“Queste canzoni hanno fatto parte del mio tessuto culturale, rappresentato la colonna sonora della mia vita, hanno contribuito alla costituzione del mio dna musicale”.
“Per riconoscere l’impatto che hanno avuto sulla mia personalità artistica, e renderne doveroso tributo, ho voluto interpretare questi brani nel modo più semplice, puro e onesto possibile. Con tanto amore per le incantevoli melodie ed enorme rispetto per i loro autori: ho cantato con devozione autentica, quasi si trattasse di inni sacri, di ispirate canzoni di preghiera”.
Con parole emozionate e piene di sincera ammirazione, k.d. lang presenta dalle colonne del website ufficiale (kdlang.com) il suo ultimo lavoro, emblematicamente intitolato Hymns Of The 49th Parallel. Perché lassù, al 49esimo parallelo nel natio Canada, terra di formidabili talenti musicali, k.d. c’è nata e cresciuta. E come lei i magnifici compatrioti che ha voluto immortalare nell’album. Aiutata dagli archi eleganti di Eumir Deodato e dal raffinatissimo minimalismo acustico di Ben Mink, k.d. ha finalmente potuto scatenare la sua fantastica espressività vocale. E così Hallelujah di Leonard Cohen fa vibrare i cuori, Helpless di Neil Young (ricordate? “There is a town in north Ontario.”) diventa una leccornia per cultori raffinati, A Case Of You di Joni Mitchell (“I drew a map of Canada. oh Canada”) un sentito omaggio alla madre di tutte le cantautrici.
“Vuoi conoscere l’erede di Edith Piaf?”, mi disse una volta, nell’estate del 1990, il direttore artistico della Warner Nashville, “vai a vedere k.d. lang dal vivo.”
Non aveva bisogno di sollecitarmi.
Sono sempre stato un ammiratore dell’ambigua, fenomenale Kathrine Dawn. Di quella ragazzina dell’Alberta che ha deciso di rinunciare alle maiuscole nel nome come gesto di umiltà verso i grandi ma anche come segnale di trasgressione verso un mondo formale di cui non ha mai condiviso i principi. Seguo k.d. sin dagli esordi, da quando nella seconda metà degli anni 80, con la sua band The Reclines (sottile tributo al suo idolo, Patsy Cline), si era inventata una sorta di esplosivo cow-punk con polke rockeggianti che viaggiavano a 150 miglia l’ora. E che stavano sconvolgendo la pur sconvolgente scena del new country.
Amata eppur troppo spesso temuta, riverita ma (quasi) sempre evitata, miss lang ha pagato care le sue esplicite inclinazioni sessuali, il suo duro attivismo in campo sociale, il suo vegetarianesimo e le sue irremovibili posizioni per la difesa dei diritti degli animali.
Nashville l’ha scaricata subito. E Hollywood (che inizialmente sembrava attratta dal suo personaggio androgino) l’ha presto lasciata perdere. Ma k.d. non si è arresa. E ha cambiata strada, virando verso repertori artisticamente discutibili (almeno per il sottoscritto) ma commercialmente proficui. E ha così portato a compimento la sua vendetta.
Tanto che oggi, con antica energia e immutata classe, si può permettere il lusso di dare vita a un’operazione di amore sconfinato (e di qualità assoluta). L’idea è nata a fine 2002, durante il tour di A Wonderful World con Tony Bennett: “Cantando con Tony ho iniziato a pensare alle mie radici musicali. Cosa avrei potuto far di meglio se non rendere tributo al grande songwriting canadese che, di fatto, scorre da sempre nelle mie vene?”, racconta la lang. “Riflettendo sul materiale ho anche scoperto che c’è un sottile, ma importante fil rouge che unisce e rende omogenea la creatività degli autori canadesi. Si tratta di una brillante consapevolezza che consente di incorporare lo spirito della natura (così determinante nella cultura del Canada) all’interno di emozioni, affetti e valori degli esseri umani. Credo sia questo il segreto dell’arte musicale di noi canadesi” (vedi la cover story di JAM 105).
Non ci sono solo Young, Cohen e Mitchell (celebrati con due canzoni ciascuno perché, oltre alle canzoni già citate, k.d. interpreta con altrettanta efficacia After The Goldrush, Jericho e Bird On A Wire). Anche la sofisticata Jane Siberry riceve in omaggio due cover, la coinvolgente The Valley (uno dei pezzi meglio riusciti del disco) e la romantica Love Is Everything, che chiude l’album. Con lei, sono pure citati Bruce Cockburn (davvero delicata la versione che k.d. propone di One Day I Walk) e Ron Sexmith (Fallen).
C’è anche un pizzico di ‘presunzione’ quando la lang ripropone Simple, un pezzo da lei composto insieme al suo bassista David Piltch, apparso in Invincible Summer (2000).
Ma tanté. Perché, come consigliava ai tempi il mio amico della Warner Nashville, quando avete occasione di ascoltare k.d. (meglio se dal vivo) l’impatto è davvero notevole.
Da tutti i punti di vista.
Lo ricordo il mio primo incontro ravvicinato con k.d.; è avvenuto nell’agosto del 1992, al Paolo Soleri Amphitheatre di Santa Fe, New Mexico. Duemila persone affollavano l’affascinante arena in attesa del loro idolo: in stragrande maggioranza lesbiche e gay. La qual cosa aveva messo in un certo imbarazzo l’amico Luca Valtorta, con il quale ero in viaggio negli Usa e che coinvolgevo in avventure musicali non sempre a lui gradite. Io non ho mai visto Edith Piaf ma posso garantire che quel concerto di k.d. lang è stato uno degli spettacoli più emozionanti e coinvolgenti al quale abbia mai assistito. La sua vocalità è (Sinéad O’Connor permettendo) senza eguali: intensa, emozionante, pulita, varia, originale. Le sue capacità di performer, assolute.
Il suo unico (ma non per questo irrilevante) problema, negli ultimi dieci anni è stato (almeno secondo me) il suo repertorio. Oggi, con il materiale di straordinaria qualità contenuto in questo disco, immagino che uno spettacolo di k.d. lang sia evento da non perdere.
Per questo, non solo consiglio a tutti i lettori che hanno voglia di vivere un’esperienza acustica davvero rigenerante di immergersi nelle atmosfere di Hymns Of The 49th Parallel. Ma segnalo anche la chance esclusiva di vedere k.d. lang a Milan, al Teatro Manzoni, il prossimo 22 novembre.
Imperdibile.