Il vecchio JJ Cale non demorde. Come suggerisce il titolo, il suo nuovo lavoro prosegue nella direzione tracciata tanti anni fa. Non proprio la stessa per la verità: ogni tanto si lascia andare a ritmi un po’ più arditi di quanto abbia fatto fino ad ora, ma poi la sua voce bluesy e l’antico incedere lento della chitarra riconducono le canzoni sul binario di sempre, magari con un timbro leggermente più country del solito, ma comunque riconoscibile.
«Ricordo quando feci il mio primo album, avevo 32 o 33 anni e già allora pensavo di essere troppo vecchio» ha detto di recente Cale. «Quando mi rendo conto di quello che combino ancora a 70 anni, mi dico: cosa sto facendo? Dovrei starmene sdraiato su un’amaca». Eppure Cale, pur non essendo certo di primo pelo, tiene ancora coerentemente in mano la situazione senza ricorrere ai vecchi mezzucci della cover ad effetto o dell’ospite famoso (la presenza di Eric Clapton è ormai talmente consueta da non rappresentare una novità). Sarà perché la sua produzione è sempre stata centellinata e non si è mai spremuto più di tanto a cercare innovazioni strane, ma ora raccoglie i frutti della longevità: esperienza e classe che si compenetrano. JJ come al solito fa tutto da solo. Il suo intimo piacere è quello di suonare tutti gli strumenti senza l’ausilio di nessuno per poi sovrainciderli e arrivare al prodotto finale. È un gioco che unisce creatività, gusto e competenza, un iter magari un po’ egotistico, ma decisamente personale che finisce per rappresentarlo totalmente. «Penso che tutto risalga al fatto che all’inizio ero un ingegnere del suono. Grazie a tutta la tecnologia moderna, oggi puoi fare musica da solo e ci sono un sacco di musicisti che lo fanno», dice ancora Cale. «Io incominciai stando dietro il mixer e mi resi subito conto che quello che facevo aveva un sound unico e originale. Fin dai tempi di Naturally (primo album del 1971, nda) oltre a cantare e a suonare la chitarra mi cimentavo già con piano, basso e drum machine. All’inizio lo facevo solo per una questione economica poiché non avevo soldi a sufficienza per pagare una band. Oggi, anche se i soldi per stipendiare i musicisti li avrei, continuo a fare i dischi alla vecchia maniera perché la considero una forma d’arte a sé».
Roll On a tratti ha un incedere rock abbastanza evidente, ma poi la ritmica rallenta e il caratteristico strascico chitarristico di Cale prende il sopravvento fino a perdersi in atmosfere vagamente jazzy, come succede in Who Knew che apre il disco ed evidenzia addirittura qualche accenno di scat che non trova precedenti nei suoi lavori. Ma in quanto a novità c’è anche un banjo amplificato che caratterizza brani come Where The Sun Don’t Shine e Cherry Street, la pedal steel che emerge sinuosa in Leaving In The Morning e un incedere funk in Fonda-Lina. Il jazz caratterizza anche Former Me, un bel pezzo con il pianoforte in evidenza che si erge elegante su una ritmica dolce e intrigante. Il pezzo migliore? Forse Down To Memphis, col rock’n’roll che fa capolino e la chitarra che viaggia piacevole e senza strafare quando la ritmica cala di tono. Ovviamente la chitarra ha un posto di riguardo nelle canzoni di JJ Cale ed è proprio quel modo distante e rilassato di suonarla che ha attratto gente come Eric Clapton e Mark Knopfler. Il Tulsa Sound, in fondo, è dettato soprattutto da questo incedere lento e vagamente strascicato che coinvolge chitarra e voce. «Fondamentalmente sono solo un chitarrista che si è reso conto che non sarebbe mai riuscito a pagarsi una cena solo suonando la chitarra» dice ironicamente Cale. «E dunque ho iniziato a comporre per trovare un business più redditizio. Con la mia voce mi trovo a disagio, anzi il mio modo di cantare mi dà sui nervi e abbasso sempre il volume della voce. Solo negli ultimi dieci o quindici anni l’ho alzato un po’, ma mai fino a sentirmi a mio agio». Insomma, sembra che il suo stile sia una creatura contrastata, un vezzo creato sulle proprie idiosincrasie che però noi continuiamo a apprezzare. Roll on, JJ.