Viso dai lineamenti delicati, occhialetti da liceale e fisico minuto (arriva a malapena al metro e 55) Kaki King appare, a prima vista, la classica ragazzina dolce e indifesa. Ma subito dopo essere entrata negli studi milanesi Casalogic di Francesco Piccolomini, dove registriamo lo special per LifeGate Radio, la piccola Kaki si trasforma. Sicura di sé, grintosissima e per niente intimidita dalla situazione, si siede alla batteria e comincia a pestare su quello che sembra essere lo strumento dei suoi sogni.
Capisco immediatamente da dove viene quel suo stile percussivo, quella voglia di ritmo che la sua Ovation customizzata trasmette in ogni brano. E se Michael Hedges definiva il proprio stile “una via di mezzo tra il balletto classico e il wrestling” Kaki, parafrasando Michael, afferma che “il mio è qualcosa che sta tra il pescare e le corse di Formula 1.”. Già, perché (al di là del buffo paradosso) quando la senti suonare ti accorgi che la sua chitarra passa con naturalezza da momenti di lirismo, introspezione e relax a fasi di alta velocità, beat frenetico, pulsazioni ritmiche che, a volte, fai davvero fatica a capacitarti che possano provenire da una 6 corde acustica.
Imbraccia lo strumento (che in confronto alla sua esile figura pare enorme e sproporzionato) con fare disinvolto. Eppure, con la chitarra, non è stato amore a prima vista.
“Ho iniziato a 5 anni per volere dei miei genitori” dice. “All’inizio la odiavo e, a un certo punto, ho anche smesso. Poi ho capito che mi veniva facile e che ero molto più brava dei miei coetanei. Così ho ripreso a suonarla con passione. Ma, ancora oggi, non mi considero una chitarrista. Mi sento musicista, nel senso più ampio del termine”. Con due dischi all’attivo in poco più di due anni, Kaki King ha iniziato la carriera quasi per caso.
“Avevo preso il diploma alla NYU e non sapevo che fare” racconta. “Proprio in quei giorni c’è stata la tragedia dell’11 settembre. Ho trovato rifugio nella chitarra e nella musica. Ma non volevo che rimanesse una cosa esclusivamente mia. Così ho deciso di andarmene fuori: sostavo nei tunnel della metropolitana newyorchese e suonavo per la gente che passava. Notavo che molti si fermavano ad ascoltarmi, mi davano anche dei soldi, ma soprattutto mi chiedevano con sempre maggiore frequenza se avessi un album. Ho capito che era giunto il momento di registrare il mio primo cd”. Detto, fatto. Kaki si autoproduce un disco con i denari racimolati lavorando come cameriera al Mercury Lounge, un bar con musica dal vivo che, per sua stessa ammissione, “è stato un’utilissima palestra. Vedevo un sacco di band suonare, ho conosciuto qualcuno dell’ambiente e, quando ho presentato lì il mio primo lavoro, sono stata notata da un paio di tipi della Knitting Factory che mi hanno pure offerto di esibirmi al loro Tap Bar”.
Lì, attira l’attenzione di qualche producer lungimirante e quelle registrazioni diventano Everybody Loves You, suo album d’esordio (2003) oggi disponibile anche in Italia grazie alla Mechanism Records che ne pubblica una versione arricchita con tre inediti e un nuovo artwork (vedi il sito www.kakiking.it).
Un paio di ottime recensioni (come quella del L.A. Weekly che di lei scrive che “è la più giovane e sorprendente musicista a emergere dopo decenni”), diverse aperture di concerti importanti (Robert Randolph, David Byrne, Keb’ Mo’, Marianne Faithfull, ecc), la partecipazione al Bonnaroo (“Un festival entusiasmante, unico, dove si respira un clima bellissimo”) e soprattutto una fortunatissima ospitata nel popolare show di David Letterman fanno sì che il suo nome rimbalzi sulla bocca di operatori e appassionati. E che la lunga, solida e prestigiosa tradizione della chitarra acustica americana prosegua con rinnovato vigore.
“Quando ero piccola suonavo la chitarra classica, quella con le corde di nylon. Poi, per tutta la mia adolescenza, ho privilegiato la chitarra elettrica. L’acustica è venuta in un secondo tempo e non sono stata influenzata direttamente dai grandi maestri come John Fahey o Leo Kottke” spiega “piuttosto dai chitarristi della generazione successiva come Michael Hedges o Alex De Grassi. Anche se ci tengo a ricordare che il mio vero mentore è stato Preston Reed”.
Fa piacere che la King menzioni il chitarrista di Warmonk, New York, che nei primi anni 80 godeva della stessa fama e popolarità dei più celebrati interpreti della 6 corde acustica ma che poi è stato colpevolmente ignorato dai più.
“Non mi piace nominare altri chitarristi” vuole precisare Kaki “specie quando si parla del mio stile: è difficile e rischio di dimenticare qualcuno. Ascolto così tanta musica che è davvero arduo riuscire a dire chi mi influenza e come”.
Certo che, ascoltando accordature aperte, tapping sul manico, l’uso di armonici e di triplette oltre alla già citata attitudine percussiva e sincopata, la sua tecnica sembra proprio mutuata da quella del grande Michael Hedges. Come Michael, anche Kaki compone in modo assolutamente spontaneo (“A volte non ci penso nemmeno, i giri o i pattern sgorgano in modo naturale mentre suono. Da lì, sviluppo vere e proprie composizioni”). Come Michael, la King pone grande attenzione alla ricerca dei suoni e allo sviluppo di melodie e atmosfere rarefatte ma di straordinario fascino e seduzione.
Kaki desidera inoltre sottolineare che per lei “fare musica è quasi un bisogno fisico. Mi rendo conto che il ruolo del musicista professionista comporta doveri e obblighi. E che, in tale ottica, non è giusto concentrarsi solo su sé stessi. Ma non posso neppure negare che, su di me, la musica continua a esercitare un grande potere terapeutico: mi aiuta a vivere meglio”.
“Negli ultimi mesi” prosegue Kaki “sto vivendo sensazioni contrastanti. Da una parte capisco che il mio chitarrismo è migliorato, che riesco a suonare con facilità e senza sforzo. Dall’altra, sento che c’è troppa chitarra nel mio mondo. Anche per questo, sto provando a cantare e voglio trovare una voce giusta per interpretare le mie canzoni”.
Al momento, la composizione sembra quindi essere il lato della musica che attrae maggiormente la giovane musicista newyorchese. “Direi di sì, anche se le emozioni che si provano quando si è su un palco sono assolutamente impareggiabili”.
Dopo la pubblicazione di Legs To Make Us Longer (suo secondo lavoro per la Epic), la King sta già prendendo in considerazione l’idea di un nuovo album.
“Ma non so ancora come sarà” dice. “Di certo, se voglio cantare, devo trovare un equilibrio tra la mia voce e il mio stile chitarristico, al momento troppo elaborato e complesso per sostenere il canto”.
Sveglissima e con uno sguardo furbissimo che ti fa capire che non tollera imprecisioni o domande banali, Kaki è una che la sa lunga anche sulle sue ambizioni future.
“Questa piccola tournée in Francia e in Italia mi sta facendo capire tante cose” dice facendosi seria. “Ad esempio, apprezzo molto l’attenzione e il rispetto che il pubblico europeo ha nei confronti di artisti che non conosce. In America, ho suonato spesso come opening act di importanti rockstar e la gente mi seguiva in modo distratto, a volte sopportandomi a malapena. Il palco è e, mi auguro, continuerà ad essere la mia vita anche se, in tutta franchezza, non mi vedo a 60 o 70 anni continuare a suonare le cose che sto facendo adesso. Mi auguro proprio che la mia musica si possa evolvere”.
“Ci sarebbero tanti artisti con cui mi piacerebbe collaborare” rivela anche se subito dopo ammette con umiltà che “alcuni di loro sono autentiche leggende e io una giovane e piccola chitarrista acustica”.
Una chitarrista con, tra l’altro, un’irresistibile voglia di batteria. Tanto che, mi viene spontanea la provocazione finale: se ti chiamasse Jack White? Forse ha bisogno di una batterista un po’ più brava e solida. che ne dici?
“No comment” mi fa lei sfoderando quel sorrisino ammagliante e divertente quanto i suoi bollenti lick chitarristici.