11/05/2007

Il viaggio mistico di Capossela

Sulla porta di casa è affissa una targa: “Conte Vinicio Capossela, Dottore in Rovinologia”. Di qualunque laurea si tratti, deve averla guadagnata ad honorem, sul campo. E sul campo Capossela è andato a caccia di suoni e suggestioni e persone che contribuissero a dare forma al suo sesto album Ovunque proteggi, un prodigioso miscuglio di musiche e parole che strappa definitivamente di dosso a Vinicio il vestito stropicciato da Bukowski de noartri, una giacchetta scomoda che oramai stringe. Oltre a produrre nuove, inaspettate suggestioni letterarie, l’album segna un’ulteriore espansione del vocabolario sonoro dell’artista. Coi suoi arrangiamenti stratificati, l’uso di strumenti provenienti da ogni angolo del globo, i suoni vividi e gravidi d’immagini, i timbri ricercati, il disco è destinato a togliere agli scettici ogni residuo dubbio sul fatto che Capossela non è solo un poeta – e già basterebbe e avanzerebbe visto il talento che ha nel maneggiare le parole – ma anche un grande musicista. Ovunque proteggi è il suo kolossal, di quelli che si giravano negli anni 50, un disco da grande schermo, d’immagini più che di storie, di sequenze sonore più che di canzoni (vedi anche recensione a pagina 83). È un album terragno, che racconta passioni forti, è terribile e primitivo. Ma è anche un album mistico che misura la distanza tra lo spirito e la carne, in cui il divino si fa carne. Ed è soprattutto un viaggio, immaginario e reale. Ogni canzone ne è una tappa ed è stata registrata nel luogo appropriato, laddove l’ispirazione poteva essere colta: un teatro, due chiese, una grotta a 60 metri sotto terra, alcuni studi di registrazione, l’appartamento milanese sulla cui porta sta scritto “Dottore in Rovinologia”.

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Mi riceve nella cucina di casa. Indossa un gessato. Non glielo dico, ma il taglio di capelli lo fa somigliare vagamente a un ebreo ortodosso. Paradossalmente, alla luce di alcune canzoni del nuovo album, la cosa non sembra affatto fuori luogo. Per quanto possa apparire strano, non è fuori contesto nemmeno la radio che mentre si parla gracchia in sottofondo le solite cose spaventose: la paura del terrorismo, la sindrome della quarta settimana, l’incertezza diffusa. Sul tavolo, un tè corretto rum. Vinicio parla. Non ha il tono impostato di altre nostre interviste, quando mi pareva d’assistere a una rappresentazione teatrale: brillante sì, ma col copione scritto e pronto per essere replicato. Forse si è tolto quella famosa giacchetta. La prende alla larga. “Quando cominciai” mi dice a proposito del rapporto con l’ex manager Renzo Fantini, collaboratore di lunga data di Paolo Conte che prese Vinicio sotto la propria ala protettiva quando nessuno scommetteva su di lui un centesimo, “erano tutti più grandi di me di almeno una ventina d’anni. Quando sei giovane inizi a fare di testa tua e finisci per sentirti dire frasi come questa: non posso dirti che ti parlo come un figlio, perché se fossi un figlio ti darei un sacco di legnate. Non c’è niente di più faticoso che andare avanti, visto quel che ci si strappa di dosso e che rimane indietro”.

Capossela ha cominciato a uscire dal tracciato al quarto album, Il ballo di San Vito, un lavoro musicalmente avventuroso, inciso a 29 anni d’età quando, secondo Vinicio, gli astri ti mettono addosso la voglia di cambiare. Fu un deragliamento memorabile. “Fu un disco rischioso” dice lui “nel senso che in quel periodo rischiai veramente la pelle: quel che canto è tutto vero. Il ballo di San Vito fu un disco a tempo. Nel senso che i pezzi furono registrati subito dopo essere stati scritti, nel loro primo vagito, anche se poi sono stati forgiati nel campo di battaglia dell’esecuzione pubblica. E nel senso che quei brani sono andati a tempo con la mia vita”.

Questa faccenda dell’andare a tempo è per Vinicio molto importante. È stata la volontà di incidere un disco che esprimesse il suo qui-e-ora, che fosse figlio del suo tempo, a dargli la sveglia cinque anni dopo Canzoni a manovella (70mila copie vendute) e a provocargli la “colica di immaginazione” che ha dato vita a Ovunque proteggi. “Negli anni scorsi ho avuto problemi ad andare a tempo, nel senso che scrivevo canzoni e non le pubblicavo nel momento in cui nascevano. Non per indecisione, forse per mancanza di un produttore che mi spronasse a farlo. E così, in questi ultimi anni non ho pubblicato dischi, ma li ho scritti e alcuni persino registrati in forma avanzata, oppure li ho rappresentati tramite spettacoli dal vivo. Voi non lo sapete, ma ho scritto un intero album transumando all’italiana alcuni brani di Matteo Salvatore, cui è dedicato Ovunque proteggi (vedi box a pagina 41). Le chiamo Canzoni della cupa e l’anno prossimo le pubblicherò”. Poi promette: “Prossimamente mi dedicherò più alla registrazione che alla dissipazione live della vita”. Oltre a quello su Salvatore, Capossela ha un altro disco in stato avanzato di lavorazione, ma preferisce non raccontare nulla.

Dicevamo dei progetti abbozzati, dei reading con accompagnamento di musiche e suoni che lo hanno portato in giro per l’Italia, dei concerti fatti persino in alta quota, a oltre 2mila metri: e poi che cos’è successo? “A un certo punto mi sono detto che era il caso di sospendere ogni attività pubblica. Per andare di nuovo a tempo ho rinunciato a registrare ciò che avevo già scritto e ho ricominciato tutto daccapo. Volevo tornare a descrivere con esattezza il punto in cui mi trovavo”. E dove si trovava il Conte Capossela, Dottore in Rovinologia? “Diciamo che nel mio immaginario sono entrati i sermoni, la ritualità dei funerali papali, tutto ciò che è gotico romantico e marcescente, gli spettri, un libro dai toni biblici come Moby Dick. Insomma, tutto ciò che porta all’origine dell’uomo e pone una prospettiva di rapporto col sacro. Mi sono concentrato su personaggi che sono disgraziati sì, ma di un certo spessore: la medusa, il minotauro. Non canto più di storie piccole come il locale di Chinaski. Canto di archetipi: che tutti mi possano capire, adesso”.

Un piccolo assaggio di quel che sarebbe stato Ovunque proteggi s’era avuto dieci anni fa, quando Capossela aveva scritto la canzone che chiude l’album e che gli dà il titolo. Quando fu incisa, dice chi era presente, tutte le persone in sala d’incisione avevano la pelle d’oca. Fu un raro momento di magia. Racconta Vinicio che la canzone “era avanzata dal Ballo di San Vito. O meglio, avevo la parte strumentale ma ogni volta che provavo a eseguirla mi commuovevo da solo e non trovavo parole da aggiungerci. Mi pareva che la musica dicesse già tutto. La registrammo perciò in forma strumentale e a un certo punto Evan Lurie affermò che forse il concetto del brano era: mi spiace per i miei peccati, mi spiace per le mie mancanze. Mi ci sono voluti nove anni per trovare il coraggio di cantare certe parole”. Gli ci è voluto un po’ di tempo anche per decidere quale forma dare all’album.

“Avevo il materiale pronto” dice “ma non sapevo dove registrarlo. Come il Vangelo secondo Matteo: lo avevano pronto, gli mancava solo Gesù Cristo. Lo trovarono la settimana prima”.

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Il suo Gesù Cristo Capossela è andato a cercarselo in giro per l’Italia in compagnia d’un tizio che vive a Mosca e che per la mole ha soprannominato il Gigante. Si chiama Marco Cervetti, è insegnante e studioso di lingua russa e cinese, non ha alcuna esperienza in campo musicale. L’Artista e il Gigante si sono incrociati a una festa italo-russa a Venezia. Assieme hanno plasmato l’album scegliendo musicisti, persone, luoghi, atmosfere. Sono stati l’uno il compagno di viaggio dell’altro: assieme sono andati a caccia di suggestioni in quello che Cervetti chiama Grand Tour, qualcosa di simile ai viaggi d’istruzione che i giovani facoltosi d’un tempo compivano in giro per l’Europa accumulando conoscenza ed esperienza. “Abbiamo girato tutta Italia in cerca di luoghi dove scrivere e registrare” spiega Cervetti al telefono, con voce da Gigante buono e colto. “Nel farlo, Vinicio ha compiuto una scelta sentimentale e culturale, e se vogliamo anche di ricerca nel campo del suono. C’è stata una sorta di abbandono guidato al viaggio e alla scoperta di luoghi. Realtà culturali e musicali si sono dipanate man mano davanti ai nostri occhi”. Pare di vederli, i due, girovagare per lo Stivale guidati dal caso. “No, dal destino” precisa Cervetti. “Lo dice anche il titolo del disco, che all’inizio doveva essere Ovunque proteggici: il destino ci portava ovunque e ovunque ci insidiava. Avevamo bisogno di una protezione dall’alto, altrimenti non ce l’avremmo mai fatta”. Spiega Vinicio che il lavoro “travalica la forma del disco: è più vicino all’immagine che al suono. Del resto, i temi trattati sono per loro stessa natura visionari. Ho voluto seguire l’indirizzo del cinema di Pasolini, che girava un campo in Siria e un controcampo nella Piazza del Duomo di Pisa. Non spendeva i soldi per la troupe, ma per andare in giro a trovare i volti e i luoghi giusti piuttosto che riprodurli in un teatro di posa. Ho voluto trasporre lo stesso concetto in campo musicale, uscire da quella specie di travestimento che è lo studio di registrazione”.

Con l’aiuto di Cervetti, Vinicio s’è gettato nella realizzazione delle canzoni scegliendo la strada più tortuosa: “Ho forgiato i pezzi nel momento stesso in cui venivano registrati, con grande disagio dei musicisti”. Gak Sato, musicista e produttore di Tokio che dal 1996 vive a Milano e che raggiungo al telefono qualche giorno dopo l’incontro con Vinicio, conferma. E ride. Non nuovo a collaborazioni con Capossela col quale ha condiviso l’esperienza dei reading musicali, Sato ha curato l’arrangiamento di Moskavalza e ha suonato in altri brani di Ovunque proteggi strumenti come il theremin e il balafon che è piuttosto raro trovare nella musica leggera. “Quando Vinicio scrive un pezzo” mi spiega Sato “la struttura non esiste oppure è molto vaga. La sviluppa nel momento stesso in cui si prova il brano. Sa perfettamente dove vuole arrivare, il problema è che non sa come arrivarci. Ma alla fine, cazzo, ci arriva sempre: è ammirevole”. È un talento apprezzato anche da Mario Brunello, violoncellista classico e direttore musicale dell’Orchestra di Padova e del Veneto che collabora attivamente con Capossela da circa un anno. C’erano lui e il suo violoncello la scorsa estate al Rifugio Sasso Piatto, in Val di Fassa, a musicar con Vinicio sonetti di Michelangelo. “Ci siamo incrociati per la prima volta su un palco, a Milano. Era un 25 aprile. Io scendevo, lui saliva: ci siamo annusati. Non avevo mai sentito un suo disco prima. Lavora in modo disordinato, è vero, ma non ho mai visto – nemmeno nell’ambito della musica classica – artisti che sanno altrettanto chiaramente dove vogliono arrivare. Lui sa quel che vuole e finché non ci arriva non si dà pace. Ha una lucidità incredibile. È stato bellissimo vederlo all’opera: per raggiungere il suono che aveva in testa spingeva chi suonava a stravolgere il proprio strumento. Il lavoro con Vinicio è tutto una fantasia. È un circo di gran classe”. Un circo itinerante, aggiungerei, che per incidere Ovunque proteggi s’è spostato da Milano a Nuoro, da Calitri (AV) a Rubiera (RE), da Roma a Scicli (RG), da Scordia (CT) a Treviso. “E mi sono dovuto contenere” dice Vinicio con l’aria di chi l’avrebbe fatta ancora più grossa se solo avesse potuto: “all’inizio pensavo sul serio di registrare Moskavalza a Mosca e Lanterne rosse a Pechino”.

Il risultato è stupefacente, un miscuglio di stili che apparentemente non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro, e che invece abbinati risultano suggestivi, eccome. Il caso di Brucia Troia è emblematico: è un brano sulla mitologia greca, vi si ascolta un balafon africano, è arricchito da voci a tenores della Sardegna, a un certo punto ci s’imbatte in una filastrocca dei pirati. Eppure non suona in modo pasticciato: tutto torna. “Chitarra e voce” racconta Capossela “sono state registrate nella grotta di Ispinigoli, a Nuoro, un autentico ventre della terra dove c’è la più alta stalagmite d’Europa”. Sì, ma perché in una grotta? “Perché è un posto molto primitivo, come la canzone richiedeva. E perché suona benissimo: il suono lì cresce di armonici senza perdersi nell’eco troppo lungo che hanno ad esempio le grandi chiese. L’ambiente è un colore timbrico piuttosto importante e in quest’album l’ho usato per la prima volta consapevolmente. Se riascolto i pezzi e chiudo gli occhi, sento il luogo in cui sono stati incisi”. Ma che cosa significa registrare in una grotta e non in studio? Lo chiedo a Marco Tagliola, il fonico di Ovunque proteggi. Mi richiama dopo qualche minuto: era al telefono con John Parish, il produttore di PJ Harvey col quale collabora da tempo. Con Vinicio ha iniziato a lavorare ai tempi dei reading. Dice: “È evidente che l’ascoltatore non si rende immediatamente conto di dove è registrato un pezzo, eppure fa una grande differenza. In due sensi. Anzitutto cambia l’emozione che gli artisti riescono a dare. Ti assicuro che registrare in una grotta è un’esperienza eccezionale, è come stare su un altro pianeta. E quando chi suona prova certe emozioni, alla fine le trasmette nell’esecuzione. E poi c’è un fatto tecnico. Prendiamo Brucia Troia. Abbiamo registrato la chitarra elettrica di Marc Ribot con un microfono piazzato vicino all’amplificatore e uno d’ambiente. Se l’avessimo registrata in studio, avrebbe avuto un suono completamente diverso. Lo so perché ho ascoltato la traccia di chitarra escludendo le registrazioni d’ambiente. Un altro caso clamoroso è Nel blu: l’ambiente in cui è stata registrata l’orchestra fa il suono che senti nel cd. Si tratta del Teatro delle Voci di Treviso, che è stato costruito appositamente per le riprese di orchestra e permette un’acustica variabile. La ripresa è fondamentalmente basata su due microfoni piazzati sopra la testa del direttore, Mario Brunello”.

L’importanza dei luoghi – come centri d’immaginazione e come location delle registrazioni – è andata di pari passo con la costruzione di alcune canzoni basate non più sulla canonica forma canzone, quanto sulla possibilità di trasmettere a chi ascolta immagini intense e vivaci. “Effettivamente non m’interessava tanto la forma della canzone” dice Vinicio “quanto comunicare una visione. Anche nei pezzi con una struttura più codificata, essa doveva essere messa al servizio dell’immagine che volevo creare”.

La realizzazione del disco è stata segnata dall’incontro. La registrazione ha coinvolto una quarantina di musicisti in una dozzina luoghi diversi, eppure non c’è stata alcuna programmazione, né un piano razionale in grado di gestire tanta complessità. Il fatto che le cose siano filate lisce secondo Capossela è segno che “abbiamo lavorato sotto una qualche forma di benedizione. C’è stato un momento in cui ho compreso che, quando chiamavo le cose, si facevano trovare”. A un certo punto s’è fatto trovare un altro personaggio perlomeno bizzarro. “A sconvolgere il nostro Thelma & Louise al maschile” ricorda Cervetti “è arrivato il Mago. Si presenta una sera, a Rimini. È americano, si chiama Christopher Wonder ed è famosissimo negli Stati Uniti”. È un tizio dai baffi sottili e dallo sguardo spiritato. Uno che addormenta a comando oche e galline. La sua più grande magia, scrive il L.A. Weekly, è far sparire decine di bicchieri di whisky in un sol sorso. È uno che ha girovagato per la provincia americana alla guida di un camioncino dei pompieri degli anni 40. In spiaggia, dice Tagliola che con lui ha passato l’estate, ci va con costume anni 50 a righe e cappello a cilindro. È uno che non fa il ventriloquo con un pupazzo, ma con due. Uno perfetto per Vinicio. “Questo è un disco di esperienze” sentenzia Cervetti “di educative non ne ricordo, di diseducative molte”.

È stato Cervetti a suggerire a Capossela di utilizzare un er hu (si pronuncia: arcù), sorta di violino cinese che abbellisce Lanterne rosse e Dove siamo rimasti a terra Nutless con un suono lontano ed evocativo, delicato e struggente. Quando emerge dal mixaggio è come un’apparizione magica. Se l’er hu c’è, è merito del destino. Capossela: “Siamo andati in Germania a trovare un compositore di musica contemporanea triestino e scoprimmo per caso non solo che aveva scritto musica per er hu, ma che conosceva un esecutore a Berlino. Così abbiamo scovato il signor Wu Wei. Ho registrato piano e voce di Lanterne rosse in questa casa, nel cuore della notte: se l’ascolto, ci sento la stanza e la strada fuori. Poi è arrivato Mister Wu e ha sovrainciso l’er hu raccomandandosi di tenere il suono del suo strumento basso nella fase di missaggio, proprio come se suonasse nella stanza accanto. Altrimenti, disse, il suono può essere troppo lezioso e kitsch. È perlomeno singolare che fosse proprio lui a dirlo. A me interessava creare il senso dell’attesa, la sensazione che niente fosse rivelato, la sospensione, proprio come accade con le ombre cinesi”.

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Ascoltate la voce. La voce di Capossela ha una straordinaria potenza evocativa in questo disco. Risalta in particolare – e, per così dire, per esigenze di copione – in S.S. dei naufragati, uno degli episodi più belli, spaventosi e difficili di Ovunque proteggi. Si tratta di una rielaborazione del pezzo inciso da Vinicio con la Banda Ionica nell’album Matri mia, reso per violoncello, theremin e harmonium. Capossela narra d’un capitano deciso a portare la sua imbarcazione e i suoi marinai verso la morte. “A parte la naturale evoluzione della voce” commenta Vinicio “per una volta io e Marco Tagliola abbiamo cercato di stare attenti alla voce, per lasciarle il suo spazio, senza annegarne le frequenze. Assieme avevamo lavorato sulla narrazione sonora nei reading, poi nelle Radiocapitolazioni (vedi box a pagina 38) e infine nella rappresentazione teatrale dei brani di Non si muore tutte le mattine. Non facevo concerti da un anno e mezzo e quindi forse non ero più abituato ad essere accompagnato dal frastuono di una banda, anche se in fin dei conti con Ovunque proteggi ho realizzato il disco con più strumenti della mia carriera. Credo di avere sempre avuto il difetto della poca comprensibilità. Ho sempre invidiato il primo De André per la dizione, la grande chiarezza espressiva, favorita dalla semplicità degli arrangiamenti. Il problema è che quando uno canta, sa già quel che andrà a dire, non sente la necessità di spiegarsi e quindi si sforza di farsi coinvolgere nell’interpretazione, e così facendo spesso rovina la canzone. È lo stesso problema del teatro: l’interprete deve rendere giustizia all’autore facendo un passo indietro. La giovane età invece ti fa eccedere nell’interpretazione, la qual cosa rende ancora più meritoria la gioventù di De André: i suoi primi dischi sono di un’intelligibilità straordinaria. Spero di avere fatto qualche passo avanti”. Anche secondo Tagliola “in questo disco Vinicio ha raggiunto picchi notevoli nell’uso della voce: oggi è molto matura. Abbiamo fatto un gran lavoro sull’intelligibilità. Era un punto focale per il disco e soprattutto per la S.S. dei naufragati. Vinicio è un cantante trasformista, raggiunge tonalità diverse, nelle basse frequenze ha una chiarezza che pochi interpreti di sesso maschile riescono a raggiungere. Abbiamo cercato di dare più spazio possibile alle emozioni che la sua voce trasmette. Abbiamo voluto dare a chi ascolta il disco la sensazione che Vinicio stia cantando lì, davanti a lui”.

La parte musicale della S.S. dei naufragati è stata curata in particolare da Brunello, che nel brano suona il violoncello. Racconta: “Vinicio voleva rendere l’idea di una nave dondolante sul mare e al tempo stesso della leggerezza che hanno le imbarcazioni quando scivolano sull’acqua. Il mio strumento ha 400 anni e un suono scuro, profondo, codificato. A lui non bastava. Mi ha spinto a tirare giù le corde di due toni finché è venuto fuori questo suono un po’ slabbrato: Vinicio si è illuminato, aveva trovato quel che cercava. All’inizio l’idea era di incidere il pezzo in una barca. Andammo a cercarla in laguna, a Venezia. Di Capossela mi colpiscono due cose. Sa rendere graffianti e attuali forme musicali che sembravano relegate alla memoria come valzerini e polke polverose, che prendono vita e colore. Mi colpisce poi il suo modo di cantare le melodie: usa la voce come uno strumento ad arco, non lascia mai interrotta una melodia, la continua con mugolii, respiri, suoni. Mi pare, infine, che si sia staccato dall’uso tradizionale degli strumenti: si è spinto a estremizzarne la voce”.

Tra gli strumenti utilizzati nel disco c’è lo shofar. È uno strumento a fiato citato dalla Bibbia il cui suono dà il benvenuto a chi inizia ad ascoltare l’album. “È un corno d’ariete dal suono primitivo” spiega Capossela. “Nella ritualità ortodossa viene utilizzato il giorno del capodanno, che è il giorno della chiamata e non ha niente a che fare col nostro, di capodanno. Emette una sola nota, si può variare solo l’intervallo, che può essere più o meno lungo. Mi hanno spiegato che l’intervallo esprime il grado di opposizione alla chiamata del giudizio divino. Chi non è refrattario alla chiamata viene richiamato da un suono lungo, mentre le anime indecise sono chiamate da un suono a intervalli brevi, sempre più isterico. È un lamento quasi caprino, disperato, terribile. Del resto questo è un disco di belati”.

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Facile farsi ingannare da meduse e minotauri, marinai suicidi e cristiani nell’arena, Cristi portati in processione e belati. Ovunque proteggi è un disco che va a tempo col mondo che ci circonda, parla di quel che sta accadendo a tutti noi in questo esatto momento. È un disco a modo suo politico, ovviamente in modo molto sottile e appena suggerito. “Un amico russo” spiega Vinicio “mi ha fatto vedere un film bellissimo di Tarkovskij intitolato Andreij Rubliov (1966). Attraverso la storia di un pittore di icone si offre un ritratto del regime sovietico. Mi piacciono molto le metafore, questo modo di dire in maniera indiretta”. Capossela ha fatto la stessa cosa. Il suo Andreij Rubliov è andato a cercarlo nel Vecchio Testamento, libro terribile e sanguinolento. “Non trovo altre parole che quelle bibliche per rapportarmi alla situazione che stiamo vivendo. La S.S. dei naufragati è una metafora, proprio come Moby Dick. Quando sei su una barca, se quello che è al timone ti vuole portare al disastro, ci andrai. Viviamo in tempi spaventosi come quelli descritti dalla Bibbia. Ovunque proteggi è un disco molto contemporaneo. Ma per parlare dell’oggi abbiamo scelto metafore che vengono dal passato. Archetipi. Le canzoni riflettono il mio modo di percepire la contemporaneità. È un momento in cui si ha a che fare con temi come la religione. È impressionate la grande forza poetica che c’è, ad esempio, nei proclami lasciati dai kamikaze islamici prima di farsi esplodere: i passi del Corano che recitano sono dotati di una forza poetica violenta. L’idea cristiana di religione è legata al Nuovo Testamento e prevede un Dio dell’amore. È un’idea lontana dal Dio di altre religioni che è signore degli eserciti, che annienta, che atterrisce, di cui è meglio invocare la protezione, è meglio che armi il tuo braccio piuttosto che quello altrui”.

Racconta Cervetti che l’interesse per la Bibbia matura in un convento fondato da San Girolamo sui monti delle Cesane, nelle Marche. Lo trovarono per caso, o forse sarebbe meglio dire per volere del destino. “Eravamo da amici a Urbino e un giorno Vinicio andò a fare un giro in auto imbattendosi in questo bellissimo monastero completamente restaurato dal signor Girolomoni. Fu lui a farci scoprire realtà letterarie interessanti tra cui i Salmi e il testo dell’Ecclesiate tradotto da Ceronetti. Ci colpirono a tal punto da ‘mistificare’ il nostro Grand Tour. Anche le canzoni di Ovunque proteggi più legate al moderno hanno un sottofondo non dico religioso, ma tendente al mistico”.

In questa visione potente e terribile della religione, che prende forma nelle parole marchiate a fuoco di Non trattare, emerge un interesse non per la spiritualità, ma per la fisicità. “Mi interessa la carne” dice Capossela “la fisicità della religione. Lo spirito senza carne non brucia”. È straordinaria in questo senso L’uomo vivo, una canzone dedicata alla cerimonia del Cristo risorto che si tiene a Scicli, in provincia di Ragusa. A Pasqua, il Cristo rinasce e diventa “uomu vivu”. Accompagnati dal suono di una banda, i paesani portano a spasso la statua al grido di “gioia!” (da cui il nome dato al Cristo di Scicli: il Gioia). L’arrangiamento del brano è stato curato da Roy Paci che racconta: “Vinicio ha insistito per inciderla con la banda del luogo. L’abbiamo registrata nella chiesa di Scicli, in una situazione per certi aspetti precaria. Ma Vinicio è uno che usa il disordine per creare l’ordine. Per dire, durante la registrazione di Canzoni a manovella, per incitare i musicisti ha indossato una giacca da domatore e ha tirato fuori una frusta. Ascolti le sue canzoni e ti arricchisci: non mi capitava dai tempi di De André e Fossati. Diciamolo: ora come ora i suoi dischi sono più innovativi di quelli dell’artista a cui è stato paragonato: Paolo Conte. E poi Capossela è uno che dal vivo dà tutto. Non è mai sazio di servire il pubblico”. Secondo Tagliola, “la forza di Vinicio è che sa sorprendere. Fa cose inaspettate. Si interessa di tantissime cose e quindi riesce a pescare idee e soluzioni in campi letterari o musicali che altri non utilizzerebbero. Con lui devi, per così dire, essere sempre pronto a non essere pronto”.

La scelta di raccontare la storia dell’uomo vivo è l’ennesima riprova dell’enorme curiosità di Capossela. “È una persona avida di nuove esperienze” dice Cervetti. “È un neutrino: lui va, passa ovunque, raccoglie a volte disordinatamente tante cose, è una spugna di emozioni. Il suo pregio è quello di saper mettere in musica e parole questo guazzabuglio di sentimenti, di cose viste e sentite, di persone conosciute. Le persone sono le cose che più conosce e più ama. Impara quotidianamente da chi gli sta attorno. La sua produzione è molto umana. Diciamoci la verità: l’uomo vivo è il Gioia, ma è un po’ anche Vinicio”.
E così sia.

Appena gli chiedo di Spessotto, Vinicio si alza da tavola. Spessotto era un compagno di classe di Capossela. Protagonista di una delle canzoni più divertenti e accessibili di Ovunque proteggi, scelta come brano guida dell’intero disco, diventa l’archetipo di chi è “nato dalla parte di sotto”, quelli a cui la vita non ha regalato la possibilità di essere retti, quelli che combinano impiastri fin da piccini. Capossela descriveva gli Spessotto già nel suo libro Non si muore tutte le mattine: “I vigliacchi che non dicono la verità e si fanno scoprire subito, che escono di casa di soppiatto, che non sono a posto, che non la dicono chiara, sempre sinceri nella viltà (…) Che non dicono dove vanno, che si attardano accolpati… sparacchiano a vanvera intenzioni più grandi loro, e stanno tra i vicoli e i crepacci del borgo, dove la luce non arriva bene”.

Vinicio si alza, dicevo. Si alza e prende dal pianale della cucina una vecchia fotografia in bianco e nero. Sarà vecchia di trent’anni. C’è un gruppo di bambini in grembiule. “È la mia classe della prima elementare” spiega. Vinicio è in basso a destra. Mi indica un ragazzetto al centro, sguardo corrucciato e aspetto sgarruppato: è Spessotto. “L’anticristo. Fu allora che mi feci l’idea che il mondo si divideva in due: quelli che stanno dalla parte di Davide e quelli che stanno dalla parte di Spessotto. I primi erano quelli ben pettinati che non finivano in mezzo ai casini, non c’erano episodi vergognosi nella loro vita, non bisognava fare la colletta per comprargli i libri. Erano dalla parte del giusto. Gli Spessotto erano quelli nati dalla parte di sotto. Con l’età l’idea si è fatta più ampia: nella prima parte della canzone si parla delle disgrazie dell’infanzia, nella seconda si dice che siamo tutti cacciati dal paradiso e quindi siamo tutti dalla parte di Spessotto: non più figli del Cielo ma di quei due farabutti di Adamo ed Eva”. Ma in fin dei conti, dice la canzone, il paradiso è qua in terra, e lo dice in modo deliziosamente furfantesco nel ritornello che suona, secondo Vinicio, come il canto di chi va spensierato a spasso sul disastro. “È un allegro motivetto suggeritomi da quattro vecchi signori, che io ho chiamato la Banda della Posta perché stanno sempre davanti alla Posta del paese di mio padre (Calitri, in provincia di Avellino, nda). Sono quelli che hanno suonato al suo matrimonio. Vecchi incarogniti. Uno dei loro pezzi preferiti è vecchia canzone napoletana chiamata Due paradisi. Parla di un gruppo di suonatori chiamati da San Pietro per allietare i beati in Paradiso. Quando viene sera, i musicisti vogliono tornare a Napoli. Ma come, dice San Pietro, siete in Paradiso e volete tornare laggiù? E loro, con fare confidenziale: San Pie’, il paradiso nostro è quello là”.

Ognuno ha il paradiso che si merita. E Vinicio sa da che parte stare. “Mi intriga il fatto di essere dalla parte del giusto o dell’empio, di sopra o di sotto, di Davide o Golia. Mi intriga la figura dell’empio. Temo mi sia più simpatico del santo”.

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E poi c’è Dove siamo rimasti a terra Nutless, la canzone sul sempiterno dilemma: scegliere di cimentarsi in qualche impresa armandosi di serietà e lealtà oppure buttarsi a piedi pari nel Campari e fottersene allegramente?

Nutless è anzitutto una storia d’amicizia raccontata in vari capitoli di Non si muore tutte le mattine. È la lotta tra l’Impresa con la i maiuscola architettata da Nutless, “qualcosa di più grande di noi”, un sogno senza il quale l’uomo è “straccio strizzato”, e la teoria del suo amico Nudols (che poi è Vinicio), secondo la quale bisogna seguire la gioia, l’impennata, lo sparo, il botto – godersela, insomma, negli intervalli che la vita ci dà e che uno si prende. Domani Capossela compie 40 anni tondi tondi e la canzone ha tutto l’aspetto dell’esorcismo del passare del tempo che subdolo fa cedere il capo “al sonno, al vapore, alla cucina, al caldo, al televisore”.

“Nutless mi riguarda molto” ammette Vinicio prima di recitare solo per me un passo di C’era una volta in America, il film che fa da sfondo dell’amicizia e il cui tema musicale di Ennio Morricone è incorporato nella canzone. “Ci sono voluti più di due anni per vincere il pudore di cantare di queste cose, per trovare le parole giuste che raccontassero esattamente la vicenda. La storia è del mio amico e specularmente mia”.

Le tazze sono vuote. È tempo di andare. Gli chiedo della vecchia giacchetta, quella che oramai gli va stretta. “L’immagine alla Bukowski” dice “l’abbiamo in realtà cambiata già molte volte. E poi non ho idea di come mi percepiscano gli altri, faccio già molta fatica a percepire me stesso. So che la vita ha le sue stagioni. Ci sono fasi. Si cerca di andar più in fondo a una suggestione piuttosto che a un’altra. In un tempo sono stato Perhan, per citare Il tempo dei gitani, e in un altro tempo Arturo Bandini. Quello che conta è andare ogni volta, con ogni lavoro, al fondo di una suggestione. Avere un’immagine fissa e obbligarsi a tenerle fede fa perdere molte cose a te e a chi ti segue”.

Ecco, chi lo segue: pensa Vinicio che chi ascolta i suoi dischi possa dire di conoscerlo? La prende un’altra volta da lontano. All’inizio ho l’impressione che non mi stia rispondendo affatto. Poi capisco che mi sta dicendo una cosa importante sul senso della sua arte: “Io spero che il mio pubblico mi dia una qualche credibilità come profeta, come rabdomante: uno che viene mandato in avanscoperta per scoprire quel che c’è d’interessante. Il compito di un artista è aprire delle porte”.

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Scoprirò poi che Vinicio ha portato il disco finito alla sua casa discografica facendosi accompagnare dal Mago. Suspense, mistero, magia, bizzarria. I due entrano nella sala dove si tiene una riunione dei discografici. Armato di cilindro, Wonder intrattiene i presenti con una serie di giochi di prestigio, con tanto di pioggia di coriandoli finale. Da un foulard il Mago estrae come per incanto il compact disc contenente la versione finale di Ovunque proteggi. Et voilà.

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