Quando uscì The Red Shoes, il suo ultimo album prima del ritorno, i vinili facevano ancora la loro bella figura negli scaffali dei negozi di dischi, non esistevano gli iPod e persino la sigla mp3 non aveva alcun significato. Non stiamo parlando di un secolo fa, ma nell’industria discografica dodici anni di silenzio sono quasi un secolo. Quando poi l’ultima apparizione coincide con l’uscita più incolore di tutta la carriera di un’artista, è normale che qualcuno tenda a dimenticarsi di lei o a considerarla un pezzo del passato.
Invece Kate Bush questi anni li ha passati lavorando e rigenerandosi, nel modo che conosce meglio, ovvero cercando di vivere una vita il più normale possibile, quella che ha sempre badato bene, anche nei momenti di maggiore notorietà (planetaria), a conservarsi nella maniera più gelosa. Senza per questo dimenticare la musica. Anzi, concentrandosi talmente tanto su di essa da non accorgersi del tempo che passava. Così tra una torta e una passata di lavatrice, una sforbiciata al prato e le molte attenzioni dedicate al figlio Albert, nato nel 1998, ha composto e registrato – e ricomposto e ri-registrato – con la consueta maniacale voglia di perfezionismo, il suo nuovo lavoro, Aerial.
È stata un’attesa ripagata a dovere. Album doppio che guarda apertamente al capolavoro Hounds Of Love (1985), Aerial è un lavoro denso, ambizioso, curatissimo ed equilibrato nella sua eleganza e classe. Manca forse l’acuto, il brano memorabile che svetta sugli altri, ma anche in questo caso, come ogni cosa nella carriera di Kate, sembra un effetto calcolato: usando un paragone sportivo, la cantautrice del Kent ha preferito puntare più sul collettivo che sulle giocate dei singoli fuoriclasse. Se è infatti vero che mancano i picchi assoluti, (come in Hounds Of Love potevano essere Running Up That Hill o Cloudbusting), lo è altrettanto che non c’è un cedimento, e in un lavoro di simile respiro e lunghezza è un piccolo miracolo. Se proprio un difetto bisogna trovarlo è forse quello di un eccessivo carattere cerebrale di alcuni passaggi. Dodici anni per pensare un album sono forse troppi e qua e là si sente. È la stessa Bush a descrivere bene la situazione che si era creata: “Ho capito che era finito quando mi sono resa conto che non avrei potuto andare oltre perché mi avrebbe uccisa. Non ne potevo più di ascoltarlo di continuo”.
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Le critiche sono state unanimi nel definire Aerial un capolavoro (qualcuno si è spinto addirittura a definirlo il capolavoro) e il pubblico ha risposto dimostrando di non aver dimenticato Kate Bush, tanto che nel giro di un mese l’album è diventato disco di platino. Un risultato enorme considerato il momento attuale della discografia e il fatto che si tratti di un album “difficile” e che ha potuto godere di una promozione tutto sommato limitata. Questo per la sempre più evidente allergia di Mrs. Bush a concedersi a certi riti del music business, in particolare interviste e ospitate. Un’ampia ed esaustiva intervista rilasciata a Mojo, un’altra radiofonica per la Bbc e pochissimo altro. Se si pensa che queste sono state le prime interviste dopo quattro anni di assoluto silenzio e prima di allora per trovare un altro contatto con la stampa specializzata bisognava andare indietro di sette anni, si ottiene una media di una chiacchierata ogni cinque anni e mezzo. Un atteggiamento che ha contribuito a far crescere attorno alla sua figura qualche antipatia e qualche voce maligna. “Debole”, “instabile”, “nevrotica”. Gli aggettivi si sono sprecati per Catherine, ma se volete vedere questa placida signora di 47 anni, così eterea e sofisticata, andare su tutte le furie e tramutarsi in una belva, andate a dirle che è la classica rockstar fragile in fuga dal mondo. La reazione sarà furibonda perché ciò che cerca è proprio l’opposto dall’essere tagliata fuori dal mondo reale. In questo caso non esiste nessuna Neverland con trenini e parchi giochi per un eterno Peter Pan che non vuole fare i conti con la realtà. Tutt’altro. C’è la vita quotidiana di una moglie e di una mamma impegnata a crescere suo figlio. Il caso vuole che questa donna sia poi anche un genio musicale che ama, oggi più che mai, prendersi tutti i tempi che le servono pur di essere pienamente convinta del proprio lavoro.
“Spero che la gente senta che la mia intenzione nel lavoro è di fare qualcosa di interessante dal punto di vista creativo” ha detto a Mojo. “Fare soldi non c’entra nulla. Se volessi fare soldi pubblicherei un disco all’anno, sia che fosse una merda oppure no. E andrei un sacco di volte in tv per spingerlo. Queste sono cose che non mi interessano proprio”. Ed ecco così spiegate le apparizioni con il contagocce. D’altro canto a parlare per lei c’è un doppio album dallo spessore tale da valere più di dieci interviste o passaggi televisivi.
Come detto Aerial guarda, per stessa ammissione di Kate, ad Hounds Of Love (“Mi piaceva l’idea di fare, dopo I segugi dell’amore, Gli alani dell’amore”), per molti il picco più alto della cantautrice inglese e di sicuro quello di cui va più orgogliosa. Un lavoro importante anche a livello simbolico. Pubblicato dopo la parziale delusione commerciale (non certo artistica) di The Dreaming (1982), fu il primo album nato nello studio casalingo di Kate che poté così seguire tutte le fasi compositive e realizzative. Il successo mondiale (per la prima volta entrò in maniera significativa anche nel mercato americano) fu la prova che l’artista poteva fare tutto da sola e di fatto significò la libertà (artistica) conquistata. Da quel momento Kate ha fatto tutto come meglio ha creduto, forte anche di un contratto che si basa su un patto ben preciso: nemmeno un penny in anticipo ma il disco si ascolta e commenta soltanto una volta finito. Nessun dirigente della Emi può permettersi di ascoltare qualcosa in anteprima chiedendo magari (orrore!) qualche aggiustamento in corsa.
Di Hounds Of Love, Aerial ha ripreso la struttura bipartita, dilatandola anche in virtù dei nuovi limiti che il supporto cd impone rispetto al vinile. Laddove era logico dividere concettualmente in due facciate il lavoro, oggi diventa quasi d’obbligo, volendo segnare una cesura tra i due momenti, dividerlo in due. dischi. A Sea Of Honey è più accessibile e commerciale, con composizioni che vivono di vita propria, mentre A Sky Of Honey è il luogo della sperimentazione. Una suite, o meglio un vero concept, che racconta lo svolgersi di una giornata dal primo pomeriggio all’alba del giorno successivo, ruotando attorno a due temi musicali ricorrenti, che rappresentano la luce e il canto degli uccelli.
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A fronte dell’immediata riconoscibilità del sound e dell’atmosfera generale, Aerial è un lavoro che, se analizzato, risulta molto diverso da quanto fatto abitualmente dall’artista, sin dall’approccio. Musicalmente viene fatto un uso molto moderato dell’elettronica, affidandosi invece a strumenti reali (addirittura, come in Bertie, rinascimentali). Quasi un voler andare controcorrente, nell’epoca dominata dal computer, da parte di un’artista che ha sempre fatto un uso massiccio e inventivo dell’elettronica e delle programmazioni, in particolare grazie al Fairlight. “L’aspetto positivo dell’intervallo occorso dopo l’ultimo disco” ha spiegato lei alla Bbc “è stato proprio il poter fermarmi e pensare agli errori che continuavo a ripetere. Desideravo realizzare un disco che racchiudesse un maggior senso di spazio. E anche ricoprire più il ruolo di narratrice che di protagonista del brano. Volevo rimanere al di fuori e parlare delle situazioni al di fuori di me stessa. Parte del processo era anche non dover realizzare molti cori. Ottenere l’effetto di una voce che racconta una storia”.
Proprio le liriche, le storie raccontate sono l’altro punto di distacco dal passato. I riferimenti letterari e mistici si sono rarefatti per lasciare spazio a storie di vita comune, spaccati di intimità. Se How To Be Invisible sembra essere una sorta di manifesto di quella che è diventata la vita di Kate (“I found a book on how to be invisible”), ci sono Bertie e A Coral Room, dove i protagonisti sono due figure centrali e determinanti per i mutamenti degli ultimi anni nella vita dell’autrice. La prima è dedicata al figlio, una vera e propria ode entusiasta ed esplicita. La seconda invece permette a Kate, con pochi semplici richiami e uno sguardo quasi di scorcio di parlare della madre morta nel 1992. Una perdita gravissima che la prosciugò emotivamente e che influì non poco sulla scarsa riuscita di The Red Shoes (che lei stessa oggi definisce “alla lunga noioso”). Una perdita metabolizzata nel corso degli anni, tanto che solo oggi Kate è riuscita ad affrontare l’argomento. Due brani e due momenti della vita di Kate che, messi in relazione, contribuiscono a spiegare la nuova maturità dell’artista e tutto ciò che divide The Sensual World (1989) da Aerial, con The Red Shoes come punto di passaggio intermedio. Morte e nascita per la metamorfosi da figlia a madre, con uno sguardo sul mondo che di colpo cambia prospettiva. “La maternità e crescere un figlio ha cambiato il mio modo di comporre e pensare la musica” spiega. “Ritengo che lo stesso peso lo abbia il perdere la propria madre, perché da quel momento non sei più una ragazzina. Dalla realizzazione del penultimo album, quindi, sono occorsi diversi eventi che mi hanno cambiata”.
Ma il brano che forse maggiormente segna la cesura con il passato è Mrs. Bartolozzi, dove la protagonista si incanta di fronte alla lavatrice nella quale girano i vestiti di due amanti. La Bush metaforizza in modo deliziosamente poetico l’intrecciarsi degli abiti come “fantasmi” dei corpi ma l’episodio raccontato resta uno squarcio di banalissima vita quotidiana che poi esce e si fonde nella natura nel momento in cui l’acqua corre verso il mare perdendosi infine in esso. Un brano che, conoscendo Kate, spiazza per la semplicità del tema trattato, tanto che lei stessa si diverte molto nel rilevare come qualcuno al primo ascolto abbia voluto cercarvi significati altri, come per esempio quello di un omicidio come antefatto al lavaggio degli abiti… “Mi piaceva l’idea di trattare questo tema molto piccolo” ha detto a Mojo. “Qualcuno ha pensato che dietro potesse esserci un delitto e io credo che questa cosa sia fantastica. Adoro l’ambiguità”.
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Eppure, fatte salve tutte le diversità, ciò che alla fine ne esce non è pop, non è rock, non è progressive. È sempre e solo Kate Bush. E il suo mondo, nel quale diventa impossibile non essere catapultati per le due ore di ascolto. È questo ciò che dà lo spessore della personalità e della caratura artistica dell’artista inglese. Un tassello inserito con perfetta logicità all’interno di una carriera dove la stella polare è sempre stata quella della lotta per un’indipendenza artistica unita a una feroce voglia di preservare la propria sfera privata (custodita tanto gelosamente che della nascita di Albert lo si è saputo un anno e mezzo dopo, solo grazie a una mezza gaffe di Peter Gabriel che ha parlato di “mamma Kate.”).
Certo, non si può negare che tutto sia girato nella sua carriera sotto la luce di una buonissima stella. Non a tutti capita di avere come pigmalione David Gilmour che ti scopre all’età di 17 anni e ti presenta alla Emi facendoti avere il primo contratto discografico. Ma è anche vero che la grande libertà artistica Kate se l’è poi conquistata e tenuta stretta forte del grandissimo successo che la sua musica aveva. Un successo spesso arrivato grazie al suo impuntarsi su scelte che sulle prime potevano sembrare anomale o molto poco commercialmente oculate. Come il primo singolo, che la casa discografica voleva fosse la più canonica James And The Cold Gun rispetto all’evocativa e atipica Wuthering Heights. Come sia andata a finire è storia nota. Così come è storia il suo voler ben presto occuparsi anche della produzione dei propri dischi sin da Never For Ever (1980) dopo che per il successore di The Kick Inside (1978), Lionheart (1978), aveva avuto grossi contrasti di vedute con il produttore Andrew Powell. Insomma, buona stella sì, ma anche e soprattutto un talento musicale e una personalità fuori dal comune.
Alla fine di tutto, quello che conta è che Kate è tornata. Ciò che allo stato attuale delle cose resta un’utopia è la possibilità di rivederla su un palco per uno spettacolo tutto suo. Eppure lo stage per lei non sembrava essere un elemento secondario, tutt’altro. Quando nel 1979 la cantautrice inglese mise in piedi il Tour Of Life, ciò che ne uscì fu uno spettacolo in perfetta sintonia con la sua concezione dell’arte, vissuta a 360°. Un vero e proprio musical di quasi due ore e mezza dove l’elemento scenico aveva un’importanza pari a quello musicale (al punto che un brano era dichiaratamente in playback per permetterle di rendere al meglio la parte mimico-interpretativa). Coreografie curatissime, 17 cambi d’abito: art rock allo stato puro che la lasciò totalmente esausta da un punto di vista mentale. Sarebbe stato il suo primo e unico tour. Da quel momento si sarebbe limitata a sporadiche apparizioni il più delle volte in compagnia di qualche fido amico (Peter Gabriel, David Gilmour) e per qualche causa benefica. Per di più queste non sempre sono riuscite al meglio, come nel 2002 quando si esibì proprio con Gilmour alla Royal Festival Hall di Londra interpretando Confortably Numb dei Pink Floyd. Un’esecuzione incerta e nervosa al punto da farle chiedere poi di escludere la performance dal dvd della serata. A tenerla lontano dal palco c’è quindi un misto di sana paura dell’evento (“L’ho fatto alcune volte per degli amici e tutte le volte ero terrorizzata perché è passato così tanto da quando sono stata su un palco. Forse avessi più tempo avrei modo di essere meno nervosa”) e di timore di rimettersi in un ingranaggio che la potrebbe portare via dalla sua normalità (“Sarebbe come lasciare il mio forno e la scuola di mio figlio per mettermi di fronte a tutta quella gente. Sono a un punto diverso ora. Non credo ci sia la possibilità che faccia mai più un tour”).
Non resta quindi che accontentarsi dei suoi dischi, sperando siano più frequenti di quanto accaduto nell’ultimo decennio. D’altro canto lei promette che, rotto il ghiaccio, l’anno prossimo sfornerà due album. È il caso di crederle?