La grande Dea della Musica veglia sui propri adepti, si prende cura di loro e ricompensa i più meritevoli elargendo sublimi visioni e preziosi doni sonori. Il suo culto ha origini molto antiche, si racconta che le prime vibrazioni risalgano alla creazione delle sfere celesti. Col passare dei millenni ha conosciuto momenti di grande splendore e terribili persecuzioni, si è diffuso grazie a profeti illuminati, è stato messo al bando da sovrani bigotti e depredato da falsi messia. Nonostante tutto è sopravvissuto, grazie anche al fitto alone di mistero che da sempre lo avvolge. Nessuno infatti ha mai visto il volto della Musa, ma chi ha avuto il privilegio di entrare in contatto con essa anche solo una volta nella vita non dimenticherà mai la sua voce. Lei è la guida, l’unica in grado di indicare il cammino verso la verità. Oggi, i suoi seguaci formano una comunità piuttosto ristretta: sono sparsi in ogni angolo della Terra, ma perfettamente sintonizzati tra loro come antenne predisposte per captare la medesima frequenza. Non amano sbandierare la propria fede ai quattro venti, né vantarsi delle loro opere, il che rende difficile per i non adepti riuscire a saperne di più su un culto così affascinante.
Noi di JAM, però, siamo riusciti a entrare in contatto con uno di loro: si tratta di un personaggio particolarmente interessante, che ha dato vita a una piccola Confraternita psichedelica per diffondere vibrazioni positive in questi tempi così oscuri. Non è esattamente il tipo che passa inosservato, ha l’aspetto di un profeta hippie e, come ammette lui stesso, «basta guardare le mie scarpe, o i miei occhi, per capire che sono un credente». Lui e i suoi compagni amano radunarsi nelle notti di luna piena e rendere omaggio alla Dea creando dei selvaggi flussi musicali che permettono loro di esplorare gli infiniti spazi del cosmo. Un’abitudine che sta richiamando l’attenzione e l’interesse di un numero sempre crescente di persone desiderose di entrare in contatto con la parte più profonda di sé. A questo scopo, fratello Chris ha pensato di realizzare una sorta di vangelo apocrifo intitolato Big Moon Ritual in cui ha raccolto sette parabole psichedeliche. Quando lo abbiamo raggiunto (telefonicamente) a Toledo, Ohio, il giorno prima di un concerto propiziatorio al Frankie’s Inner City, si è dimostrato disponibile, loquace, dotato di un selvaggio senso dell’umorismo. E ha accettato di farci da maestro di cerimonie in questo viaggio alla scoperta della Confraternita e delle sue parabole, anche se ci ha tenuto a mettere in chiaro che «le mie canzoni sono dogma free, non contengono verità assolute. Tutti i personaggi che le popolano, con i loro errori, i loro amori e i loro cuori infranti sono aperti a ogni possibile interpretazione».
In molti affermano di aver incontrato Chris e i suoi “fratelli”, giurano di averci parlato a lungo e di aver preso parte a uno dei loro riti; ma l’unica cosa che ricordano distintamente è di essersi svegliati il mattino dopo con una strana sensazione di benessere. Per fortuna noi abbiamo l’abitudine di tenere un piccolo registratore vocale nella tasca della giacca perché, in effetti, non appena abbiamo varcato la soglia della Confraternita l’aria ha iniziato ad essere più rarefatta e ci siamo sentiti pervadere da una strana, irresistibile euforia. Sentite cosa ci ha raccontato fratello Chris…
Il progetto Chris Robinson Brotherhood è iniziato come una specie di esperimento. Quando si è trasformato in una vera e propria band?
«Credo che la cosa si sia evoluta nel corso del primo tour californiano. Inizialmente abbiamo fatto circa 46 date solo nello Stato della California. Dopo un paio di settimane abbiamo iniziato a capire di aver qualcosa da dire musicalmente… suoniamo tre ore ogni sera e si crea sempre un’ottima connessione con il pubblico. Inoltre ci siamo imbarcati in questa avventura da soli… niente entourage, niente roadie, niente di niente. Solo noi cinque, i nostri strumenti e un amico tour manager stipati in un van a macinare centinaia e centinaia di chilometri. Abbiamo scelto di farlo alla vecchia maniera, un passo alla volta, e questo ci fornisce una migliore prospettiva sulla nostra musica… ci aiuta a capirne l’essenza, il significato».
Sentivi il bisogno di prenderti una pausa dal grande circo del rock’n’roll?
«In realtà non la considero una pausa, ma solo un modo diverso di fare musica. In Europa il music business funziona diversamente rispetto agli Stati Uniti. Qui da noi le band, una volta che si sono create un seguito, possono suonare tutto l’anno, tutti gli anni. I concerti sono più lunghi e la gente ama andarci indipendentemente dal fatto che la tua musica sia trasmessa alla radio o in tv. Ovviamente mi ritengo fortunato ad essere il frontman di un gruppo di successo, però ti assicuro che fin dal primo concerto della Brotherhood non si è mai vista la scritta Black Crowes su una maglietta né su qualunque altra cosa. A molti fan dei Crowes non piace nemmeno questa musica, quindi non vengono a sentirci perché sanno che non farò i loro pezzi preferiti. La Confraternita è un progetto completamente diverso, abbiamo avuto la fortuna di prenderci il tempo necessario per farlo evolvere in modo naturale, senza pressioni. Sai, in questo momento le priorità dell’industria musicale americana sono American Idol e tutti quei reality show che danno in tv… questa roba può andar bene per chi se ne frega di tutto. Il mondo è pieno di dolore e di problemi, ma anche di gioia… ognuno deve trovare la musica giusta per sé, piuttosto che dipendere dai saggi consigli dei media, tipo: “Ehi, guardate, questa gente si è sbiancata i denti!”».
In un’intervista a Rolling Stone hai dichiarato che «questo disco non è per tutti». Secondo te che tipo di persona amerà Big Moon Ritual?
«Sicuramente chi non è rimasto ancorato al classico formato della canzone pop da quattro minuti. Non che noi lo disprezziamo, costituisce ancora la base del rock’n’roll. Nella nostra musica però non c’è solo questo… c’è sicuramente una radice rock, ma c’è anche una miscela di soul, country, roots, funk, psichedelia, c’è perfino un pizzico d’avanguardia negli ampi spazi che concediamo all’improvvisazione. Direi che potrebbe piacere alla gente che ama la musica esoterica… Ovviamente l’insegnamento dei Grateful Dead è una parte importante del nostro linguaggio: loro sono stati influenzati dal jazz, dal folk, dalle jug band, dal blues, dal primo rock’n’roll e così via. Una delle cose che lega i membri di questo gruppo è la passione per la musica degli anni ’60 e ’70… Personalmente non presto molta attenzione a ciò che passano le radio moderne; non mi interessano l’heavy metal e l’hard rock, e non ascolto la musica creata ad hoc per essere venduta. Mi interessano le vibrazioni cosmiche… [ride]. Il fine è esprimere noi stessi e dare al pubblico ciò che cerca: la gente che viene a sentirci sa che può lasciarsi andare, ridere, piangere, ballare ininterrottamente per tre ore… può fare qualunque cosa. Ecco cosa intendevo quando ho detto che non è un disco per tutti: chi non ama questo tipo di vibrazioni può ascoltare i Nickelback, i Coldplay o altre band del genere. È come un viaggio, si tratta semplicemente di scegliere la giusta destinazione… se abiti in Italia e decidi di fare le vacanze nel Borneo significa che ci tieni a visitare quella terra, altrimenti opteresti per qualcosa di più comodo tipo un weekend in Sardegna».
È stato difficile catturare su disco dei frammenti di un’avventura musicale concepita per andare al di là degli schemi e dei limiti spazio-temporali dettati dall’industria discografica?
«Abbiamo fatto almeno diciotto concerti prima di registrare qualcosa. Questo perché, almeno all’inizio, eravamo tutti d’accordo che non avremmo fatto dischi, non avremmo avuto bisogno di un’etichetta, niente promozione, niente foto, niente interviste… [ride]. Poi è entrato in gioco Thom Monahan, che tutti noi conosciamo da tempo. Gli avevamo mandato dei demo ed era venuto a qualche data per vederci in azione. Il primo giorno in studio, non ricordo da quale canzone siamo partiti, ma abbiamo iniziato a domandarci se fosse il caso di modificarla: “Forse dovremmo tagliare questa parte, oppure suonare quest’altra in modo differente…”. “Fermi tutti!”, ha gridato Thom. “Non c’è niente da cambiare. Suonate come avete fatto finora, seguite l’istinto. Al resto ci penso io”. Ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito che aveva ragione: ognuno di noi ascolta un po’ di tutto, dai dischi registrati da John Abercrombie per la Ecm Records ai Byrds, Thelonious Monk, Pink Floyd, Grateful Dead… le nostre canzoni dovevano raccontare chi siamo e cosa ci piace. Se ci pensi, qualunque fan dei Pink Floyd è abituato ad ascoltare pezzi di circa 10 o 12 minuti, quindi dov’è il problema? [scoppia a ridere]».
In settembre Big Moon Ritual sarà seguito da The Magic Door. Puoi darci qualche anticipazione?
«A un certo punto ci siamo chiesti come pubblicare il nuovo materiale. Abbiamo anche pensato di fare un doppio album, ma poi ci è venuta un’idea migliore: invece di fare come ai vecchi tempi, quando si spendeva un milione di dollari per un disco, abbiamo fissato un budget di gran lunga inferiore e ci siamo concessi il lusso di due uscite. Una cosa fantastica, perché ci ha permesso di diffondere la nostra musica restando fedeli a noi stessi. Abbiamo finito di registrare le ultime parti vocali e gli ultimi abbellimenti psichedelici di The Magic Door pochi mesi dopo aver completato Big Moon Ritual. A me sembra che il secondo album, pur essendo affine al primo visto che il materiale proviene dalle stesse session, emani una differente vibrazione. È un po’ come assistere a un nostro concerto: primo e secondo set… sono due viaggi diversi».
A proposito di viaggi… della vita on the road viene spesso data un’immagine romantica, mutuata dalla letteratura e dalle innumerevoli leggende che popolano la storia del rock. Come ti rapporti a questo aspetto del tuo mestiere?
«Se non fai questa vita non puoi capirla fino in fondo. Non basta indossare un paio di scarpe da calcio per essere Roberto Baggio… c’è una bella differenza tra una partitella tra amici e gli Europei. Lo stesso vale per la vita in tour. Non è tutta una grande avventura come nei romanzi di Jack Kerouac, Jack London o Knut Hamsun. Non sfugge alla legge di causa ed effetto, ha i suoi lati positivi e negativi, è fatta di luci e ombre, bene e male… sta a te trovare il giusto equilibrio. Mi vengono in mente i versi di Tulsa Yesterday: “Mi sono lasciato alle spalle le tentazioni del benessere / Lascio che sia la musica a guidarmi”. Questo è l’unico modo per me: felicità, tristezza, solitudine, donne, droghe, problemi con la band… può succedere qualunque cosa, ma finché continuerò a scrivere, ad ascoltare, a sentire, la musica mi indicherà la strada giusta da percorrere. La Dea della Musica può essere molto generosa, ma in cambio richiede devozione e dedizione. Ho imparato molto presto che è bene non allontanarsi troppo dalla Musa… lei è la guida, l’unica in grado di illuminare il mio cammino e farmi capire chi sono, cosa provo, dove sto andando. Ecco perché ho iniziato a scrivere canzoni quando ero teenager: sentivo che il songwriting avrebbe potuto innescare una reazione, portarmi via dai sobborghi di Atlanta e farmi scoprire il mondo, l’amore, la follia, un sacco di gente stramba e interessante, qualunque cosa. Dopotutto era già successo negli anni ’50, ’60 e così via. È successo a me a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, e che continua a succedere tutt’oggi. Il problema è che spesso la gente si accontenta dell’apparenza, ma di questi tempi è più che mai vitale riscoprire il valore della profondità. È importante prendersi del tempo per scavare a fondo nella propria vita, per capire quale musica ci piace, quale vino, quali libri, film, quali persone amiamo veramente. La musica è un linguaggio molto antico e potente, permette di entrare in contatto con il proprio mondo interno. Sai, alcune persone prendono l’Lsd e pensano di essere nello spazio, ma in realtà stanno viaggiando dentro se stesse… in fin dei conti è la stessa cosa. Un musicista è avvolto da ritmi, melodie, vibrazioni armoniche, e se riesce a sintonizzarsi con esse può imparare ad operare in altre dimensioni».
Tempo fa il tuo amico Jonathan Wilson mi ha parlato di queste lunghe, ipnotiche jam session che organizzavate nella sua casa di Laurel Canyon. Hanno avuto qualche influenza su questo nuovo progetto musicale?
«A dire il vero facevamo delle jam session a Laurel Canyon già vent’anni fa, a casa mia. Da Jonathan, però, per qualche strana ragione potevamo suonare ad alto volume fino alle 4 del mattino senza essere arrestati. Forse ai vicini piaceva… Si suonava di tutto, ballate folk, pezzi di Bob Dylan, Hawkwind, Ash Ra Tempel… Era proprio questa sensazione di totale libertà a rendere le jam così speciali. Una volta alla settimana avevi la possibilità di prendere parte a delle entusiasmanti conversazioni musicali in cui ogni musicista aggiungeva qualcosa di personale, rendendole uniche. Poi però si è sparsa la voce e la cosa ci è sfuggita di mano: ha cominciato ad arrivare un sacco di gente, un’infinità di ragazze…».
Che musica si ascolta sul tour bus della Confraternita?
«Ultimamente sto ascoltando parecchia roba pubblicata dall’etichetta indie inglese Ghost Box, cose tipo The Focus Group e Roj, oppure le creazioni del BBC Radiophonic Workshop. Mi piace una nuova band inglese chiamata Junipers, e poi Howlin’ Rain, Clifford Brown, T-Bone Walker, Buck Owens, Can, Yes… diciamo che la programmazione è piuttosto varia».
Un’ultima domanda. Facciamo finta che ci sia una persona che non sa niente di te, dei Black Crowes e che non ha mai ha ascoltato la musica della Confraternita. Che consigli daresti per fargli apprezzare appieno Big Moon Ritual?
«Dunque, se fossi italiano radunerei i miei migliori amici, troverei un buon impianto stereo, rimedierei qualche bottiglia di buon vino e dell’ottimo hashish marocchino… Poi troverei il modo di accamparmi sulle rovine di un antico tempio romano, mi concederei qualche ora per sistemare ogni cosa e creare la giusta atmosfera, infine darei inizio alla cerimonia. A proposito amico… se conosci qualcuno che ha accesso a un tempio romano e volete ascoltare la Confraternita, facci uno squillo!».