Due anni fa Careless Love l’ha portata al lusinghiero traguardo del milione di copie vendute. Ora, il nuovo Half The Perfect World possiede tutto il potenziale per replicare e ampliare il successo di Madeleine Peyroux. Di nuovo l’artista americana gioca la carta dei cameo illustri (Till Bronner, Larry Goldings, Walter Becker, k.d. lang) e delle cover. Stavolta le sue interpretazioni pescano nell’ultimissimo materiale di Leonard Cohen (due brani scritti per e con Anjani Thomas, pubblicati appena quest’anno nel disco solista di lei), nel songwriting di Tom Waits e Joni Mitchell, e anche nelle composizioni di Charlie Chaplin, Serge Gainsbourg e Fred Neil. Solo quattro i brani inediti, ma le cover sono rese in modo talmente singolare che ha tutte le ragioni, la Peyroux, quando le chiama “la mia musica”.
All’uscita del tuo secondo disco, Careless Love, hai dichiarato che la sua lavorazione era stata piuttosto sofferta. Come sono andate le cose con Half The Perfect World? È stato più semplice stavolta?
È strano, ma penso ad Half The Perfect World come a un secondo disco, non come al terzo, perché Dreamland è uscito così tanto tempo fa (nel 1996 per la Atlantic, nda). Dopo aver pubblicato Careless Love sono stata in tour per un anno e mezzo. Per il disco nuovo volevamo fare le cose con calma, ci siamo rilassati, avevamo un po’ più di tempo. Sono andata a registrare in California e mi sono fermata lì per quattro mesi. È stato comunque difficile perché abbiamo cercato di raggiungere gli stessi obiettivi del disco precedente ma andando più in profondità, con più intenzione. Abbiamo cercato di espandere la musica aggiungendo più suoni, più strumenti, più materiale moderno e inedito. Credo che le quattro canzoni che abbiamo scritto siano una bella novità.
A proposito di inediti, I’m All Right vede come paroliere anche Walter Becker degli Steely Dan. Com’è nata questa collaborazione?
Lui ha lavorato molto con il mio produttore Larry Klein e lo stava facendo anche mentre io preparavo il disco. È stato naturale conoscersi. La sua canzone mi è piaciuta subito perché è scritta dal punto di vista di una donna.
Cosa ti piace di più di Half The Perfect World?
La filosofia che lo pervade. Per me questo disco è un posto in cui puoi pensare, un luogo in cui pensare a qualsiasi cosa della tua vita. Tre anni fa, subito dopo l’uscita di Careless Love, ho perso mio padre. Da allora ho iniziato a pensare a molte cose, ho scoperto degli aspetti di me che non conoscevo e ho considerato la vita in modo diverso. Quell’avvenimento ha influenzato molto i miei pensieri mentre il disco prendeva forma.
Come hai organizzato il tuo lavoro con Larry Klein? Ormai siete una coppia affiatata, visto che è il secondo disco che ti produce.
Sì, è stato un lavoro abbastanza bilanciato. A volte io arrivavo con qualche idea e lui la sviluppava, altre volte succedeva il contrario. Abbiamo scritto insieme le quattro canzoni inedite e ha avuto un ruolo importante anche nella scelta delle cover. The River, per esempio, l’ha suggerita lui. Io volevo fare un duetto con un’altra donna e abbiamo pensato entrambi a k.d.lang. La scelta del brano è venuta successivamente.
Come ti sei trovata a cantare una canzone di Joni Mitchell?
Joni Mitchell per me è una delle cantautrici più difficili da interpretare, e k.d. lang pensava la stessa cosa. Forse è questa la ragione per cui abbiamo deciso di farla. È stata una specie di sfida, e non mi riferisco tanto al fatto di duettare, la vera sfida è stata cantare una canzone che parla di colpa. A nessuno piace dichiararsi colpevole, è difficile essere onesti quando si canta di colpe. (Si estranea per qualche istante e poi risolve sdrammatizzando, nda) Infatti è difficile anche parlarne! (Ride, nda)
In The River Joni Mitchell canta la sua amarezza per aver scelto il music business invece che sua figlia. Hai mai la sensazione di stare rinunciando a qualcosa d’importante a causa della musica?
Tutti dovremmo pensarci, a quello a cui rinunciamo. È vero, viviamo in una società libera, abbiamo la libertà di scegliere come vivere, eppure penso che a volte essere musicista non sia una scelta, quanto piuttosto una croce da portare. È qualcosa che devi fare, e se non lo fai impazzisci. Io non suono solo per me, suono perché è la cosa migliore che posso dare. Se qualcuno domani mi dicesse che la mia carriera di cantante è finita, probabilmente troverei qualcos’altro che mantenga viva la mia anima. Deve sempre esserci creatività nella vita.
Ho sacrificato molto, sì. Ho trascurato la mia famiglia specialmente quando aveva bisogno di me. Ma il punto è: qual è la cosa migliore che posso dare? Se diamo il meglio di noi, forse qualcosa di buono ci tornerà indietro e forse qualcuno riceverà quello che diamo.
La tua biografia fa intuire un animo inquieto, ribelle, per lo meno negli anni passati: hai lasciato la famiglia, te ne sei andata a vivere a Parigi, hai fatto la musicista di strada. Di recente hai definito questo nuovo disco “un unisono di gioia”. Hai finalmente trovato la serenità?
Tutti quelli che conosco si sono calmati invecchiando, anche i più selvaggi. Io sto cercando di non diventare vecchia ma questa è la vita, non hai scelta. Immagino che nel mio caso sia la musica a calmarmi. Suonare mi rasserena. Hai presente spaccare una chitarra? Lo fai una volta sola. Se lo fai più di una volta hai dei problemi!
Hai trascorso molto tempo in Francia vivendo da busker. Ti manca mai quel tipo di vita?
Quando ero un’artista di strada ero talmente arrabbiata che sapevo che non l’avrei fatto per sempre. Non ero arrabbiata perché la gente non stava ad ascoltare, ero arrabbiata perché la gente non si rendeva conto di quanto significasse, quanto fosse potente quello che si stava verificando. Una delle cose che ammiro di più dei busker è che vanno avanti con quella vita donando senza sosta. Certo, non tutti i busker sono uguali, ma la mia esperienza mi dice che quel tipo di vita è reale, è musica, è amore, e quando suoni per la gente che si ferma per strada è come cenare con la tua famiglia. Ho avuto esperienze che non dimenticherò perché sono state così perfette, così emozionanti, così semplici. Il busking non appartiene alla cultura dalla quale provengo, quella americana. Quando mi sono trasferita in Europa e ho visto questa condivisione ovunque ho pensato che non è intrattenimento, è vita, è catarsi, è l’antica questione della tragedia greca: come superi i tuoi problemi, come ti relazioni con la vita, come la comprendi, chi sei e cosa significa tutto questo.
Questi musicisti creano un senso di comunità in un posto dove non ce n’è, in un posto in cui non conosci nessuno, all’aperto. La gente ne ha bisogno e non può trovare questo da nessun’altra parte. Ma è complicato essere un busker e a volte mi arrabbiavo davvero perché è difficile essere così diversi da tutti gli altri. La mia musica mi sta insegnando a non dare troppo peso a cose che non sono così importanti. Essere una busker è stato importante per me, questo non cambierà mai.
Con la tua versione di Dance Me To The End Of Love di Leonard Cohen, già in Careless Love, sei nella colonna sonora di Lucky You, il nuovo film del regista Curtis Hanson (8 Mile, L.A. Confidential) con Drew Barrymore, Eric Bana e Robert Duvall, a breve nei cinema. È vero che hai recitato nel film?
Sì, Curtis Hanson adora avere musicisti che suonano dal vivo nei suoi film. Non so granché della trama di Lucky You perché la mia era una parte piccolissima. È ambientato a Las Vegas e parla di un giocatore d’azzardo (Eric Bana) che incontra suo padre (Robert Duvall), anch’egli con lo stesso vizio. Non so molto altro. Nel film io interpreto la cantante di un club di Las Vegas, il protagonista viene sempre a sentirmi e ogni giorno devo dirgli “Hi, Huck!”, oppure “Good luck, Huck!”. Una roba terribile da pronunciare! (Ride e continua a ripetere le due battute sottolineandone la cacofonia, nda) Non so se mi hanno sentita lamentarmi, comunque me l’hanno fatta ripetere mille volte. Ma d’altronde questo è il cinema, non ha senso, e lavori tutto il giorno per una scena di tre secondi.