Jerry Lee Lewis
L’ultimo gigante del rock’n’roll
Qualcuno ha detto che in fatto di eccessi e vizi anche Keith Richards, messo a fianco di Jerry Lee Lewis, fa la figura di Jessica Simpson. Ai meno informati può sembrare un’esagerazione ma chi ha seguito la carriera del grande artista di Ferriday, Louisiana, sa bene che è vero. Già da ragazzino aveva un carattere ribelle e determinato. Ambizioso e spericolato tanto da guadagnarsi, appena adolescente, l’appellativo di Killer. La storia di Jerry Lee è simile a quella del coetaneo Elvis, nato pochi mesi prima nel vicino Mississippi. Stesso background, stessa povertà, stessi canti gospel e stessa voglia di riscatto sociale. Allo stesso modo di Elvis, appena Lewis riesce a sfondare con Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, il suo primo pensiero è quello di riscattare la propria famiglia dall’estrema povertà in cui versava in una modestissima casa senza neppure i servizi igienici a Black River, accanto all’omonimo fiume nel quale nessuno osava bagnarsi, neppure con il caldo insopportabile, poiché scuro e pieno di serpenti. A differenza di Elvis, però, Lewis non fece nulla per conquistare la stima dell’establishment. Non gli interessava. Fin dall’inizio era chiaro l’unico fuoco che gli bruciava dentro: vivere a tutta velocità secondo i suoi istinti.
Il primo pianoforte, un modello verticale Starck che i genitori comprarono a rate e che ancora oggi resiste nella sua casa (“È conciato male, ma non ho voluto mai sistemarlo: abbiamo la stessa età e mi serve per capire che anch’io sono messo piuttosto male” dirà Lewis con la consueta ironia) fu il trampolino di lancio verso una carriera che avrebbe regalato un futuro migliore alla sua famiglia.
La sorella (e cantante) Linda Gail Lewis, nella sua autobiografia The Devil, Me And Jerry Lee (Longstreet), ricorda che quando i loro genitori facevano piani per il futuro, non dicevano “se Jerry Lee ce la farà”, ma “quando Jerry Lee ce la farà”, dando per scontato che ci sarebbe riuscito. Il ragazzo appena poteva si infilava di nascosto insieme al cugino Jimmy Swaggart alla Haney’s Big House, un vicino juke joint di proprietà dello zio Lee Calhoun, frequentato esclusivamente da gente di colore. Qui il giovane Lewis poteva ammirare i migliori artisti blues della zona, da Sunnyland Slim a un giovanissimo B.B. King. Dopo essersi esibito per la prima volta in pubblico in una concessionaria Ford di Ferriday guadagnandosi la bella somma di 13 dollari, a 15 anni Ferriday Fireball, come viene chiamato con uno dei suoi tanti soprannomi, già si guadagna da vivere dall’altra parte del Mississippi nei juke-joint di Natchez. Forse a causa di una vita un po’ troppo dissoluta per la sua età da adolescente, Jerry viene inviato dalla madre in un istituto religioso di Waxahachie, Texas, ma la vocazione non doveva essere molto profonda: viene letteralmente cacciato dall’istituto per essersi permesso di eseguire una blasfema versione boogie di My God Is Real.
Dopo aver bussato alla porta di diverse case discografiche di Nashville senza suscitare alcun interesse (sembra che Chet Atkins dopo averlo ascoltato gli abbia consigliato di tornare a Ferriday e dedicarsi allo studio della chitarra), Lewis assiste con emozione all’improvvisa ascesa di Elvis Presley e decide di tentare alla Sun Records, riconoscendo in Sam Phillips la persona giusta per valorizzare il suo stile poco ortodosso che mescola con energia gospel, country, boogie e blues. Alla Sun, insieme a Carl Perkins e Johnny Cash, Jerry Lee Lewis diventa un artista di fama internazionale incidendo nel giro di pochi mesi alcune delle più importanti e immortali canzoni della storia del rock ed entrando direttamente nella leggenda. Dal primo million seller Whole Lotta Shakin’ Goin’ On (1956) allo scintillante bis di Great Balls Of Fire, fino ai brani chiave come High School Confidential e Breathless che diventano immediatamente dei classici e ne affermano lo stile, Jerry Lee Lewis diventa una figura imprescindibile nello sviluppo della musica rock.
Il problema è che lo stesso incosciente impeto che si leva dalle sue canzoni, lo porta spesso a caccia di guai e a decisioni dettate dall’istinto che ne condizioneranno pesantemente la carriera. Ma che in fondo rafforzeranno ancor più la sua fama. Un personaggio affascinante ma pieno di contraddizioni, sempre in bilico tra peccato e redenzione ma mai disposto alla resa. Sempre deciso a fare le cose a modo suo. Prendere o lasciare.
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Non è facile sentire la voce del Killer dall’altra parte del telefono e riuscire ad articolare correttamente le sillabe. Il mio inglese emozionato si scontra con il suo americano sudista biascicato e intercalato da risate che hanno un sound inconfondibile. Mi immagino chiaramente il classico ghigno che disegna una curva su una sola guancia. Dieci minuti prima dell’intervista il mio cellulare aveva squillato: da New York volevano darmi qualche consiglio. Anzi, sembrava quasi un avvertimento: “Volevamo dirti che Mr. Lewis non è esattamente di buonumore. Nella precedente intervista lo hanno fatto arrabbiare e ora è forse meglio aspettare una decina di minuti in più prima di chiamare.”. Che fortuna. Oltretutto con il suo accento sudista temo che sia anche difficile riuscire ad afferrare il senso di tutte le sue parole: “Non ti preoccupare” mi dicono i newyorchesi “facciamo fatica anche noi a capirlo”. Una risata divertita, a dire il vero sottilmente sadica, mi fa capire che non sarà una passeggiata. “Se posso darti un consiglio evita domande troppo personali e inizia da quelle riguardanti il nuovo disco”.
Già, Last Man Standing. Un bel titolo. L’ultimo uomo rimasto. Tutti gli altri grandi della Sun Records se ne sono ormai andati. Ha iniziato Elvis, che ancora una volta grazie al Colonnello Parker è riuscito a essere il numero uno anche in quello. Poi Carl Perkins, tanto umile quanto stilisticamente dotato, e infine Johnny Cash che con gli ultimi riusciti dischi della sua carriera è diventato ormai un’icona generazionale trasversale e imprescindibile nella cultura americana. Anche Sam Phillips se ne è andato da poco. L’architetto del suono Sun, colui che ha avuto la visione di come si sarebbe evoluta la musica americana nella seconda metà del Novecento e ha dato inizio a tutto scoprendo Elvis.
Oggi è il 2 novembre, il giorno dei morti. E mi capita improvvisamente l’occasione di intervistare “The Last Man Standing”. Non sarebbe forse di buon augurio farlo oggi, anche se negli Stati Uniti è un giorno come un altro. Forse sarebbe meglio l’11 novembre, il Veterans Day. Ma penso che non gli piacerebbe neppure essere definito un veterano. Lui è il Killer, il Ferriday Fireball, il Real Wild One. Insomma, le iperboli si sprecano per un uomo che ha fatto più volte viaggi di andata e ritorno dall’inferno al paradiso. Scandali, disgrazie, spacconate, un carattere proverbialmente difficile. Una vita di eccessi la cui colonna sonora è una musica capace di evocare alla perfezione l’America. Country, blues, gospel, rock and roll: gli unici confini stilistici di Jerry Lee Lewis sono quelli geografici degli Stati Uniti. Tutta la tradizione musicale americana viene elaborata e resa assolutamente personale e spontanea. Un’autentica leggenda della storia a stelle e strisce. E ora la leggenda è in linea.
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Suona il telefono al Lewis Ranch di Nesbit, Mississippi, da qualcuno definito anche Disgraceland. Dopo cinque lunghi squilli risponde la figlia Phoebe, una volta cantante e musicista nell’area di Memphis e ora figlia e manager a tempo pieno dopo che il padre ha divorziato da Kerry, la sua sesta moglie. Phoebe mi dice subito che Mr. Lewis ha problemi di udito e che si sente un po’ a disagio al telefono, quindi mi chiede di parlare lentamente e di scandire in maniera chiara le parole. Cominciamo bene.
Mr. Lewis, finalmente questo nuovo disco è uscito.
Già! Finalmente.
Dalla registrazione del primo brano, Evening Gown, con Mick Jagger e Ronnie Wood, sono passati cinque anni (a causa dei continui tentennamenti della Sony che avrebbe dovuto pubblicarlo prima di passare la mano all’intraprendente etichetta indipendente Artists First, nda). Non riuscivo a capire come mai tanta esitazione nel decidere di pubblicare un disco di Jerry Lee Lewis.
Neppure io. Ma adesso sono ancora più felice di sentire che sta andando bene e viene trasmesso frequentemente alla radio.
Il disco è una parata di rock star ma la sua voce e il pianoforte riescono a far uscire chiaramente il suo stile da questi duetti.
Sì. Sono molto soddisfatto. È proprio un bel disco, il più bello degli ultimi vent’anni. Ed è stato molto divertente registrarlo.
Si aspettava che tutti questi artisti e personaggi famosi sarebbero accorsi per registrare dei duetti insieme a lei?
No. Sinceramente non me lo aspettavo. Sono rimasto molto sorpreso e sono grato per il loro entusiasmo e la loro generosità.
A tal proposito, il produttore Jimmy Rip ha raccontato divertito che le telefonate fatte agli artisti che hanno partecipato sono state le più facili che abbia mai fatto: tutti hanno detto subito sì.
Sono stati molto generosi.
Forse volevano semplicemente ricambiarla. Lei appartiene all’età d’oro del rock and roll. Molti di loro lo hanno imparato ascoltando la sua musica negli anni 50 e hanno tratto ispirazione dal suo stile.
Sì, in effetti molti mi hanno detto che sono stato un maestro per loro. In fondo. hanno sicuramente ragione! (Scoppia in una fragorosa risata, nda).
C’è qualche canzone in questo disco di cui è particolarmente fiero o che riveste un significato speciale per lei?
Beh, mi piacciono tutte e sono molto soddisfatto del risultato finale. Magari ‘Pink Cadillac’, la canzone di Bruce Springsteen, che ha un tiro davvero rock and roll. Penso sia venuta molto bene (lo stesso Springsteen l’ha definita una delle più belle versioni che siano mai state fatte di una sua canzone, rivelando a Jimmy Rip come fosse uno dei suoi grandi sogni sentire una sua canzone interpretata dal Killer, nda). Poi la canzone che ho interpretato con Kris Kristofferson, ‘The Pilgrim’.
Jerry Lee rimane in silenzio un momento. Forse pensa alle parole della canzone (“Una volta aveva un futuro pieno di soldi, amore e sogni, che ha sprecato come se non fossero ormai più di moda”) e alle sue vicissitudini. In quel momento si sente la voce della figlia Phoebe quasi a suggerirgli un’altra canzone. E Jerry: “Anche Couple More Years On You Baby con Willie Nelson mi piace molto”.
Farete un tour promozionale dell’album?
Stiamo già facendo alcuni concerti in giro negli Stati Uniti. Spero di venire presto anche in Europa.
Recentemente ha fatto parte di alcuni concerti in compagnia di Little Richard e Chuck Berry. Ci sarà ancora l’occasione di vedervi all’opera sullo stesso palco?
Penso proprio di sì. Qualcosa è già stato organizzato. In questo periodo stanno mettendo a punto le date per il prossimo anno.
Andando un po’ indietro nel tempo, in questi giorni è uscita l’edizione definitiva delle registrazioni del Million Dollar Quartet (con Elvis, Johnny Cash e Carl Perkins, vedi box a pagina 42, ndr). Vuole raccontarci qualcosa di quel giorno?
Sì, era stato registrato alla Sun. Ai vecchi studi Sun.
Ma c’è un aneddoto o un ricordo di cui vuole raccontarci?
Beh, vediamo. Sì. C’è una cosa in particolare di cui non riuscivo a capacitarmi: non capivo perché Elvis si fosse accomodato al pianoforte (scoppia in un’altra fragorosa risata – poi si fa più calmo, ma sempre con tono divertito, nda). Davvero! Non riuscivo a crederci. Quello era il mio posto.
Ma lei non vedeva l’ora di mettersi a suonare e alla fine riuscì a riconquistarlo.
Oh sì, a un certo punto gli ho detto: spostati che ti faccio vedere io come si fa!
Quel giorno, il 4 dicembre 1956, lei stava registrando in studio con Carl Perkins quando passò Elvis a salutare. A proposito: c’era anche Johnny Cash, ma ci sono differenti versioni riguardo al suo contributo alle registrazioni. Ricorda se ha suonato insieme a voi o se è passato solo per un saluto?
Sì, c’era anche lui, ma mi sembra che fosse andato via piuttosto in fretta. Mi pare di ricordare che avesse suonato un po’ la batteria.
Quel giorno avete accennato ben tre volte con entusiasmo Brown Eyed Handsome Man di Chuck Berry, una canzone che non era uno standard all’epoca essendo stata appena pubblicata. Aveva un significato particolare?
Oh, tutte le canzoni di Chuck Berry hanno un significato particolare per me. Adoro cantarle e suonarle al pianoforte e quando ci esibiamo nello stesso show mi scoccia un po’ non poterle suonare (si mette a ridere – per consuetudine e rispetto non si eseguono cover di brani scritti o resi famosi da artisti che si devono esibire in uno spettacolo successivo nell’ambito della stessa serata, nda). Ma almeno una la suono lo stesso. Faccio lo stesso con ‘Good Golly Miss Molly’ di Little Richard.
E cosa ricorda di Sam Phillips? Era uno dei visionari dell’american music.
Sì, ha mostrato come si doveva fare. Sam was the man!
Dopo l’esperienza alla Sun Records, con l’avvento della grande industria discografica nel rock, Sam Phillips non appariva più interessato a un ruolo attivo nel music business.
Beh, Sam aveva già fatto tanti di quei soldi grazie a me che poteva pure permetterselo. (Risata, nda) Questa è la verità. Davvero! Aveva anche ammesso che mi avrebbe dovuto diversi milioni di dollari ma che non aveva nessuna intenzione di farlo se non gli avessi fatto causa. Era un bel tipo Sam Phillips.
Come recita il titolo del nuovo disco lei è “last man standing”, l’ultimo a essere rimasto tra i grandi della Sun Records. Ma ci sono in giro anche alcuni altri artisti molto significativi anche se non hanno mai raggiunto il grande successo. Uno di questi è Billy Lee Riley, la cui band (i Green Men, nda) suonò in molti suoi dischi. Le capita di incontrarlo ancora?
No. È un po’ di tempo che non lo vedo più. Non so dove Billy viva ora ma sarebbe sempre il benvenuto a suonare con me perché è uno dei più bravi chitarristi che abbia mai sentito.
C’era anche un altro grande musicista alla Sun, che scrisse Break Up per lei: Charlie Rich.
Oh, Charlie Rich era fantastico. Un grande autore…
Per un attimo si accende nel ricordo. È un moto di entusiasmo che vira poi verso colori più scuri, in una presa di coscienza di tutto il tempo che è passato e di come queste siano storie che portano ricordi anche tristi: “He was just..the most.”. È quasi un sussurro, una confidenza. Una frase bellissima pronunciata con rassegnata passione, con una declinazione che appare un evidente abbandono alla realtà di una vita ormai al capolinea. Last Man Standing non è un titolo casuale: Jerry Lee Lewis è un superstite del rock. Ha vissuto tutta la vita sulla parte sbagliata della strada come direbbe Tom Waits, sempre sulla corsia di sorpasso con il piede pigiato sull’acceleratore. E in questo momento, seppur senza colpe, mi sento quasi in imbarazzo e in colpa per questo attimo di inattesa vulnerabilità cui mi trovo di fronte.
Tornando al nuovo disco, c’è una continua alternanza tra rock veloci e canzoni country, le due diverse facce della sua lunga carriera. Oggi, a oltre 70 anni di età, si sente più country o più rock and roll?
Rock and roll. Ancora.
Ma allora c’è un motivo specifico per il quale ha scelto di non registrare almeno qualcuno dei suoi classici degli anni 50 in questo disco di duetti?
No, nessun motivo. Quelle canzoni si possono trovare in molti altri dischi. Non sentivo la necessità di registrarle nuovamente. Questa volta volevo fare qualcosa di diverso.
Sono passati cinquant’anni. Che cos’è il rock and roll per lei?
È la mia vita. Boogie, blues, gospel, R&B. Whole lotta shakin’ goin’ on.
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Vengono in mente le immagini della sua leggendaria esibizione televisiva allo Steve Allen Show nel luglio del 1957 quando Whole Lotta Shakin’ Goin’ On stentava a decollare verso le parti alte delle classifiche e l’occasione di esibirsi di fronte a tutta la nazione avrebbe potuto rappresentare l’ultima chance per affermarsi. Improvvisamente si alzò in piedi suonando il piano come un ossesso, i riccioli del suo ciuffo biondo che incorniciavano uno sguardo spiritato. Gli occhi fuori dalle orbite e l’aria diabolica di un Lucifero in corto circuito tra il mondo e il suo sventurato pianoforte. I ragazzi in sala estasiati nell’eccitazione del momento, mentre gli addetti alla trasmissione e i milioni di telespettatori rimanevano sgomenti. Jerry Lee Lewis in un attimo diventò il peggior incubo di tutti i genitori: un selvaggio sudista dai capelli lunghi, anarchico e sensuale, che sembrava violentare il pianoforte mentre urlava un testo che in un esplicito doppio senso inneggiava al sesso.
Il pianoforte è sempre stato una sorta di prosecuzione del suo corpo. Lo ha suonato anche con i piedi salendoci sopra in segno di conquista. Una curiosità: c’è mai stato un altro strumento che l’abbia particolarmente affascinata? Ricordo che al Toronto Rock And Roll Show (durante una esibizione con John Lennon, nda) aveva suonato anche la chitarra.
Veramente mi piacciono un po’ tutti gli strumenti. Qualunque cosa mi permetta di esprimermi. Spesso suono canzoni accompagnandomi alla chitarra o al violino. A volte mi siedo alla batteria, a volte prendo il contrabbasso, che suono piuttosto bene a essere sincero. Insomma, me la cavo un po’ con tutti gli strumenti tranne che con quelli a fiato.
Se dovesse scegliere una sola canzone per raccontare Jerry Lee Lewis, quale sceglierebbe?
‘Great Balls Of Fire’, sicuramente. Racchiude perfettamente il mio stile.
Mr. Lewis, ho recentemente letto che le interviste con lei in media durano dodici minuti. Devo reputarmi fortunato per questa chiacchierata. Ma non vorrei approfittare troppo della sua gentilezza.
In effetti adesso ci deve essere già qualcun altro che sta aspettando. E con il quale dovrò parlare. Anche se a dire il vero non è che ne abbia molta voglia. Ma se hai ancora un paio di domande da farmi, andiamo pure avanti.
Torniamo di nuovo un po’ indietro nel tempo. Cosa ricorda di quando andava furtivamente al juke joint Haney’s Big House?
Era bellissimo. Non potevo fare a meno di sgattaiolare là dentro, nascondermi sotto un tavolo e ascoltare quegli affascinanti artisti neri che cantavano il blues. I got a kick out of it. C’era il gusto del proibito ed era un nuovo mondo. Quando Mr. Haney mi scopriva lì nascosto arrivava di corsa, mi acchiappava per il collo e mi trascinava fuori dicendomi che mia madre lo avrebbe ucciso se mi avesse scoperto in quel locale. E mio padre mi avrebbe ammazzato di botte. Ma io non potevo fare a meno di tornarci: la musica era incredibile. Un richiamo irresistibile.
Ci andava spesso?
Oh sì, ogni volta che potevo. Piuttosto spesso per fortuna.
Questa scena veniva raffigurata nel film ‘Great Balls Of Fire’ di Jim McBride, nel quale lei viene interpretato da Dennis Quaid. Ritiene che il film abbia reso un ritratto fedele di Jerry Lee Lewis?
Assolutamente no.
In che cosa ha fallito?
Quando hanno scritto “The End” alla fine. (Scoppia in un’altra risata, davvero compiaciuta per la battuta ad effetto, nda). La vera storia di Jerry Lee Lewis deve ancora essere scritta. E non è ancora arrivato il momento.
Voce fuori campo: “Mr. Lewis, you have another call waiting.”. Una chiacchierata da ricordare. Quella con l’ultimo uomo ancora in piedi.