Che questo cd esca l’11 settembre, nel sesto anniversario degli attacchi alle Torri Gemelle e al Pentagono e punto di partenza della successiva escalation che ha visto gli Stati Uniti impelagarsi in malo modo in Iraq, non sembra una coincidenza. Quando suggerisco a Joe questa supposizione (intervista completa con il cantautore sul prossimo numero di JAM) durante una nostra chiacchierata telefonica tenuta lo scorso luglio, supposizione che ritengo avvalorata da una nostro incontro di un paio di anni fa in cui il cantautore si era decisamente scagliato contro l’amministrazione Bush, lui taglia corto: “Mi fa schifo la politica. E guarda che voglio dire che mi fanno schifo i democratici così come mi fanno schifo i repubblicani. Ho ormai perso ogni speranza nei politici americani”.
Nessuno che conosca la storia musicale di Joe Henry, ad ogni modo, si aspetterebbe da lui la “finger point song”, la canzone con il dito puntato, di dylaniana memoria. Ma c’è comunque un sentimento di malessere che scorre nelle pieghe di questo disco. Il malessere dei “civilians” come si intitola la traccia d’apertura dell’album, i civili, i cittadini comuni che finiscono per ritrovarsi in una “guerra civile”, di cui parla Civil War, terza traccia del lavoro. Joe Henry è un piccolo grande poeta, questo lo sappiamo dai tempi di superbe opere musicali come Short Man’s Room o ancor di più Shuffletown, un poeta della quotidianeità, del male di vivere, della bellezza intesa come rimando a un oltre. E in tutto questo ci sta ovviamente anche il disgusto per un mondo che va in malora.
Per raccontare ciò, dopo anni di sperimentazione coraggiosissima, in cui Henry è passato con apparente nonchalance dall’alternative country all’elettronica fino al jazz più sperimentale (non è da tutti permettersi in un disco un certo Ornette Coleman – era su Scar, cd pubblicato nel 2001), il musicista fa – apparentemente – marcia indietro, musicalmente, alla canzone folk d’autore del suo esordio. Questo, come dice lui, accade solo perché Civilians è stato registrato con i medesimi musicisti che hanno accompagnato lui e Loudon Wainwright su Strange Weirdos, e infatti il mood musicale è praticamente lo stesso. Ma se la cosa è accidentale, è certo che una ballatona come Wave, condotta in punta di chitarre acustiche e mandolino, sembra uscire dritta da quel capolavoro che fu Kindness Of The World, un disco che era quasi interamente giocato sui tempi romantici del valzer. Così è, in parte, per le altrettanto belle Scare Me To Death e Shut Me Up. L’approccio più sperimentale, dove jazz e canzone d’autore si tingono di colori unici, riaffiora invece in brani come la notturna Civil War, una jazz song di alta classe, o nella conclusiva e pianistica God Only Knows, un brano che il Frank Sinatra degli anni 40 avrebbe fatto suo (e la presenza al pianoforte di un certo Van Dyke Parks si sente, eccome). Sostenuta dal tocco chitarristico ben riconoscibile di Bill Frisell è invece l’hard boiled blues della title-track.
Così, come sempre in modo gentile, quasi scusandosi per il disturbo, Joe Henry ha messo fuori un’altra gemma, la decima in un percorso che dura da due decadi. E se oggi il suo nome è più noto come produttore (Solomon Burke, Ani DiFranco, Aimee Mann, Bettye LaVette, Elvis Costello) poco importa. È solo un asso in più in una mano di poker che pochi si possono permettere.
Civilians
Parker’s Mood
Civil War
Time Is A Lion
You Can’t Fail Me Now
Scare Me To Death
Our Song
Wave
Love Is Enough
I Will Write My Book
Shut Me Up
God Only Knows