L’ispirazione artistica può venire da un’esperienza di vita che scuote la sensibilità dell’autore, più raramente è frutto di un’occasione che in modo lungimirante ci si è creati da soli. Tuttavia, qualche volta può succedere e dare luogo a un lavoro di tutto rispetto: è il caso del nuovo disco di Kenny Wayne Shepherd, 10 Days Out, un progetto che ha una genesi davvero particolare. Kenny Wayne è ormai un musicista del tutto affermato con un amore particolare per il blues che ha ultimamente saputo miscelare a un rock dalla tinta aspra. Quattro album alle spalle con un successo trasparente che ha consentito ai primi due, Ledbetter Heights (1995) e Trouble Is (1998), di arrivare al platino negli States e al terzo, Live On (1999), di essere nominato ai Grammy, non hanno smorzato le velleità di Shepherd che ha appunto tentato la nuova via della contaminazione rock con The Place You’re In (2004).
“Dopo gli sconfinamenti rock” dice Kenny Wayne Shepherd durante una conversazione telefonica “era giunto il momento appropriato per realizzare un disco con una forte connotazione blues. Volevo immergermi in un clima che potesse davvero darmi la sensazione di respirare questa musica in modo genuino, che mi permettesse di esprimere in maniera precisa quello che volevo dire”. Insomma, un bagno di negritudine che non fosse solo ideale, ma che avesse un’espressione consona a quella che sanno creare i veri bluesmen in virtù del tipo di vita che hanno vissuto. Lodevole intenzione, purtroppo ostacolata dal fatto che Shepherd è bianco e ha vissuto una vita tutt’altro che stentata. “Non è il colore della pelle che determina lo stato d’animo blues” ribatte Shepherd “ma la difficoltà di vivere certe situazioni che sono certamente di ordine sociale, e anche, e soprattutto oggi, di ordine esistenziale. Ne ho parlato con il mio produttore Jerry Harrison e, insieme, abbiamo convenuto che il modo migliore sarebbe stato quello di intraprendere un viaggio nei luoghi blues per una decina di giorni e lasciare al caso quello che sarebbe successo”.
Attrezzato un pullman con tanto di tecnici e impianto di registrazione, i musicisti sono partiti garantendosi qualche sicurezza come ad esempio Tommy Shannon e Chris Layton, rispettivamente bassista e batterista dei Double Trouble del compianto Stevie Ray Vaughn e una troupe specializzata in documentari. “Con Tommy e Chris al mio fianco potevo affrontare il rischio del viaggio in tutta tranquillità, tutto quello che avrei trovato in più sarebbe stato solo un regalo. In realtà contavo molto sull’incontro con vecchi musicisti blues che sapevo abitavano da quelle parti e speravo si unissero volentieri al progetto”.
È stato così che, viaggiando attraverso le strade soprattutto secondarie del Sud, Kenny Wayne ha incontrato alcuni vecchi bluesmen nelle loro case e nei piccoli locali dove si ritrovavano e ha potuto suonare con loro. Con quel che rimaneva di due straordinarie band, quella di Muddy Waters e Howlin’ Wolf, ha addirittura tenuto concerti pubblici. “Suonare con musicisti come Bob Margolin, Willie Big Eyes Smith, Pinetop Perkins e Calvin Jones che facevano parte dell’ultima line up di Muddy è stata una sensazione straordinaria: mi ha portato alla memoria quando, ancora ragazzino, consumavo il vinile di Hard Again e impazzivo per quei suoni blues che mi creavano emozioni incredibili. Per molti anni Hard Again è stato il disco di blues che ho preferito ed è stato fondamentale, successivamente, per mettere a punto il mio stile chitarristico. Sarebbe ingiusto, tuttavia, non ricordare tutti gli altri musicisti che in parte conoscevo già, come ad esempio Buddy Flett che mi permise, quando avevo 15 anni, in occasione del mio primo ingaggio, di utilizzare la sua band sul palco, o Bryan Lee che mi ha dato la possibilità di suonare per ore con lui quando ero ancora più piccolo. Forse lo ha fatto perché era cieco e non potendo vedermi valutava solo per come suonavo, comunque me lo ha permesso ed è una cosa che non potrò mai dimenticare. Come scordare, poi, Gatemouth Brown, Wild Child Butler, Neal Pattman e Cootie Stark che nel frattempo se ne sono andati e hanno saputo regalarmi l’ultimo alito della loro arte. O B.B. King: ho sempre un complesso di inferiorità che mi rende nervoso quando suono con lui, nonostante la sua gentilezza e disponibilità”.
La via del blues percorsa da Shepherd e soci si è snodata attraverso Mississippi, Louisiana, Alabama, North e South Carolina, fino ad arrivare in Kansas e il tutto è stato rigorosamente filmato. Da chilometri di pellicola è stato tratto uno splendido dvd, allegato alla stessa confezione che contiene il cd, che si sofferma oltre che sui musicisti incontrati anche sui paesaggi e gli interni dei luoghi visitati, un flash davvero interessante su quello che è rimasto del popolo rurale del blues. “Il blues è ancora una musica vitale nel Sud, ovunque trovi echi di questa musica, ovunque trovi gente che la conosce e la sa suonare. La cosa straordinaria è che il blues non è rimasto solo patrimonio delle persone anziane, ma anche di quelle giovani che rimangono conquistate dalla magia che è presente in queste note. In quanto agli appassionati, poi, ne trovi in gran quantità: basta improvvisare un piccolo concerto e la gente accorre. Il vero problema è che la maggior parte dei musicisti blues ormai si limita ad un’attività amatoriale, o ben che vada, semi-professionale. Per questo motivo abbiamo deciso comunemente che parte degli incassi ricavati dal progetto 10 Days Out verrà devoluta alla Music Maker Relief Foundation, un’organizzazione non profit che si impegna ad aiutare gli artisti blues meno abbienti e fortunati”.
Shepherd ha saputo gestire bene il progetto, si è mosso con autorevolezza nel ruolo di bandleader, ma ha anche avuto l’intelligenza di tirarsi da parte quando era il caso: “Quando suoni con personaggi del calibro di quelli che ho incontrato in questo disco è importante mantenere il senso della realtà. La tentazione di porsi allo stesso livello è grande, spesso sono gli stessi artisti a prepararti i solo, a lanciarti nel bel mezzo del pezzo ed è qui che bisogna evitare la tentazione di strafare, di dimostrare quanto sei bravo. Io ho cominciato a suonare il blues che ero poco più di un bambino, ho imparato in modo maniacale tutti gli stili regionali con le loro peculiarità e credo di essere in possesso di una buona tecnica, ma quando suono con certa gente mi accorgo che ho ancora molto da imparare. Alcuni usano accordi che non ho mai visto e altri pur suonando in modo quasi naif riescono a dare interpretazioni con un feeling tale che nessun preziosismo stilistico sarebbe in grado di eguagliare. Ci vuole esperienza e ho capito che suonare con i vecchi bluesmen è come entrare in una palestra straordinariamente attrezzata”.
Il viaggio lungo le vecchie strade del blues è stato proficuo: l’album 10 Days Out è una piccola perla e il documentario che lo accompagna è altrettanto significativo. Kenny Wayne Shepherd ci ha regalato uno spaccato di passato mediato dal presente. “Lo scopo era quello di ottenere registrazioni intime in posti altrettanto intimi e mantenere l’autenticità del momento: l’album non ha overdub o manipolazioni high tech. Quello che si può sentire nel disco è ciò che è veramente accaduto”.