Il sogno di molti fan, e di molti melomani incalliti che guardano agli anni 70 musicali con un misto di dolore e nostalgia per tutto ciò che c’è stato e mai più sarà, saranno stati felici di apprendere che uno degli album più celebrati e fraintesi di Lou Reed, Berlin, sarà portato in scena per la prima volta nella sua interezza per una serie di concerti in Europa.
Dico per la prima volta nella sua interezza perché, effettivamente, molti brani dell’album la rockstar newyorchese li aveva già eseguiti in tour nel 1979 ma mai in un tour dedicato e che vedrà anche l’ausilio d’immagini e video; ormai nessuno aveva più speranza di poter un giorno sentire l’intellettuale del rock raccontare dal vivo la storia degenerata e scellerata di Caroline e Jim, i due protagonisti dell’album.
Non è stato un vero e proprio concept album, e neppure uno dei dischi più popolari o immediati tra quelli prodotti da Lou Reed, eppure Berlin mantiene a tutt’oggi un’atmosfera straordinaria che è difficile riportare ad un periodo storico ben preciso, malgrado alcune sonorità possano essere datate.
Lungi dal cavalcare l’onda del successo planetario di Transformer, il disco della definitiva consacrazione popolare post Warhol e Velvet Underground, e in piena epoca glam rock, Lou Reed realizza un’opera claustrofobica e introspettiva con la quale fronteggia fantasmi passati e presenti: in quegli anni è sul limite di un crollo fisico e nervoso, vittima di una crescente alienazione, di un matrimonio in pieno naufragio e della sua dipendenza dall’eroina. In Berlin, infatti, il mimetismo autobiografico dietro il quale l’artista si è sempre nascosto, getta finalmente la maschera e si fa sempre più scoperto, drammatizzando il racconto di un matrimonio fallimentare (quello che nella vita privata lo vedeva legato a Bettye Kronstadt) attraverso il racconto della storia di una coppia di tossicodipendenti americani trapianti a Berlino.
Il disco non è, però, opera limitata a un certo tipo di esperienza, ma un viaggio emotivo e psicologico estremamente lucido attraverso il sentimento della solitudine. I testi sono crudi e spogli e la scelta dell’ambientazione non è di certo casuale: il riferimento alla città tedesca divisa dal muro è strumentale e simbolico, giacché Reed all’epoca non l’aveva neanche mai visitata. New York non avrebbe mai potuto avere lo stesso potere evocativo di un luogo che si presta facilmente ad allusioni metaforiche, un luogo irrisolto e frammentato che può al meglio esprimere il travaglio di quella storia che finisce in tragedia. Più che la Berlino contemporanea, o dell’epoca dell’album, a Reed interessa evocare l’alone di decadenza e sfascio post bellico, i cabaret fumosi, le canzoni di Brecht e Weill, di Marlene Dietrich.
Ed è già evidente, quest’atmosfera, dall’apertura con la title-track nostalgica, romantica, una storia d’amore in un caffé fumoso vicino al muro. Almeno così sembra, perché in verità Lou inserisce nelle poche frasi che compongono il testo degli indizi importanti del dramma che sta per venire, soprattutto uno: “It WAS very nice” (“È stato molto bello”; non ora, la cosa è passata, è già un ricordo). Con grande maestria ha già dettato sottilmente le coordinate psicologiche e di atmosfera della storia. Il resto lo creano le canzoni magistrali e gli arrangiamenti debordanti, stordenti, eccessivi, asfissianti di Bob Ezrin (che non amo ma che, in questo disco, riescono perfettamente nell’intento). “Una storia realistica, di gente degli anni 70, che non è né particolarmente stonata né particolarmente degenerata”. Una storia di una coppia maledetta, di violenze domestiche che si chiude con un suicidio (la bellissima, commovente, toccante The Bed).
Lou Reed lo ha definito “un film per le orecchie” su cui si stende un mantello cupo e angosciante: in Caroline Says II c’è la rassegnata ribellione di Caroline alle violenze del marito, in The Kids i bambini sono portati via alla donna “perché la gente dice che non è una buona madre”. Sul finale di quest’ultima, dopo la violenta frase “that miserable rotten slut couldn’t turn anyone away” c’è un coro di bambini: da pelle d’oca il contrasto. Poi la struggente The Bed, Lou che regala un’interpretazione vocale magistrale e toccante, la contemplazione desolata della tragedia ormai consumata. Non sprecherà più tempo a pensarci, conclude in Sad Song, fine di una storia andata in malora. Non si capisce bene chi sia il narratore, se il protagonista oppure un osservatore distaccato e (a volte) compassionevole. Un osservatore che guarda tutto attraverso occhi da reporter filtrati da sarcasmo e ironia.
Berlin è un album perfettamente in bilico tra le suggestioni ancora velvettiane e la decadenza glam del periodo post Transformer, un disco duro, diretto, sagace, cupo.
“È qualcosa che ho sempre voluto fare, non è un concept album, ma qualcosa di completamente nuovo. Non ci sono trucchi cerebrali; è tutto molto diretto e reale. Sono stato attento nello scrivere i testi affinché fosse diretto e centrasse il punto, non ci sono giochi di fumo”.
Berlin è, in effetti, uno di quei casi in cui un disco funziona nella sua interezza piuttosto che attraverso i singoli brani: musiche e testi sono compenetrate, e così i brani nel loro ordine. All’enfant prodige Bob Ezrin, allora ventiquattrenne, Lou Reed affida la produzione del disco. Ezrin rimarrà così segnato da questa esperienza tanto che alla fine delle registrazioni dirà al cantautore: “La cosa migliore che possiamo fare è mettere i nastri in una scatola, chiuderla in un armadio, lasciarla lì e non riaprirlo più”.
Eppure il 1972 e l’anno successivo sono quelli del grande successo bramato fin dai tempi dei Velvet Underground; con Transformer c’è anche il riconoscimento delle sue indubbie doti artistiche, e il lancio nel firmamento delle rockstar più acclamate e ricercate del mondo.
A distanza di trentacinque anni abbiamo però imparato a conoscere questo sfuggente artista e sappiamo oggi, con il senno di poi, che la tanto bramata popolarità non poteva che soddisfarlo momentaneamente, restio a farsi imprigionare in quella gabbia nella quale la dicotomia tra coscienza artistica e necessità di sottostare alle regole di mercato nell’industria musicale si fa sempre più accentuata.
Il successo planetario seguito alla pubblicazione di Transformer ha reso Lou più sicuro di sé, ma anche più insofferente. Tale insofferenza, acuita dal massiccio uso d’eroina, metedrina e anfetamina, sfocia nella paranoia.
La prima a farne le spese è Bettye Kronstadt; il carattere complesso, trasgressivo e umorale di Lou si scontra sempre più spesso con la timida e sottomessa presenza della moglie, una tipica bionda americana di buona famiglia che veste in tailleur e filo di perle. Niente di più mal assortito, e la miccia perfetta per far esplodere la personalità sbandata del Lou Reed targato 1973, che già non ha più nulla a che vedere con la sfavillante “leggerezza” finora esibita di fronte ai media e al pubblico durante la promozione di Transformer.
Per questo il rock’n’roll animal affida a questo progetto tutte le sue speranze per una rinnovata creatività e per un ritorno a una letterarietà musicale più consona alla sua vocazione; quelle che Lou Reed presenta a Bob Ezrin, da lui stimato per la produzione dei corrosivi album di Alice Cooper, sono canzoni potentissime e decadenti, fortemente legate tra loro; è Ezrin a suggerirgli di svilupparle ulteriormente per trasformarle in “un film per le orecchie” le cui canzoni scandiscano lo sviluppo di una storia.
Ezrin crede nel progetto quanto Lou, e s’impegna con intensità ed entusiasmo, nonostante il progressivo crollo psicologico dell’artista e le atmosfere malate e alienanti dell’album lo coinvolgano in maniera sempre più totale costringendolo, alla fine delle registrazioni, a ricoverarsi per esaurimento nervoso.
Per incidere l’album chiamano una serie di musicisti che diventeranno la migliore band di Lou dai tempi dei Velvet Underground: Jack Bruce al basso, Steve Winwood alle tastiere e la coppia di chitarristi Steve Hunter e Dick Wagner venuti direttamente dal gruppo di Alice Cooper. Alla batteria si alternano B. J. Wilson del gruppo Procol Harum e Aynsley Dunbar, un batterista rock-blues. Il gruppo, contagiato dall’entusiasmo di Lou ed Ezrin, dà il meglio per ricreare le atmosfere che il “film per le orecchie” richiede.
In seguito Lou ha ammesso che “fu un suicidio psicologico” e che si fecero coinvolgere in modo così totale da riuscire a venirne fuori con fatica. “Fu un album molto doloroso da incidere”. Nonostante gli alti e bassi e i numerosi problemi durante le sessioni d’incisione derivanti dall’abuso di droga, e malgrado Lou sia costretto a re-incidere tutta la parte vocale a New York in un secondo momento, l’album è completato nei tempi stabiliti.
La casa discografica non è contenta del prodotto, quando l’artista lo presenta per essere pubblicato come un doppio album con inserti fotografici all’interno. La Rca vuole ovviamente un altro Transformer, un altro disco dalla patina scintillante e frivola che sia facile da lanciare nelle classifiche, e non un disco malato e depresso. Per convincere l’etichetta a pubblicarlo, l’artista è costretto a stipulare un contratto “capestro” che lo obbliga a pubblicare in seguito due prodotti commerciali.
Non contenta, costringe Ezrin a decurtare l’album di 14 minuti per farlo entrare in un solo lp; finiscono sul pavimento della sala d’incisione tutti gli intermezzi strumentali che univano le canzoni tra loro. La delusione di Ezrin e Lou è totale.
Un altro dei sogni di noi ascoltatori, che rimarrà purtroppo per sempre irrealizzato, sarebbe stato quello di ascoltare questa mitica e mitizzata versione integrale, di veder restituiti al disco gli intenti e la forma originale, a costo di andare noi stessi a raccattarli in qualche buio scantinato pieno di ragnatele per poi appiccicarli con il nastro adesivo. Sarebbe stato bello veder riproposta un’edizione speciale per il trentennale dell’album che sarebbe comunque entrata, con la tecnologia di oggi, in un unico dischetto cd.
Purtroppo non è accaduto e non lo sarà. È stato lo stesso Lou Reed a deludere le mie attese, e quelle di milioni di fan, durante un’intervista di due anni or sono, che ovviamente fece il giro del mondo: “È andato tutto perso… dovresti vedere come le case discografiche tengono i master originali; dentro grossi magazzini, accatastati ad arrugginire e ammuffire. Molte cose si perdono per sempre, altre si rovinano irreparabilmente”.
Una di quelle notizie che getta nello sconforto e fa indignare chi la musica la apprezza, e non accetta di vedere la storia lasciata ammuffire in uno scantinato fino a essere inutilizzabile.
Quando Berlin è pubblicato nell’ottobre del 1973, la critica si divide tra innocentisti e colpevolisti, cioè tra chi dà subito all’opera il valore che le spetta e chi, come l’autorevole Rolling Stone, lo definisce un “disastro”, un’opera cinica e malata, e lo boccia come “peggior album del 1973”.
La stroncatura e il livore che certa stampa specializzata riserva all’opera sancisce anche un cambiamento netto e irrimediabile nell’atteggiamento pubblico di Lou Reed, soprattutto verso i media: “Il fatto che Berlin non sia stato compreso è stata la più grande delusione della mia vita” dichiara qualche anno dopo la sua pubblicazione. Da quell’anno Lou Reed si trasforma in quel rock’n’roll animal scostante e dalla lingua affilata che tutti conosciamo.
L’album, va da sé, non raggiunge all’epoca neanche la metà del successo riservato al suo predecessore, ma ottiene nonostante tutto buoni piazzamenti in classifica. Come avviene in questi casi, il tempo sembra avergli dato ragione e il disco vince sulla distanza: è reputato oggi, meritatamente, uno dei migliori album di Lou Reed, se non il migliore. Tale destino era stato riservato anche al suo debutto del 1967 con i Velvet Underground, quel The Velvet Underground And Nico prodotto da Andy Warhol e con la banana in copertina che passò inosservato all’epoca, e quando non lo fece fu stroncato senza mezzi termini. Oggi è considerato uno dei dischi cardine della storia della musica.
Una delle recensioni dell’epoca definì il gruppo e il disco un “fiore del male”, mantenendo il parallelo artistico tra la letteratura delle canzoni di Lou Reed e il poeta francese Charles Baudelaire.
Anche in questo, Berlin condivide la stessa letteratura. E meno male.