15/06/2007

Intervista esclusiva a David Bowie

We can be heroes

Premessa: ho incrociato per la prima volta David Bowie nel backstage del concerto degli Who al Madison Square Garden di New York nei primi giorni di ottobre, quando da pochi giorni era diventato papà – per la seconda volta – di una bellissima bambina, Alexandria.

Forse sarà stata questa circostanza a renderlo particolarmente magnanimo nei miei confronti di giovane e perennemente entusiasta giornalista di madrelingua italiana o il fatto che David Bowie fosse come me, in quel frangente, ospite e amico di Pete Townshend. Sta di fatto che la mia proposta di intervistarlo per JAM è andata liscia e ho avuto così ilbenestare per un successivo incontro londinese, per me rivelatosi un’esperienza unica, forse irripetibile.

A fine novembre, in una Londra fredda ma, a differenza del solito, soleggiata, mi reco così all’indirizzo dove devo incontrare David Bowie. Il numero corrisponde a un enorme palazzo bianco, situato in una via centrale. Occorre girargli attorno per capire dove si trova il portone principale, nascosto sotto una volta appena passate le vetrine di una caffetteria della catena americana Starbucks, attualmente assai in voga a Londra.

Ho un codice di accesso da digitare sul citofono, prima che una forte luce s’accenda a illuminarmi il viso e una voce – che, non a caso, sembra provenire da Marte – mi chieda di specificare le mie generalità e il motivo della visita. Fin qui tutto normale e very professional, non fosse che, al di là di un paio di porte, io mi ritrovi praticamente in quello che mi pare uno studio/appartamento molto confortevole, nel quale c’è perfino quel poco disordine che fa sentire subito a proprio agio, poiché implicitamente invita a maggior confidenza e minore formalità.

Un giovanotto gentile – e non la famigerata Bowie factotum, la temutissima Corinne ‘Coco’ Schwab – mi invita a sedere, chiedendomi se per caso non mi dispiacerà attendere qualche minuto. Ovviamente no, attendere David Bowie per qualche minuto non mi dispiacerà affatto (detto inter nos: avrei potuto anche fermarmi lì per qualche giorno pur di riuscire a intervistarlo). Osservo un po’ di foto sulle pareti, non più di cinque o sei e tutte relative alle copertine di album e giornali. Una, recentissima, ritrae Bowie insieme alla bellissima moglie Iman ed è la copertina di una famosa testata musicale tedesca.

Di lì a pochi minuti, previo squillo magico e successiva comunicazione via interfono, mi alzo per seguire questa specie di giovane portiere aitante ed entro in una stanza rotonda, non troppo larga. Molti gli scaffali con dischi alle pareti. Sul pavimento, cuscini e tappeti colorati che s’incrociano l’uno sopra gli altri. Una ragazza continua a lavorare a una scrivania, incurante della mia presenza. In un angolo, seduto su un divano, c’è David, capelli sciolti e vestito casual, che mi saluta sorridente.

Confesso: Bowie sarà pure neo papà nonché marito di una delle donne più belle del mondo, ma questa è la riprova bella e buona che il buon senso, nel mio caso, non sempre riesce ad avere il sopravvento sugli istinti. David Bowie mi sembra un angelo, ma uno di quegli angeli del quale non ci si interroga sul fatto che abbia o non abbia un sesso poiché, data la vicinanza, è immediato notare quegli occhi pungenti, differenti tra loro, e il sorriso lievemente canzonatorio di un uomo che ha una sfrontata sensualità praticamente dipinta in faccia. L’età non conta né, dal punto di vista del fascino, la statura del personaggio. Perché quando si ha la fortuna di scambiare uno sguardo con David Bowie, il primo approccio è intenso, una specie di linguaggio dei sensi universale. Non importa esser maschi o femmine. La sua fisicità riporta immediatamente a un déjà-vu di istinti primordiali senza lasciar tempo a un minimo, naturale decorso di osservazione, né dubbio alcuno.

Detto questo, mi siedo di fronte a Bowie e iniziamo a parlare. Mi congratulo per la recente paternità e, subito, un guizzo di gioia prende colore sull’espressione del suo viso. “Alex”, dice spontaneamente, “è in assoluto l’essere più grazioso che io abbia mai visto, la prima ragazza che mi tenga sveglio dalle 5 della mattina. Ha soli due mesi però – uh! – che caratterino…”

Sapendoti neo papà ti immagino, dunque, rivolto al futuro e vorrei chiederti come mai, nel frattempo, hai deciso di far uscire un disco come Bowie At The Beeb, i cui brani, tratti da alcune BBC sessions che hai registrato dal ’68 al ’72, sono chiaramente legati al tuo passato?
L’uscita delle BBC Sessions era in progetto già da un po’. Ad ogni modo, in risposta alla tua domanda, ho voluto aggiungere un extra disc, che è poi la registrazione di un mio concerto tenuto il 27 giugno scorso a Londra.

Ho visto in anteprima il nuovo videoclip tratto dal tuo imminente album Toy e mi è piaciuto. Come sta andando la lavorazione dell’album e quando prevedi uscirà?
Stiamo registrando da un po’ a New York, dove tornerò appena possibile anche per questo motivo. In verità l’album sarebbe in pratica già quasi pronto. Dieci brani sono già a posto. I tempi di uscita hanno però a che vedere con la burocrazia dei megacolossi delle compagnie disco-grafiche. Tuttavia, il mese di marzo è sicuramente la data più probabile per l’uscita di Toy.

Riascoltando alcune tue canzoni dei primi anni 70, ho avuto l’impressione che all’epoca non ti saresti mai immaginato nel 2000… Ovviamente si tratta di capolavori dal punto di vista musicale, ma le atmosfere dei brani sono tutte molto cupe e non si trovano visioni relative a un possibile futuro.
Capisco cosa intendi dire. Non so… Molto pessimismo aveva a che fare con la mia persona e con la vita che conducevo in quegli anni. Avevo una bassissima autostima. Vivevo malissimo il rapporto con la mia immagine, sentendomi per lo più inadeguato. L’unica cosa che riuscivo a fare per esprimermi e per sentirmi vivo era quella di lavorare. La mia musica esprimeva ciò che provavo.

Cosa provi, oggi, se ascolti alcuni di quei brani?
Non è che riascolti spesso le mie vecchie canzoni. Di certo non ascolto Ziggy Stardust (sorride). Se mi capita invece di ascoltare album come Station To Station, ad esempio, ho la sensazione che si faccia riferimento a pensieri e stati d’animo di qualcun altro, che oggi non mi appartengono più.

Ho letto che hai rivalutato Low dopo che Trent Reznor ti ha praticamente detto che quello, per lui, è stato un album fondamentale per la sua carriera. È vero?
Sì, è vero. Sono andato a riascoltarmelo per capire cosa intendesse e… beh, in effetti è un album stramaledettamente buono, per la miseria! Son proprio contento che sia mio! (Ride)

Tornando per un momento agli ultimi anni, devo dirti che ho trovato Outside un capolavoro e penso davvero si tratti di uno dei migliori concept album mai prodotti. Ci sarà un Outside 2, come avevi originariamente annunciato?
Sì. Io e Brian (Eno, nda) abbiamo registrato moltissimo materiale. Siamo due lavoratori indefessi. Nel mio caso, il lavoro è tutto. La vacanza, per me, consiste nel mio lavoro perché amo maledettamente quello che faccio e mi ci diverto un sacco, specialmente negli ultimi anni. I miei progetti in corso sono sempre tantissimi. Per cui, col tempo…

Mi pare che tu e il regista Robert Wilson aveste in programma un progetto relativo a Outside e so che, tra poco, Wilson e Lou Reed presenteranno in anteprima un loro spettacolo ad Amburgo…
C’era in cantiere l’Outside Project per il Festival di Salisburgo, quest’anno. Però non si è realizzato. Per quanto riguarda il futuro, faccio di nuovo riferimento a quanto ho pre-cedentemente affermato.

Quali sono le tue più recenti esperienze cinematografiche?
Ho girato due film. Il primo è un film canadese per bambini intitolato Exhuming Mr. Rice: una storia molto drammatica che parla di due giovani vite costrette a combattere contro il cancro fin dalla tenera età. Il secondo è una sorta di gangster movie dal titolo Everybody Loves Sunshine ed ha una stupenda colonna sonora.

So che apprezzi molto i Placebo. C’è un gruppo o un musicista coi quali non hai ancora collaborato ma con cui vorresti farlo?
La fantastica Macy Gray. Se non avessi incontrato prima Iman…

Quali sono, in campo letterario, i tuoi generi preferiti?
Ultimamente leggo saggi storici e tesi sull’arte e la pittura moderna e contemporanea. I miei scrittori preferiti sono Genet, Beckett, Voltaire…

Il tuo ultimo album, prima di At The Beeb, è stato Hours. La canzone – e in particolar modo il video – Thursday’s Child sembra intrisa di nostalgia e mette in evidenza una coppia che, si presume col passare del tempo, non ha più molto da dirsi e da condividere. Se è vero che, poco fa, mi hai detto che le tue prime canzoni esprimevano ciò che sentivi, ora vorrei capire il tuo punto di vista rispetto alla coppia, allo stare insieme nel tempo, al difficile impegno che comporta una relazione…
L’idea del video è stata del regista Walter Stern e, sì, in effetti la narrazione rimanda alla nostalgia per un passato che non c’è più, agli errori inevitabilmente commessi. E al dato di fatto che quella storia d’amore, col tempo, non è stata più tale. Si tratta di un video molto cinematografico, se ci fai caso.

Allora anche in coppia “possiamo essere eroi per un giorno soltanto”?
Hey! Che bella citazione… mi piace quella canzone. Chi l’ha scritta? (Ride)

L’hai scritta tu!
Oh… per fortuna. Dunque, qual era la domanda?

Ti chiedo, seriamente, se gli esseri umani – in questo caso una coppia di innamorati o meglio ex-innamorati – possono davvero essere eroi appena un giorno nella loro vita, per una manciata scarsa d’istanti rispetto all’intera esistenza. Insomma, io credo che tu oggi non sia più la persona giovane e insofferente di un tempo, ma qualcuno che appare, almeno così a colpo d’occhio, piuttosto soddisfatto e dunque… svelaci il segreto di come poter essere eroi il più a lungo possibile.
Possiamo essere eroi per sempre. Accade quando la smettiamo di scegliere l’infelicità. Voglio dire… può suonare tutto un po’ troppo demagogico e, in realtà, mio figlio Joe, che è un bravissimo filosofo, ti darebbe risposte migliori delle mie. Ma è vero che, a un certo punto, siamo tutti condizionati da un certo tipo di comportamento, al quale magari siamo stati assuefatti fin da piccoli o che ci perseguita ma che, al tempo stesso, è diventato talmente radicato che non ci poniamo seriamente nell’ottica di poter scegliere diversamente. Non è facile.

Dunque si può star meglio a cinquant’anni che a venti o a trenta?
Nel mio caso sì. Diciamo che tutto quanto di positivo ho avuto in questi ultimi anni è stato un po’ come un premio, ottenuto grazie allo sforzo di scegliere diversamente.

A questo punto la ragazza nella stanza ci offre una tazza di tè e dei piccoli panini. Credo sia già trascorsa un’ora ma non mi rendo conto perfettamente dello scorrere del tempo. Beviamo il tè e proseguiamo la conversazione.

Ho navigato attraverso le pagine web del tuo sito ufficiale, BowieNet (www.davidbowie.com): è davvero bello. Mi chiedo se sei davvero tu a curare in prima persona le molteplici sezioni culturali, quelle relative ai migliori siti letterari e artistici consigliati, o se vi sono altre persone a lavorarci, immagino secondo le tue direttive.
Ho dei collaboratori, i cui nomi sono specificati nei credits, ma mi collego personalmente ogni giorno perché adoro Internet.

Allora quando appare David Bowie che chiacchiera in Chat Line coi suoi fan, si tratta davvero di te?
Certamente! Non potrei sopportare che qualcun altro desse risposte a nome mio.

Mi piacciono molto le sezioni che dedichi all’arte contemporanea, esponendo virtualmente non solo quadri tuoi, ma anche quelli di giovani artisti che ti inviano le loro opere. Tempo fa si prospettava una tua personale a Milano e sono certa che molte persone verrebbero a vedere i tuoi dipinti. Ho un amico regista che, tra l’altro, ti proporrei come eventuale filmmaker per un documentario sull’argomento e del quale ti invierò senz’altro qualche lavoro. Hai per caso in progetto di esporre in Italia?
Può darsi. Anche se Internet è un mezzo fantastico anche da questo punto di vista. È una vetrina straordinaria e permette agli artisti di comunicare tra loro e di esporre la propria arte. Scelgo personalmente i lavori di chi, oltre a me, espone sue opere sulle pagine web di BowieNet. Per cui, inviami pure i lavori. Li guarderò, tempo permettendo.

So che anche tu, come Pete Townshend, stai lavorando a progetti sia musicali che di carattere ‘virtuale’, in diretta collaborazione col pubblico on line…
C’è la sezione intitolata The Interactive Remix Project, che prevede la possibilità di un’interazione da parte di chiunque voglia collaborare virtualmente al remix di una mia canzone. Sicuramente, in futuro, anche un concerto via web…

Vuoi dire che non ci sarà speranza di vederti in tournée dopo l’uscita di Toy? Voglio dire, hai suonato all’Alcatraz di Milano quest’anno, ma non hai intrapreso una vera e propria tournée..
È una domanda che mi rivolgono spessissimo e alla quale rispondo dicendo tranquillamente che ho in testa ancora almeno un progetto per una tournée mondiale. È una promessa.

Prima di andar via, Bowie prende una chitarra e strimpella un paio di accordi, senza cantare.

Presumo si tratti di improvvisazioni estemporanee, ma il ritmo insieme alla melodia restano nella mia mente anche dopo esserci salutati, mentre m’incammino nel buio di un tardo pomeriggio londinese.

Ripenso all’ironia con la quale, leggiadro e probabilmente anche un po’ incurante, Bowie ha risposto alle mie domande. In particolare, a quella relativa all’amore e alla felicità che, giustamente, non ha ritenuto di dover prendere troppo sul serio.

Mi rammento di non aver chiesto nulla sul suo ex gruppo, i Tin Machine, del quale so che la Emi ha in lavorazione una raccolta con alcuni brani inediti. L’intervista è finita, ormai è troppo tardi. E dovrò anche riprendermi dal turbinio emozionale (ebbene sì, anche una cronista che tenta di estrapolare con distacco professionale ogni singola parola, respiro ed espressione può cadere vittima di un Duca Bianco) prima di raggiungere Elvis Costello e Debbie Harry al Royal National Jazz Festival e, l’indomani, tornare a vedere gli Who in concerto alla Wembley Arena.

Così mi rendo conto di quanto – fosse stata pura demagogia asserire che si può essere felici solo scegliendo di esserlo – anch’io mi senta un poco eroe. Almeno per qualche giorno.

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