«Non ci sono superlativi che possano descrivere il profondo impatto che John Lee ha lasciato nei nostri cuori. Tutti noi proviamo gratitudine, rispetto, ammirazione e amore per il suo spirito. Quando ero un ragazzino, John Lee Hooker è stato il primo ‘’circo musicale’’ che avrei voluto seguire». Così ha parlato Carlos Santana il 22 giugno del 2001. La notte prima, nella sua casa nei pressi di San Francisco, era morto nel sonno John Lee Hooker, 83 anni, da Clarksdale, Mississippi, l’ultima leggenda del blues a lasciare questa terra.
Amico sincero e ammiratore incondizionato, Santana ha avuto con il grande bluesman un rapporto speciale. Che è andato oltre la comune passione musicale, trasformandosi quasi in una liaison spirituale o, come a lui piace definirla, «sovrannaturale».
Non è un caso che quando (alla fine del 1988) John Lee comincia ad accarezzare l’idea di un album di duetti con musicisti che hanno dichiarato che lui è il loro idolo, il nome di Santana balza in mente per primo perché «Carlos ha influenzato me», dice in quei giorni The Hook, «almeno quanto io ho influenzato lui. È un grande uomo, un musicista fantastico, un amico carissimo».
«Ho ancora in testa il giorno in cui ci siamo trovati per registrare The Healer, a Sausalito», ricordava John Lee. «Eravamo entrambi così su di giri al pensiero di poter finalmente fare un pezzo insieme che abbiamo attaccato gli strumenti e registrato il brano tutto d’un fiato. E la prima take è stata quella definitiva: non avremmo mai potuto rifarla meglio!».
E così, con il fido Jim Gaines alla consolle e sotto l’orecchio vigile di Roy Rogers, Santana con la sua Paul Reed Smith dall’inconfondibile timbro liquido e sensuale disegna trame chitarristiche folgoranti che seguono, intercalano e sorreggono il back up e i gemiti di Johnny Lee.
«Il blues è il grande guaritore», canta Hooker, «può curare tutto il mondo», mentre i percussionisti della band di Santana aggiungono un raffinato tocco caraibico alle fangose dodici battute del blues di The Hook. Ma è solo l’inizio. Hooker ha già in mente altri ospiti. Come l’amatissima Bonnie Raitt che poco tempo prima aveva dichiarato: «Volete farmi il più bel regalo che possa mai ricevere? Fatemi suonare con John Lee Hooker. Lui è il blues».
«Quando ho sentito che Bonnie aveva pronunciato frasi così belle nei miei riguardi, mi sono messo in contatto con lei», raccontava John Lee. «La prima cosa che mi ha detto è stata: ‘’Se davvero vuoi che facciamo qualcosa insieme, a me piacerebbe tanto poter cantare con te I’m In The Mood: è la mia canzone preferita’’. L’ho accontentata».
Anche con la Raitt la registrazione è emozionante e velocissima. «Al primo colpo, come con Santana», ricordava Hooker. I’m In The Mood è così bello e intenso che la Raitt decide di inserirlo in Nick Of Time, il disco multimilionario che segnerà il suo grande ritorno. Il pezzo fa vincere a John Lee Hooker il primo Grammy della sua carriera, a più di 50 anni dai suoi esordi. Ed è pure immortalato da un fantastico videoclip in cui i due scherzano tra lick chitarristici infuocati, sguardi maliziosi, botte e risposte vocali. «Bonnie Raitt», urla John Lee prima che la rossa californiana attacchi la sua strofa vocale, contrappuntata dagli inimitabili interventi di The Hook, che si conclude con l’emblematica affermazione: «Sono nello stato d’animo dell’amore, Johnny Lee». Tutto questo poco prima di lanciare un formidabile solo di slide, specializzazione nella quale la Raitt è davvero sensazionale.
E non è finita: sotto la preziosa supervisione di Roy Rogers, The Healer prende definitivamente quota. L’album prosegue infatti con Baby Lee, classico pezzo alla Hooker impreziosito dalla chitarra cristallina di Robert Cray. Proprio alla fine di quelle session il chitarrista di Columbus, Georgia, racconta che «quello che più colpisce nelle canzoni di John è che il significato delle parole segue di pari passo le inflessioni della musica. La maggior parte dei bluesmen tendono a limitarsi alle dodici battute e invece la musica di John non ha regole fisse».
Se ne accorgono anche i Los Lobos, chiamati a insaporire di sound latino e a dare un piglio rock alla entusiasmante Think Twice Before You Go. «La prima volta che l’ho visto dal vivo», raccontava allora David Hidalgo, «sono rimasto a bocca aperta. Non avevo mai incontrato nessuno che mi comunicasse emozioni così forti. E poi quel suo vocione… dio, è stato incredibile».
Più convenzionali (ma non per questo meno eccitanti) sono i due duetti con il bravissimo Charlie Musselwhite (l’incalzante shuffle Cuttin’ Cut e il sensualissimo slow blues That’s Alright) la cui armonica si lega magnificamente con la Gibson di The Hook. Ma certamente è speciale il duetto chitarristico con il rocker George Thorogood: i quattro minuti e rotti di Sally Mae ci riportano alle jam rurali nei garage del South Side o sulle rive del Grande Fiume. Proprio come la spartana Rockin’ Chair che Hooker pennella con la sua National, in un episodio esemplare di Delta Blues griffato, in cui lo stile vocale e chitarristico di John Lee emerge sin dalla prima battuta. E che trasporta l’ascoltatore in un mondo surreale attraverso la dolcissima My Dream e soprattutto con la conclusiva, affascinante, No Substitute, accompagnata soltanto da una dodici corde acustica.
Più di dodici anni dopo The Healer è un disco che continua a stupire ma soprattutto a emozionare. E, forse, come nelle intenzioni del suo grande autore, anche a guarire dai mali del mondo. «Il blues è il vero guaritore. Con me ha funzionato e non vedo perché non debba fare lo stesso con tutti gli uomini», diceva John Lee alla presentazione del disco che ne ha segnato il grande ritorno, gli ha fatto vincere il primo Grammy e superare per la prima volta dopo mezzo secolo di musica, il milione di copie vendute.
«Tanti anni fa, quando ho cominciato a suonare», ricordava sempre all’epoca del successo di The Healer, «avevo un pubblico di neri. Potevo esibirmi solo in locali riservati ai neri. Oggi accade il contrario: suono davanti a un pubblico bianco. I neri ascoltano il rap, solo qualche vecchio si ricorda del blues. Eppure il blues è alla base di tutte le musiche, anzi ne costituisce la radice più forte e profonda. Non riesco a immaginare una canzone che non abbia il blues». E continuava: «Il blues c’è dall’inizio del mondo. Quando c’è passione tra un uomo e una donna, quando ci sono problemi quotidiani, lì c’è il blues. Le sofferenze della gente, i dolori, le delusioni: tutto questo fa nascere il blues».
Il blues che Johnny Lee ha cantato fino al giorno in cui è morto. Perché come diceva sempre: «Le parole e lo spirito delle mie canzoni sono poesia. E come la poesia colpiscono e danno forti emozioni. A volte, sono talmente coinvolto che quando canto un brano mi metto a piangere. Ecco perché quasi sempre, quando mi esibisco, porto gli occhiali neri. Non voglio che la gente mi veda piangere».
Già, occhiali neri, borsalino, vestito scuro e chitarra a tracolla: quella è l’immagine che chiunque abbia avuto la fortuna di vederlo dal vivo ha ben impresso nella sua mente.
E che non potrà mai più scordare.
DISCHI DELLA MEDESIMA VENA ARTISTICA
The Ultimate Blues Band / The Hot Spot (OST) (Antilles, 1990)
Colonna sonora di un film prodotto da Dennis Hopper, l’album presenta una band stellare che vede John Lee Hooker in compagnia di colossi della black music come, tra gli altri, Miles Davis e Taj Mahal. Dietro le quinte c’è sempre il fedele Roy Rogers. Molto belle le musiche, firmate da Jack Nitzsche, genialoide californiano scomparso prematuramente nell’agosto del 2000.
B.B. King / Blues Summit (MCA, 1993)
Dodici duetti in studio (uno dei quali proprio con The Hook) registrati appositamente per questo Blues Summit. B.B. King non cerca (come John Lee con The Healer) contaminazioni particolari: suonare il blues con Koko Taylor, Buddy Guy, Albert Collins, Lowell Fulson, Etta James o Irma Thomas per lui è più che sufficiente.
Santana / Supernatural (Arista/BMG, 1999)
Un album di duetti con giovani epigoni, lo stesso fonico di The Healer e una chitarra colma di blues che vuole guarire il mondo. Come il suo «eroe», Santana viene premiato da pubblico e critica. Come The Healer per Johnny Lee, Supernatural segna il grande ritorno di Santana e lo consacra leggenda assoluta della musica del Novecento.