30/03/2007

Joe Satriani vs. Steve Vai

Dissipiamo subito ogni ragionevole dubbio. Il fatto che gli album di due maestri della chitarra come Steve Vai e Joe Satriani siano stati pubblicati contemporaneamente non è affatto accidentale. Il fatto che siano doppi e dal vivo lascia altri dubbi sulla pura casualità dell’evento. Troppe coincidenze, Miss Marple storcerebbe il naso. E avrebbe ragione. Sebbene infatti i due progetti nascano da idee e circostanze assai diverse, l’essenza musicale e le finalità sono del tutto simili. Live In San Francisco di Satriani e Alive In An Ultra World di Vai segnano l’apoteosi di un genere le cui solide fondamenta sono la sperimentazione, spesso al limite dell’accanimento sonoro, e la pura ricerca. L’ordito musicale che i due virtuosi per eccellenza, il maestro Joe e l’allievo Steve, riescono a creare accarezzando le corde del proprio strumento è quanto di più fantasmagorico e al contempo radicale è dato oggi sentire; da tempo si usano superlativi per tentarne una pur approssimativa definizione in termini lessicali, e le loro ultime fatiche lo dimostrano.

Ma un tarlo si insinua nella mente. Accantonati stupore e ammirazione, peraltro legittimi, viene da chiedersi quale sia il presente, ma soprattutto cosa riservi il futuro dello strumento principe del rock. Se le loro impossible guitar parts, a distanza di oltre tre lustri dagli scoppiettanti esordi (per entrambi l’anno chiave è il 1984, quando Satriani dà alle stampe l’ep che porta il suo nome e Vai l’acclamato e più volte ristampato Flex-Able) riservino ancora sorprese e trasmettano emozioni o debbano cedere il passo al nuovo che avanza, identificato con il neologismo nu metal, a nome Korn, Limp Bizkit, Linkin Park e Slipknot, per citare solo l’avamposto più agguerrito.

Ecco allora una sorta di mini tavola rotonda, per tastare il polso al rock da un punto di vista del tutto privilegiato. Partendo proprio dalle recenti fatiche discografiche le quali, peraltro, riservano alcune sorprese.

“All’inizio non avevo intenzione di pubblicare un album live, volevo concentrarmi sul lavoro di studio, ma un giorno vengo contattato dalla troupe televisiva di Live At The Fillmore”, spiega con aria divertita Joe. “È una serie di successo, le cui riprese hanno luogo allo storico Fillmore Theater e vedono di volta in volta esibirsi una band per un totale di tre, quattro pezzi, intervallati in fase di montaggio da interviste e sequenze di backstage. Sono felice di suonarvi dopo più di dieci anni e mi viene un’idea: perché non approfittarne per impiegare più telecamere, registrare un intero show e poi editarlo su dvd? Un’occasione da non perdere! La casa discografica è naturalmente d’accordo. Solo in un secondo tempo abbiamo deciso di pubblicare un doppio cd.”

Coincidenze, dunque. “Non nel mio caso”, ribatte pronto Steve Vai. “Ho sempre voluto diversificare la mia produzione, creando ogni volta qualcosa di nuovo e stimolante. Perciò ho pianificato nei particolari questo tour mondiale, che mi ha permesso di venire a stretto contatto con Paesi e popolazioni dagli usi e costumi, lingua e cultura anche molto lontane tra loro, per comporre brani che rispecchiassero il luogo in cui mi trovavo. Un progetto unico, ideale per svincolarsi dalla routine disco-tour, soprattutto dopo il progetto particolare del precedente The 7th Song (in ogni album di Steve la canzone numero sette in scaletta è una ballata: eccentricità da star, nda). Confesso di non aver mai amato gli album live, perché riproporre brani musicali già disponibili? Ma ora era diverso. Ogni canzone cattura l’essenza di quella nazione, ne assapora il gusto più profondo, violandone quasi l’intimità.”

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Citerei doverosamente il caso di Principessa, incisa il 30 marzo dello scorso anno al Vox Club di Modena. Dare il titolo ad un brano strumentale non è mai facile, perché Principessa?
Steve: Un omaggio al vostro cinema e a Roberto Benigni. Ho visto il suo film La vita è bella, vincitore di due Oscar, e mi ha commosso. La protagonista, credo si tratti di sua moglie nella vita (Nicoletta Braschi, nda), è chiamata Principessa: un nome perfetto, romantico, dolcissimo. E per omaggiare l’Italia mi è parso il più adatto.

In fondo, le tue radici affondano dove il bel sì suona.
Steve: I miei nonni. Credo siano originari del nord, Piemonte o Lombardia.

Tra i brani del tuo album, Joe, spicca Ice 9. Una chitarra particolarmente ruvida, e un titolo che merita una piccola digressione.
Joe: Nella versione di studio usavo una Kramer, mentre da anni prediligo i modelli Ibanez che per me, e su miei disegni, ne ha realizzati alcuni su misura. Il titolo è preso da un libro letto anni fa, e racconta di uno scienziato che ha creato in laboratorio un nuovo processo chimico, battezzato Ice 9, in grado di trasformare istantaneamente l’acqua in ghiaccio. Naturalmente se ne impossessa l’esercito, trasformandola in un’arma da guerra. Perché, se usato al massimo della potenza, può trasformare l’intero pianeta in uno sconfinato ghiacciaio. Con la chitarra ho voluto ricreare quel suono stridulo, quasi uno scricchiolio, che si fa quando si pesta la neve camminando.

Per entrambi lo strumento è il mezzo ideale per approfondire un discorso iniziato molti anni fa. Credere ci sia ancora qualcosa da scoprire sul pianeta chitarra?
Joe: Credo che anche nel terzo millennio rimanga lo strumento principe. Sono poi possibilista sul suo futuro: lo ritengo ancora capace di grandi cose. Se oggi ascolti molte band di metal, noterai come i chitarristi hanno un approccio molto diverso dal nostro, e comunque da quello di qualche anno fa: segno che una costante evoluzione è in atto. Le informazioni armoniche e l’impatto sonoro sono diversi: sia dal punto di vista squisitamente tecnico che creativo. Dando vita a stili assai personali, perciò unici.

Steve: Per me è stupido solo pensare che la chitarra abbia già dato il massimo. Ogni giorno c’è qualcosa da scoprire, e lo dico per esperienza personale. Molto importante è l’approccio che si ha con lo strumento, il tipo di rapporto che si instaura. Bisogna usare l’immaginazione, librare le ali della propria fantasia osando soluzioni alternative, azzardando passaggi improbabili per una mente razionale. La curiosità è la molla che fa scattare ogni meccanismo. Se l’uomo non fosse curioso per natura, saremmo ancora all’età della pietra. Lo stesso vale per gli artisti, e i musicisti in particolare. Se Hendrix non avesse osato contro l’opinione allora corrente, che lo descriveva all’inizio come un pazzo, oggi saremmo indietro di decenni. La mediocrità e il quieto vivere sono la morte dell’arte.

Joe: Sono d’accordo. Il genio è iconoclasta, è sregolatezza: ha in sé una vena di pazzia. Il sacro furore, che tutti noi abbiamo provato da ragazzi va mantenuto, adattandolo però all’oggi. E le case produttrici di strumenti si sono messe in riga, aggiornando i loro cataloghi e arricchendoli con modelli che andassero incontro alle esigenze delle nuove generazioni. Ad esempio i Korn suonano molto diversi da me e Steve, pur adoperando Ibanez a sei e sette corde. Così i Limp Bizkit e i Linkin Park distano anni luce pur suonando tutti PRS.

Visto che lo avete citato, cosa pensate del genere nu metal?
Steve: Quando ho sentito per la prima volta i Korn alla radio, ho frenato di colpo bloccando la macchina. Wow, ho pensato, che roba è? Non riuscivo a credere che qualcuno avesse potuto partorire qualcosa di così musicalmente incredibile. Materiale scottante, direi scioccante. Ero sorpreso e felice. Pur non concedendosi assoli o comunque spazi solisti in cui far sfoggio di valentia tecnica, riescono ugualmente a farti balzare sulla sedia. Il discorso vale anche per Wes Boreland e i Limp Bizkit, un suono proiettato nel futuro. Anche se My Way prende spunto da See Emily Play dei Pink Floyd di Syd Barrett, si sente subito che il suono è fresco e tecnologicamente al passo con i tempi. Chi era all’avanguardia negli anni 70, penso ai Deep Purple o gli ELP, oggi appare anacronistico. Perché la musica si evolve, e tra dieci anni ciò che nel 2001 suona bene apparirà obsoleto.

Joe: Oggi il suono che funziona è aggressivo, massiccio. Deve colpire i sensi, urtarli fino a far male. Perché deve in qualche modo rispecchiare la vita quotidiana fatta di stress, perennemente in affanno. Tra i miei chitarristi preferiti c’è Tom Morello, perché ha saputo creare uno stile innovativo e originale. A cui nessuno aveva pensato prima. Il suo è un modo nuovo di usare lo strumento all’interno di una band, diventando una sorta di griffe per i Rage Against The Machine. Immediatamente riconoscibile.

Vorrei un giudizio sugli Slipknot. Una band molto particolare, forse unica.
Steve: Capisco perché sono così popolari: basta dare un’occhiata ad una loro foto. Un’immagine forte, sconcertante per alcuni versi, di immediata presa sul pubblico. Quelle maschere a celarne il volto, le tute arancio e il modo di proporsi dal vivo, al limite della violenza fisica: non possono non catturare la fantasia dei ragazzi. Che ne rimangono ammaliati, soggiogati. Io stesso ho comprato il loro album e l’ho ascoltato con attenzione, ma le vibrazioni che ho avvertito sono state negative. Nessun valore sociale, minimo talento artistico: solo una straordinaria forza, quasi belluina; un’irruenza verbale e sonora che stordisce la mente e appanna i riflessi.

Joe: Mi associo. Credo abbiano un’influenza negativa sui giovani. Se questo è ciò che ci aspetta, non sarei così ottimista. Fortunatamente una rondine non fa primavera.

Come vedete il futuro della chitarra tra dieci anni?

Steve: Se Mtv continuerà per la sua strada, il futuro è fucking miserable. Considero Mtv un cancro che lentamente si espande nel tessuto musicale, originando varie metastasi. Ma sono ottimista se considero le avanguardie di oggi, come i citati Korn e Limp Bizkit. Il suono si dividerà sempre più nettamente in due filoni, aggressivo e ispirato. Non che il primo non lo sia, ma punta più sull’istinto laddove l’altro gioca di fino, se mi passi il termine.

Avete dato vita ad un nuovo modo di concepire e suonare la chitarra. C’è qualcuno che potrà calcare le vostre orme negli anni a venire?
Joe: Discepoli? Non ci ho mai pensato. Ma la cosa non mi interessa, per almeno due ragioni: la prima è che ognuno è unico e irripetibile, usando un termine oggi di moda non può essere clonato; l’altra riguarda l’inopportunità di riciclare un prodotto già usato. Voglio dire, per quale ragione ripercorrere sentieri battuti, anche se con discreto successo? Sarebbe un grossolano errore. Andare avanti, questo è l’imperativo.

Steve: A volte penso a me come ad un alchimista che al posto degli alambicchi usa le corde di una chitarra. Sperimentare, ecco ciò che serve. Senza mai ritenersi appagati dai risultati ottenuti, pur se assai gratificanti. Pena l’involuzione stilistica e l’azzeramento creativo. Non è un caso che ognuno di noi ancora oggi dedichi allo studio molto del tempo libero; e anche quando siamo in tour non perdiamo occasione, ai soundcheck soprattutto, per provare soluzioni nuove. È un fatto che molti dei brani presenti su Alive In An Ultra World siano nati e completati sul palco o in camerino.

Parlando di tour, al momento siete in giro per l’America come G3 insieme a John Petrucci dei Dream Theater. Come mai Petrucci?
Joe: Perché è di New York come noi, e ha origini italiane. Un minimo di mafia ce lo permetterai, no? Stiamo incidendo molti di questi show, compresi i due tenutisi al Beacon Theater di New York (13-14 luglio, nda), potrebbe uscirci qualcosa di buono. Ognuno ha un suo set, alla fine chiamo tutti sul palco è ci esibiamo in un finale travolgente.

Steve: . In cui suoniamo La Grange degli ZZ Top. A proposito, nella data di Austin è salito sul palco proprio Billy Gibbons dando vita per qualche minuto ai G4, seguita da Voodoo Chile (Slight Return) e Little Wing di Jimi Hendrix. Nella mia band è tornato Billy Sheehan (a settembre uscirà il nuovo disco solista Compression, nda) e saremo in Italia in tour a metà novembre. A settembre infine uscirà un cofanetto contenente tre cd di brani incisi con Zappa, musiche per colonne sonore e il primo album degli Alcatrazz, ma si potrà ordinare solo via internet al mio sito www.vai.com. Che sbadato, scusa per la pubblicità.

Sei perdonato, Steve.

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