31/10/2013

La grande meraviglia indie

Una casa nei boschi a nord di New York. Un disco sulla morte, la responsabilità e l’amore. L’ossessione per Dylan. La visione di una generazione sterile. E la musica, che tutto riscatta. Dave Longstreth racconta il nuovo capolavoro dei Dirty Projectors

Chi ha allevato questa generazione vacua? Esistono terre inesplorate piantonate da sentinelle dell’immaginazione? Lo schiavo può ribellarsi al padrone se la sua pistola non ha il grilletto? C’è terra da ballare oltre queste pianure al cianuro? La bellezza è irresponsabile? Swing Lo Magellan è un disco di domande irrisolte e di immagini enigmatiche. È un album di canzoni sulla vita, la morte e l’amore. Un capolavoro ideato da un uomo che si isola per un anno in una casa abbandonata in mezzo alla natura e lì dialoga con l’arte scrivendo, registrando, rifinendo la sua opera con la dedizione di un artigiano e la devozione di un uomo ossessionato. È stata forse questa solitudine a dettare i temi cupi di certe canzoni, perfettamente bilanciati da una serie di ballate amorose di una bellezza cristallina, commoventi e prive di sentimentalismi svenevoli. Swing Lo Magellan è anche il disco che potrebbe consegnare i Dirty Projectors a un pubblico più ampio: è l’opera più immediata ed emozionante del quintetto americano. «Questa volta» mi dice il capobanda Dave Longstreth al telefono da un tetto di Brooklyn «non mi sono imposto una direzione, un concetto. Ho lasciato che le canzoni si rivelassero, diventando se stesse».

Sono dieci anni che il cantante, chitarrista e compositore diplomato a Yale affina la sua musica con una versatilità che ha del geniale. Mischiando estetica lo-fi, linee di chitarra africaneggianti, arrangiamenti orchestrali, abbellimenti digitali e soprattutto cori, armonie e back up vocali strabilianti ha letteralmente inventato un nuovo linguaggio sonoro che lo pone come il più originale fra i musicisti underground in circolazione. Il suo rifiuto di fare affidamento sull’effettistica rock, i canti funambolici delle coriste Amber Coffman e Haley Dekle (la terza vocalist Anger Deradoorian si è presa una pausa dall’attività col gruppo), l’ampio spettro di influenze che va dall’hardcore statunitense ai suoni dell’Africa Occidentale passando per la musica contemporanea, il gusto per la melodia che sconfina nel pop, l’atmosfera folk a bassa fedeltà, lo sforzo per trasformare alcuni album in opere concettuali: tutti questi elementi – rielaborati secondo passioni e idiosincrasie personali – hanno fatto dei Dirty Projectors la grande meraviglia indie, uno dei pochi gruppi in grado di coniare un linguaggio sonoro personale in un’epoca in cui tutto è stato fatto. Come ha detto David Byrne, sono «irresistibilmente strani eppure stranamente famigliari».

Col passare degli anni, i Projectors sono diventati un vero gruppo e non più la one man band di Longstreth, uno studente che fa collage sonori seduto davanti a un computer oppure incide dischi suonando tutti gli strumenti. Gli album sono andati migliorando come scrittura, performance, produzione, in un crescendo che negli ultimi cinque anni ha generato una libera elaborazone dell’album dei Black Flag Damaged a base di poliritmi e cori spiazzanti (Rise Above), un capolavoro di pop sperimentale (Bitte Orca), un ciclo di pezzi quasi solo vocali basati sull’avvistamento di alcune balene al largo delle coste californiane (Mount Wittenberg Orca, inciso con Björk). E oggi una raccolta di canzoni che suona a tratti come la confessione di un uomo che fa i conti coi propri sentimenti, a tratti come la mappa emotiva di una generazione in cerca di risposte. Anch’io ho molte domande. Chiamo Dave su quel tetto di Brooklyn. Mi aspetto di sentire la voce di un manager, di un pr, di un discografico. Risponde direttamente lui. «Sono l’addetto alle pubbliche relazioni di Mr. Longstreth e Mr. Longstreth in persona», si presenta ridacchiando. È considerato un genio, ma il suo disco più celebre non ha venduto nemmeno 90 mila copie in America. La parola che ripete più spesso nel corso dell’intervista è «ossessionato».

Swing Lo Magellan è brillante quanto i precedenti album. Con una differenza: questa volta ti sei concentrato sul songwriting…

«È frutto della mia ossessione per il linguaggio della canzone. Ho voluto esplorare i limiti di una canzone di tre minuti. In passato, prima di gettarmi a capofitto nel lavoro, aspettavo che si materializzasse l’idea di un album. E l’idea poteva essere riscrivere senza nemmeno riascoltarlo un disco dei Black Flag, oppure imbastire un ciclo di canzoni sull’avvistamento delle balene da parte di Amber. Questa volta l’idea non c’era. Però c’erano le canzoni. Tante. Ognuna con la possibilità di andare a fondo a una suggestione».

Concentrandosi sulla forma-canzone, i Dirty Projectors hanno rinunciato alla loro inclinazione alla sperimentazione? Sono stati forse depotenziati?

«Ogni disco dei Dirty Projectors è un mondo a parte. Pone certe domande. Risponde a una sua logica. Vale anche per Swing Lo Magellan. Questa band non è definita dalla sperimentazione. È definita dal cambiamento. Ma una differenza c’è. In passato ero ossessionato dai colori: la mia musica doveva esserne carica. Parlo del colore degli arrangiamenti orchestrali. Del colore che risulta dalla sovrapposizione di diverse tessiture sonore. Ora mi sono guardato attorno, ho osservato il mondo, ho fatto caso alle immagini e alla musica che consumiamo, e mi sono accorto che siamo bombardati dai colori. E allora ho abbandonato i colori per assemblare una collezione di scheletri».

Scheletri?

«Canzoni dalla struttura scheletrica. Ma anche canzoni che scaturiscono dall’ossessione per la morte. Swing Lo Magellan è il día de los muertos: queste canzoni richiamano i defunti fuori dalle tombe».

Effettivamente l’atmosfera è cupa, specie nella prima metà del disco. È per via dei tempi in cui viviamo? O perché, come hai detto una volta, ogni album dei Dirty Projectors rispecchia i tuoi sentimenti?

«Entrambe le cose. Il nostro ultimo disco Bitte Orca è uscito nel 2009 e a quel tempo le vibrazioni erano completamente diverse. Era un album di superfici abbaglianti, quello. Nel frattempo il mondo è cambiato e il disco nuovo è decisamente più dark. Credo anche abbia più sostanza e profondità. È un disco sulla morte, sulla responsabilità e sull’amore».

Inizia con le scene apocalittiche di Offspring Are Blank e finisce con l’immagine poetica dell’uccello che canta in Irresponsible Tune. È un percorso dalla negatività alla positività?

«Mmm… non ne sono sicuro. Vedo il disco come una collezione di domande».

A volte le domande non sono facili da interpretare. Certe immagini ermetiche mi hanno ricordato il linguaggio di Bob Dylan. Chi sono il joker e il ladro di All Along The Watchtower? Non lo capisci, ma l’immagine ti cattura. Ti cresce dentro. Lo stesso vale per le visioni di Offspring Are Blank. Chi sono l’aquila e il serpente? E la loro progenie?

«Penso allo spettro culturale della musica pop, dai Coldplay a Rihanna, e mi accorgo che tutti quanti scrivono testi d’atmosfera. Strofe e ritornelli sono come avvolti in una nuvola. Coperti da un velo. Testi vaporizzati. Parole che suggeriscono immagini senza dire niente di concreto. Una versione cheap di John Ashbery applicata alla musica popolare. Mi sono smarcato da questo trend imponendomi di scrivere testi personali frutto di un qualche pensiero specifico. Tuttavia mi sono accorto di sentirmi più a mio agio nel porre domande e non nell’affermare presunte verità».

E la progenie dell’aquila e del serpente?

«Offspring Are Blank è una canzone generazionale. Come The Kids Are Alright degli Who, ma per tempi radicalmente diversi. I ragazzi non sono più a posto, la progenie è vacua. Questa generazione ha accesso a più informazioni di quante possa elaborare. Compartecipa di sistemi differenti. È figlia dell’ibridazione. E a volte l’ibridazione porta a risultati straordinari, a volte è sterile».

A proposito di generazioni, hai mai sentito il peso dei musicisti che sono venuti prima di te? Hai mai percepito la difficoltà nel creare qualcosa di radicalmente nuovo in campo rock negli anni Duemila, dopo tutto quel che è stato fatto, scritto, detto, suonato?

«Già nel 1923 sembrava che tutto fosse stato fatto. E poi nel 1971. E ancora nel 1985. È sempre stato così. Eppure ogni volta si riesce a trovare un nuovo territorio da esplorare».

Da esplorare come un Magellano fra le schiume…

«Quella canzone, Swing Lo Magellan, è ispirata dall’uso dei GPS. Parla della permanenza della natura selvaggia in un mondo che è stato mappato metro per metro».

Anche Gun Has No Trigger mi pare una canzone a suo modo generazionale. Parla delle possibilità e i modi del dissenso nella nostra società. Quali sono?

«Non lo so. Essendo ossessionato da Dylan, mi sono domandato: è ancora possibile scrivere una canzone di protesta oggigiorno? Intendo dire, è possibile scriverla in una società che è talmente interconnessa da rendere letteralmente impossibile comportarsi in modo strettamente conforme ai propri valori? La domanda è: come puoi dare voce al dissenso senza che ciò si traduca in una mera posa estetica, una posa che in un modo o nell’altro cozza con i tuoi comportamenti? Non ne ho la più pallida idea, ma se non altro ho posto la domanda».

Impregnable Question è al contempo semplice e meravigliosa. Mi vengono in mente i Beatles, la loro capacità di creare bellezza con semplicità…

«È il mio credo: meno cose accadono negli amplificatori, meno strumenti ci sono, migliore sarà il risultato. A volte è proprio così: meno cose esprimi e più forte risuonerà il tuo discorso».

La coscienza ambientalista che aveva generato Mount Wittenberg Orca torna in Just For You.

«È su un immaginario disastro su una piattaforma petrolifera al Circolo Polare Artico. È stata registrata il più velocemente possibile dopo averla scritta. Il suono che ascolti è quello della chitarra attaccata direttamente al computer. L’abbiamo riascoltata e ci sembrava esprimesse bene lo spirito di quella performance. Amo quel sound».

A proposito di suono, pensi che l’album sarebbe stato diverso se l’avessi inciso in un vero studio di registrazione e non in una casa abbandonata nei boschi dello Stato di New York?

«Abbiamo registrato del materiale anche in vari studi attorno a New York, ma per qualche ragione quelle incisioni non catturavano lo spirito del momento, non quanto quelle effettuate all’interno della casa nella Delaware County. C’era più verità, c’era più realtà nelle musiche incise in quella casa».

Uno degli aspetti più sorprendenti del gruppo sono le parti vocali. Circola questa storia secondo cui durante le session di Bitte Orca avresti “torturato” Amber, Angel e Haley anche 12 ore al giorno pur di ottenere le parti vocali esattamente come le avevi immaginate…

«[Ride di gusto] Non sono sicuro sia andata così… Ma sai, si tratta di musica complessa. E le armonie vocali a tre parti o l’hocketing non sono tecniche comuni nel contesto della musica rock. Insomma, per essere una buona band dal vivo, devi provare, provare, provare. È il vecchio modo di fare le cose: lavorare duro».

Istruisci sempre le vocalist nota per nota? Le usi come strumenti?

«Certamente. Non stiamo parlando di una cantante che esprime se stessa intonando questa o quella nota. Stiamo parlando di sequenze di accordi. Abbiamo quattro voci che cantano contemporaneamente e perché funzioni ogni voce deve intonare una determinata nota. È musica arrangiata».

Il fatto di non avere Angel nel gruppo ha cambiato le dinamiche?

«Angel canta meravigliosamente bene ed è un membro carismatico del gruppo quando suoniamo dal vivo, ma la scrittura dell’album è stata una faccenda decisamente solitaria. E poi, quando ho cominciato a discutere con Angel della sua presenza in questa avventura, le nuove canzoni sostanzialmente non esistevano, quindi la sua assenza non pesa più di tanto…».

E dal vivo cosa succede alle armonie se hai due voci femminili al posto di tre?

«Stiamo lavorando con una nuova ragazza. È davvero brava, incredibile».

Quando hai compreso che le voci sarebbero state una parte importante, se non fondamentale, del gruppo?

«Non saprei… So che la voce è lo strumento più primitivo che esista. Ecco perché lo amo: è uno strumento primitivo e al contempo futuristico. Non passa mai di moda. Tutti ne sono dotati. E opera in diretta connessione con l’inconscio».

Una delle caratteristiche delle vostre parti vocali è l’ampiezza degli intervalli melodici in cui si muovono…

«L’ampiezza degli intervalli è una metafora della ricerca, della spinta a fare cose difficili. Cose pericolose».

Ricerca: non è quello che fa l’uomo di Dance For You?

«Certo. Ed è quello che fa il personaggio di The Socialites. Parlo del tipo di ricerca che non si esaurisce mai. Ricerca perenne».

Ho dato un’occhiata allo spartito del bridge di Dance For You che hai pubblicato sul sito ufficiale: ha l’aspetto di una massa sonora che si muove in modo liquido fino a culminare in un acuto.

«Ero convinto che nessuno al mondo l’avrebbe notato, sono contento che tu l’abbia fatto. È un frammento musicale scritto nello stile che Ligeti ha usato in composizioni come Atmosphères del 1961. È musica incredibile, quella…».

Quando hai imparato a scrivere per strumenti classici? È per via degli studi compiuti a Yale?

«Penso di sì. In realtà la prima musica che mi ha appassionato è stata il punk. Nel bene o nel male sono rimasto fedele a molti suoi valori. Per anni ho guardato con sospetto ogni forma di abilità tecnica, che disprezzavo a favore di un’espressività non mediata. Per me la musica era anzitutto sentimento. Ma la mia curiosità, ai tempi della scuola, mi ha portato a studiare i meccanismi usati dai grandi, da Mahler a Stravinsky».

Non sei il solo. Negli ultimi anni sempre più musicisti rock scrivono con naturalezza musica classico-contemporanea: tu, Jonny Greenwood, Jherek Bischoff, Sufjan Stevens…

«È un fenomeno interessante. Forse, paradossalmente, è un risultato dell’uso di Internet che mette a disposizione un archivio fenomenale da esplorare. I confini fra musica colta e popolare, fra alto e basso non esistono».

Al di là dei frammenti di classica presenti nei Dirty Projectors, hai scritto tre composizioni per il collettivo Bang On A Can All-Stars e hai rifatto The Getty Address con l’ensemble da camera Alarm Will Sound…

«I Bang On A Can mi hanno commissionato tre pezzi finiti sull’album Big Beautiful Dark And Scary. Mi sembrava una sfida interessante da raccogliere: loro sono un gruppo inusuale, devi lavorare su tessiture non comuni visto che in formazione ci sono chitarra elettrica, contrabbasso, clarinetto, pianoforte, percussioni… Voglio dire, non è un quartetto d’archi che ha una sua logica interna».

E The Getty Address? Hai mai pensato di portarlo in tour con gli arrangiamenti orchestrali?

«Rifare l’album con gli Alarm Will Sound è stato incredibile, specie pensando che quel disco era un collage digitale. Pensavo che sarebbe stato impossibile portarlo su un palco, e invece il direttore d’orchestra Alan Pierson ha fatto un gran lavoro. In un certo senso siamo stati in tour, avendolo suonato a New York, Los Angeles e Londra. Ma è complicato e dannatamente costoso portare in giro venticinque musicisti di un esemble da camera, per di più impegnati in un’opera psichedelica… Sarebbe favoloso farlo in futuro, magari con un nuovo progetto. È un’idea che sta cominciando a ossessionarmi».

Stai lavorando ad altre partiture extra rock?

«Quando ho un momento libero, butto sempre giù qualcosa. Vorrei avere più tempo per farlo».

Quanto è stato importante rifare I Dreamed I Saw St. Augustine e As I Went Out One Morning di Bob Dylan?

«Adoro John Wesley Harding. È fantastico: al picco dell’estate del 1967, nel punto più alto della gloriosa, ottimista e caleidoscopica estate dell’amore, Dylan scriveva canzoni elementari e poco dense. Amo il suo spirito di contraddizione».

Non è quello che hai fatto tu questa volta, chiudendoti nella tua Big Pink?

«È vero… ma… non amo sottolineare le similitudini. Però confesso che sono ossessionato da quell’epoca. È stato uno dei periodi più fertili di Dylan».

Swing Lo Magellan si chiude in modo delicato e poetico con Irresponsible Tune. Adoro le voci maschili in sottofondo. Hanno un che di antico. Potrebbero essere cantate da un barbershop quartet, ma possiedono una qualità quasi sacrale…

«È il coro delle cose morte».

Il coro delle cose morte?

«La maggior parte delle armonie vocali nel disco sono femminili e hanno una certa vivacità. Ma nell’ultima canzone il tema vocale è rallentato e abbassato di tono…».

Fino a farlo sembrare un lamento dall’oltretomba… Come dice il testo di Irresponsible Tune, ti senti un fuorilegge in quanto musicista?

«Sai, fare musica è strano. A volte ti senti escluso dalla vita normale. È come se la osservassi dal di fuori. L’unico modo per scrivere della società in cui vivi o delle persone che ti circondano è farlo da una certa distanza. Ma così facendo è come se ti mettessi dall’altra parte di un vetro».

Parafrasando la canzone, cercare di sintetizzare un mondo in una canzone o tentare di trasformare in musica la bellezza di questo mondo è da irresponsabili?

«È la domanda. Questa è LA domanda».

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