Pure un cieco sordo muto finirebbe per essere influenzato da questa città», dice l’allampanato Justin Townes Earle riferendosi alla sua nuova casa adottiva, New York. Siamo in un appartamento a un isolato dal suo e – giustamente, per uno che si descrive come un preservatore musicale – a due passi da dove visse Leadbelly negli anni 40.
Sono passati un paio d’anni da quando parlai per la prima volta con Justin Townes Earle della sua vita, della sua musica e del suo background – è il figlio di Steve Earle, il nipote della songwriter Stacey Earle e ha ereditato il nome dal mentore del padre Townes Van Zandt. Il suo debutto The Good Life era appena stato pubblicato. Eravamo nel backstage prima che Justin salisse sul palco in un locale di 160 persone riempito solo a metà. Nel frattempo sono accadute molte cose. Ha vinto il premio della Americana Music Association come «migliore artista emergente» e ha visto la sua stella brillare sempre più grazie al terzo cd Harlem River Blues, per il quale ha ricevuto elogi e recensioni a 5 stelle. Le sale da 160 posti riempite a metà sono state rimpiazzate da locali con 1400 persone di capacità.
Saranno cambiate molte cose, ma la musica è rimasta la stessa. La sicurezza, la rilassatezza e la modestia sono le stesse, è mutato il vestito che ora è decisamente da newyorchese alternativo. Capelli scompigliati e lunghi fino alle spalle hanno sostituito il taglio corto e ingellato di quando viveva a Nashville. Nel 2008 era sobrio da quattro anni e pulito dalle droghe. Oggi è sobrio da quattro settimane. Aveva appena iniziato il tour, l’anno scorso, quando è stato arrestato per aggressione, ubriachezza e resistenza all’arresto dopo un concerto a Minneapolis. È tornato in una clinica di disintossicazione. Ci liberiamo subito dell’argomento.
Bentornato dalla disintossicazione, Justin.
«Grazie. È bello essere qui».
Hai scritto qualcosa mentre eri lì?
«Poco. Tendono a darti cose da fare per tenerti occupato. Si iniziava alle 7 di mattina e si andava a dormire alle 23. L’ultima funzione era alle 10 di sera. Mi era permesso di suonare la chitarra un’ora al giorno».
Non voglio dire che ogni esperienza diventa una canzone, ma riesci a trasformare subito quel che ti accade in una canzone o hai bisogno di distanziarti dall’evento?
«Tendo a considerare le cose in retrospettiva e a scrivere basandomi sugli stati d’animo più che sugli eventi. E poi le canzoni sulla disintossicazione e sulla sobrietà sono di una noia mortale. I pezzi tipo “Sono pulito e guardo al futuro” sono ridicoli. Nessuno vuole sentire la canzone di uno che se la passa meglio di te. Non sono un autore che si siede e scrive. Faccio parte della categoria che fra i songwriter va sotto il nome di “autore da tovagliolo di carta” (ovvero chi scarabocchia idee su qualunque cosa abbia sotto mano, come i tovaglioli di carta, per poi mettere ordine in seguito, nda). Mentre scrivo metto raramente le mani sulla chitarra. Assemblo i pezzi piano piano. A volte ci metto mesi a comporre una sola canzone, perciò spesso ne lavoro tre o quattro contemporaneamente. Non faccio concept album, però i miei dischi un concetto lo devono pur avere: quando scrivi quattro, cinque canzoni tutte assieme ti viene più facile tenere vivo un concetto rispetto a quando le componi una per volta. Le idee vengono quando vogliono: devi essere pronto. Non ne lascio scappare mai una».
Quindi tutte le canzoni del nuovo disco sono state scritte dopo l’ultimo album?
«The Good Life ne conteneva 3 o 4 che avevo scritto da adolescente. Mai avrei pensato che un giorno sarebbero state pubblicate. Anche su Midnight At The Movies ce n’erano un paio di quand’ero teenager. Halfway To Jackson la scrissi a 15 anni. Ma su Harlem River Blues, a parte Rogers Park, tutte le canzoni sono nuove».
Il Rogers Park è a Chicago. Hai scritto quella canzone quando vivevi lì?
«L’ho fatto dopo essermene andato via da Chicago. L’ho messa in coda a Harlem River Blues perché l’album ha umore piuttosto cupo e Rogers Park è lì a ricordarti che le cose possono andare male ovunque tu vada».
Dato che ti sei trasferito qui l’anno scorso, possiamo considerare Harlem River Blues il tuo disco newyorchese?
«È decisamente influenzato da New York. Pure un cieco sordo muto finirebbe per essere influenzato da questa città. È un disco sulla transizione, su molti tipi di transizioni: viaggiare, realizzare che sto invecchiando. Sarò presto trentenne. Non ho più 18 anni, non cado e mi rialzo come un tempo, non trovo più così divertente venire arrestato. Quando mi ubriaco o mi infilo in una qualche situazione ridicola, nessuno dice più: “Oh, è solo un ragazzo”. Non ho più scuse. Tutti i personaggi delle canzoni capiscono di non avere più molte opzioni a disposizione».
Hai co-prodotto il disco. Il suono del cd corrisponde al modo in cui senti la città?
«Penso che la varietà dell’album sia rappresentativa della città. Qua puoi fare qualunque esperienza, a qualunque ora del giorno. New York è una città d’immigrati. Come dice mio padre nel suo ultimo disco, questa città non è stata costruita da chi ci è nato, ma da chi ci si è trasferito. È più ricettiva di qualunque altra metropoli. A Boston e Los Angeles c’è la stessa densità e diversità culturale. Con una differenza: lì non devono vivere ammassati».
Hai menzionato l’ultimo disco di tuo padre Steve. In Working For The Mta canti: «Questo non è il treno di mio padre». È un modo per invitare la gente a non paragonarti a lui?
«In un certo senso lo è. Qualunque cosa facciamo, restiamo per sempre i figli di nostro padre. Ma per i maschi è vitale allontanarsene prima o poi. Sono colpevole di peccati simili a quelli commessi da mio padre. Non che voglia smettere di peccare: ne voglio commettere di nuovi».
Avevi già in mente il suono di Harlem River Blues o l’hai sviluppato qui a New York?
«Ce l’avevo in testa da un pezzo. Nel disco cerco di gettare un ponte tra la Carter Family e gli Staple Singers. C’è una connessione tra i due gruppi e ha a che fare con la mia teoria secondo cui tutta la buona musica nasce dalla chiesa. Lì sono le radici, più di quanto ci piaccia pensare. Il country non è un’invenzione di un hillbilly spuntato da chissà dove, così come il blues non è la creazione di un ragazzo di colore. Probabilmente hanno passato l’infanzia a cantare in chiesa ed è da lì che vengono quelle musiche. È una tradizione forte e radicata nel sud».
Parecchie delle prime canzoni rhythm & blues come What I’d Say di Ray Charles in origine era spiritual con parole differenti…
«Scoppiò l’inferno quando Ray Charles la trasformò in un rock’n’roll».
Scoppiò l’inferno anche quando Pops Staples degli Staple Singers cominciò a suonare gli spiritual con la chitarra elettrica.
«Credo faccia parte della cultura sudista. Se andassi nel West Virginia, l’unico stato dove è ancora legale lo snake handling (un rituale religioso che prevede l’utilizzo di serpenti, ndr), potresti imbatterti in un figlio di puttana che se ne va in giro con un serpente a sonagli in mano mentre un altro tizio fa gemere la chitarra elettrica, un altro picchia un tamburo come un indemoniato e un altro ancora percuote il basso. Amano la musica».
In Slipping And Sliding canti un verso, «Non ricordo nemmeno da quando non vedo un’alba», che la gran parte della gente potrebbe associare a Johnny Cash. C’è del vero?
«Quando posso cerco di infilare i miei eroi nella mia musica. Ma quel verso in particolare è personale. Una sera mi feci qualche riga di coca e vidi il sole salire: non l’ho rifatto per sei anni. È da lì che viene la canzone».
Io ci avevo visto un riferimento a Slippin’ And Slidin’, la canzone scritta dal pianista di New Orleans Eddie Bo e registrata da Little Richard.
«Ho inserito un “peekin’ and hidin'” (sbaglia, Little Richard cantava “peepin’ and hidin'”, nda) alla fine per rendere omaggio all’originale».
Nel tuo primo ep Yuma c’eravate solo tu e la tua chitarra. Il secondo è ancora un disco di american roots, ma con una band. Stavi mettendo assieme le tessere di un puzzle?
«Voglio essere un songwriter ed è un campo aperto, pieno di possibilità. Significa che finché faccio le cose per bene, posso permettermi di fare quel cazzo che mi pare. È uno dei privilegi di questo lavoro. Quando si tratta di arte, ti detti da solo le regole. Sei tu che scegli il tuo destino. È una delle poche cose che non ho sbagliato nella vita: sono stato in grado di tenere aperte molte opzioni come artista. Ho lasciato che le donne e le sostanze chimiche mi rovinassero la vita, ma non ho mai permesso che qualcosa o qualcuno compromettesse la visione di quel che volevo essere in quanto songwriter».
Who Am I To Say è fra le tue canzoni preferite?
«È una delle mie preferite. La tua anima non ha alcun beneficio a giudicare gli altri, né gli altri possono trarre alcunché di buono dal tuo giudizio: è l’idea che cercavo di far passare. L’espressione clean cut (in questo contesto: persona per bene, “pulita”, ndr) dovrebbe essere eliminata dal vocabolario della lingua inglese. Tutti hanno uno scheletro nell’armadio».
Hai già cominciato a pensare al prossimo cd?
«Ho 3 canzoni, le sto finendo. A una manca solo un verso, a breve ne avrò due pronte. Non ci sono pause. Ecco, questo è uno dei malintesi. Sono convinto che se sei un vero artista non hai scelta. È il motivo per cui gli artisti vanno fuori di testa e iniziano a farsi e a bere: è un processo che non riesci a fermare e a volte un goccio di qualcosa di forte ti dà una mano».
Ascolta Justin parlare della sua musica ed eseguire alcune canzoni su www.sittingwith.com
02/05/2011
JUSTIN TOWNES EARLE
New Kid In Town