16/09/2013

KT Tunstall

La cantautrice scozzese di “Black Horse And The Cherry Tree” vola a Tucson a lavorare con Howe Gelb. E tira fuori una serie di canzoni di dolore e rinascita

Nessun promoter saprebbe essere più convincente di Howe Gelb mentre ti fa giurare di cercare un disco e ascoltarlo. Oggetto dell’amichevole pressing (nonché del suo imprinting di produttore) è una cantautrice che non era mai realmente entrata nella nostra tazza di tè, non tanto per un esordio (Eye To The Telescope, 2004) che la proponeva forzatamente come una delle tante nuove PJ Harvey, quanto per una carriera impegnata ruffianamente ad allargare l’audience. Mettere piede in questo album ha generato quindi la scoperta di un talento dai tratti inediti, nutrito da una sensibilità umana elevata quanto da buone dosi di coraggio, determinazione e lucidità.

Il nuovo album di KT Tunstall ti costringe a viaggiare fra le pareti delicate di sentimenti dolorosi, al termine del quale però ti porti a casa l’esperienza di sentirti parte di una bellezza più universale. Potere della musica, del desiderio di voler cambiare rotta al proprio cammino musicale, dell’affidarsi alla percezione di avvenimenti che stanno per accadere. O dell’intuizione che Gelb e il deserto dell’Arizona saranno il luogo ideale per marcare questa svolta artistica. È così fissato in musica il passaggio fra due stati d’animo diversi ma strettamente  collegati: l’elaborazione anticipata di una serie di avvenimenti luttuosi (la morte di un amico e poi quella del padre – e se conoscete le delicate vicende dell’infanzia di KT, sapete cosa vuol dire) e la successiva rinascita. Agonie che ti colgono mentre anche il matrimonio che hai messo in piedi con il tuo più prezioso collaboratore esala gli ultimi respiri, lasciandoti sola in un vortice di turbamenti che non erano esattamente nei tuoi piani. Perché il diavolo veste Prada, citando il titolo di un film che le ha portato fortuna, ma spesso ti lascia addosso tutto il suo bel guardaroba di tragedie.

Nei Wavelab Studios di Tucson, la ragazza che già si era assicurata un bel gruzzolo di premi e qualche milione di dischi venduti ci va in due periodi diversi. Nel febbraio 2012 registra le canzoni premonitrici, quelle di Invisible Empire. Dopo qualche mese, torna a fissare quelle di Crescent Moon, cronistoria dal di dentro di una sorta di nascita. Un lungo itinerario di cambiamento artistico e personale influenzato, oltre che dal feeling trovato con Gelb, dalle collaborazioni precedenti dal vivo o in studio: da King Creosote a Jools Holland (amico e mentore, che la vuole come vocalist per la sua band) fino a Robyn Hitchcock, quello che la consegna nelle mani del geniale maverick di Tucson.

Le canzoni sono 15 affreschi confidenziali, quasi tutte suonate live in studio, splendidamente vulnerabili e rafforzate solo dalla purezza di un suono calibrato fra l’anima ruvida di Gelb e quella cristallina di Tunstall, che mette sul piatto anche una voce mai così curata. Ciascuna concorre al premio di miglior brano dell’album. A trainarle, un singolo carezzevole e al primo ascolto perfino ingannevole come Feel It All (John Parish è alla batteria), sorta di spartiacque delle due anime dell’album. Nata come metabolizzazione della perdita del padre, nel corso degli eventi diventa la medicina per affrontare l’improvvisa separazione sentimentale. Così fresca e suadente, per melodia e sonorità, che rischi di sentirla come sottofondo al centro commerciale (mi è capitato esattamente oggi). Invisible Empire aveva in precedenza aperto l’album scardinando subito le nostre mappe mentali sulla cantautrice di Edinburgo, ma dobbiamo attendere il blues claustrofobico di How You Kill Me per lasciar scorrere la mente in questo nuovo universo. Poi ci pensano la meraviglia acustica di Carried; i chiaroscuri di Old Man Song; il tempo che sembra fermarsi di fronte al pianoforte dolce di Yellow Flower e a quello dolente di Crescent Moon, brano che si schiude in arrangiamenti inaspettati. Grande forza viene data anche dalla firma vocale di Howe nella felpata Chimes, così come dall’intonazione accorata in No Better Shoulder, preghiera quasi muta che trasforma una sofferenza personale ancora viva in unguento lenitivo per chi si riconosce nel medesimo dolore.
Sono solo alcune delle stazioni di un album taumaturgico che chiama per nome tutti gli stati d’animo sulla tavolozza della malinconia. Non tanto «il piacere di essere tristi», quanto il luogo dove saper sostare, scoprendo qualcosa di te che ancora non conoscevi. Grazie, Kate.

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