono opera di Enrico Pantani, pensa che abbiamo fatto l’università insieme, lui è di Volterra. Ha fatto anche due video per me. Gli ho semplicemente parlato dell’idea suggerendogli la direzione delle icone russe e anche dell’arte sacra toscana, così lui alla mia traccia ha risposto restituendo varie immagini, io ne ho scelte tre. Torna il numero tre, dopo la trilogia. La cosa mi affascina, perché io cerco sempre di dare un senso alle cose, e siccome siamo in un mondo binario, polarizzato anche a causa dei social (tesi, antitesi e sintesi non esistono più…), ho voluto tornare alla sacralità del tre.

 

Hai pubblicato sei album, ti sei tolto tante soddisfazioni, cosa devo ancora realizzare?

Beh intanto devo finire questa trilogia. Ormai è un obbligo! Non avevo affatto l’idea di un trittico di album, poi un giorno dopo la fine del disco Hugo mi ha detto: «Questo è un bel disco, il secondo della nostra trilogia». Io gli ho detto: «Hugo, ma quale trilogia?» E Lui: «La trilogia toscana»… Me lo deve ancora spiegare che cos’è! (ride). Devo terminare questa storia e comunque un’intelaiatura c’è, perché Exit/Enfer era la mia discesa nell’ade, alla San Giovanni della Croce, un viaggio nei meandri dell’anima con una produzione più scura ed elettronica. Dopo Dáimōn ho in mente un disco più etereo. Cosa mi resta ancora da fare? Non so, magari smetto (ride)…

 

Finisci prima la trilogia però…

Per forza! Poi pensavo che mi piacerebbe tornare all’idea di un side project, come quello che feci su Dino Campana, dove c’era un lavoro di ricerca. Alla fine non vivo di musica, lavoro come educatore, e questo ha fatto sì che io potessi preservare la mia vena artistica e prendermi tante soddisfazioni, come lavorare con tanti grandi a partire da Hugo, oppure Massimo Bubola o Nada.

 

Con quale altro big ti piacerebbe lavorare?

Joe Henry. Amo le sue produzioni, ha sempre fatto delle cose eccellenti, cambiando anche pelle. Ora è tornato a dischi più acustici. È il primo che mi è venuto in mente. Mi piacerebbe davvero tanto.

 

Massimiliano Larocca © Chiara Carnevali

Massimiliano Larocca © Chiara Carnevali

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!