I capelli e la barba si sono ingrigiti, le rughe gli solcano il volto bruciato dal sole e dalla vita di strada, quella a cui non rinuncerà mai. Ha scelto di essere libero, di stare nell’ombra in un mondo che vive di apparenza e mass media. Non è un santo, né un samaritano, è un rocker innamorato della musica. È J.J. Cale, un feticcio per gli appassionati di rock e di quella musica d’autore che cresce nutrendosi alle radici, portando con sé i sapori del country, del rock and roll anni 50, del rhythm and blues urbano, del blues calloso e furente.
Il suo pubblico aspetta con pazienza le sue piccole perle che J.J. dispensa con discrezione (a parte il recente Live, l’ultimo disco è Guitar Man del 1996) senza mai badare alle regole del mercato. Il suo nuovo album, To Tulsa And Back (vedi JAM 105), collegandosi ai suoi luoghi natali (Oklahoma City) e a quelli dove è cresciuto (Tulsa), ha il respiro epico e allo stesso tempo popolare della provincia americana, il suono pulsante e senza fronzoli del rock d’autore, il sapore del ricordo che sa prendere le distanze dalla nostalgia.
Il ritorno di J.J. Cale: sembra il titolo di un film western.
Beh, in effetti mi sento un po’ come un John Wayne della musica. Uno che difende i suoi diritti, prima di tutto la sua privacy; uno fuori dal coro, che suona per sé e per chi lo vuole ascoltare, che non sgomita per essere il primo della classe. Non lo considero un ritorno, io suono sempre, ma ho ritmi diversi da quelli che impone il mercato discografico.
In pratica sei un’antistar.
Non so cosa sia esattamente una star. Io ho iniziato a suonare per passione negli anni 50. Non ho un atteggiamento snob, non mi dà fastidio il successo né mi opprime il fatto di non essere nelle classifiche. Mi piace scrivere canzoni che parlino di me, del mio mondo, della mia America, e vedo che molta gente, giovani e meno giovani, si identificano in quello che faccio: questo mi rende felice e mi dà la forza di continuare.
Quindi non ti infastidisce che tuoi brani come After Midnight o Cocaine siano stati resi famosi da Clapton e da altri grandi (vedi box, ndr).
No, anzi è una cosa che mi diverte. Cocaine nella versione di Eric l’ho ascoltata per la prima volta alla radio. Ero in macchina, stavo guidando da Memphis a Nashville e ho sentito un riff familiare, ho detto: “Questa è una mia canzone”, poi ho riso a crepapelle. Se altri artisti riprendono i miei brani vuol dire che sono un discreto autore. Gente come Eric ha il physique du role per stare sotto i riflettori. Ringrazio tutti coloro che hanno attinto al mio repertorio.
Chi in particolare?
Beh, Johnny Cash. Lui è uno dei grandi padrini americani, l’outlaw che ha rinnovato la tradizione e sono fiero che – soprattutto dal vivo – abbia ripreso i miei brani. Poi The Band: Robbie Robertson e compagni mi stanno davvero nel cuore, ci sono molte affinità tra di noi, non ultimo l’amore per il vero rock and roll.
Il primo rock and roll è la tua vera passione.
Le vere rivoluzioni si fanno una sola volta nella vita. Il rock and roll ha cambiato il mondo, il rock degli anni 60-70 ne ha ampliato al massimo la creatività. È stata un’esplosione. Io ero un ragazzino dell’Oklahoma che viveva una vita molto borghese e un po’ noiosa; ed ecco che arrivano le chitarre infuocate di Chuck Berry e Bo Diddley, la voce profonda e sensuale di Elvis, i guaiti di Little Richard, le spacconate di Ronnie Hawkins. Come non rimanere coinvolto, anche se nel mio dna c’è molto altro.
Ad esempio?
Prima di tutto la musica country. Io non so se la gente ha la visione giusta della country music. Il business impone un sacco di melassa a base di banjo e mandolini che non ha molto a che vedere con la nostra tradizione, con le epiche e colorite ballate nate dal popolo che hanno accompagnato la nascita e lo sviluppo del nostro Paese. E poi il blues, che funzionava di pari passo sul versante nero. Blues più country uguale rock and roll: ecco la spina dorsale della nostra musica.
Quindi ritieni che il meglio del rock si sia esaurito con gli anni 70?
A quei tempi c’era più entusiasmo, c’erano ancora tanti privilegi da abbattere e obiettivi da conquistare. Il rock era anche espressione di lotta sociale. Molta acqua è passata sotto i ponti, c’è stato il punk, il nuovo country e chi più ne ha più ne metta. È sempre più difficile inventare qualcosa di nuovo ma ci sono delle nuove band agguerritissime che hanno cuore e spirito per dire qualcosa di interessante.
Qualche nome?
Widespread Panic, con cui ho lavorato e con cui ho intenzione di continuare a collaborare. Sono una grande jam band, con loro ci si diverte e non si sente per niente il distacco generazionale.
Parliamo di To Tulsa And Back, una specie di ritorno a casa?
Questo è il mio quattordicesimo disco: tredici in studio e uno dal vivo. Li ho incisi quasi tutti a Nashville, tranne gli ultimi quattro in California. Così ho deciso di andare a vedere che aria tira dalle parti di casa. Ho restaurato il mio studio d’incisione a Tulsa e mi sono messo a lavorare esprimendo in parole e musica le mie sensazioni di oggi. Non è il ritorno nel cimitero degli elefanti, è un nuovo punto di partenza. I ricordi non mi rattristano, anzi, mi indicano la direzione su cui continuare.
Quali sono i ricordi più belli?
Il fatto di essermi creato da solo la mia identità di artista. In Oklahoma non c’è mai stata un vera e propria scena musicale, così mi sono formato da solo, ascoltando i miei dischi preferiti, e facendo causa comune con i pochi musicisti da strada che c’erano in giro: con Leon Russell ho vissuto momenti splendidi. Lui però era un istrione, un matto completo con quel suo cilindro a stelle e strisce e i vestiti coloratissimi. Anche lui, a parte l’esperienza con Joe Cocker, non ha mai ceduto alle regole del commercio, altrimenti oggi sarebbe uno dei rocker più famosi: pochi suonano il piano e la chitarra come lui.
Come definisci To Tulsa And Back?
Un diario di ballate che hanno la pretesa di lasciarsi ascoltare per quello che sono: piccole storie di un cantautore e chitarrista testardamente e romanticamente innamorato del rock.
