01/04/2011

LA LEGGENDA DEL MONFERRATO

Il nome lo si associa a una delle zone vinicole più famose del mondo: qui Barbera, Dolcetto, Grignolino e Moscato raggiungono l’eccellenza. Eppure, nonostante la riconosciuta importanza enologica e gastronomica (oltre che storico-culturale), non tutti sanno bene dove si trovi questa suggestiva regione piemontese. E, soprattutto, sono pochi quelli che conoscono l’esatta origine del nome.
In realtà, ci sono diverse teorie al proposito, nessuna delle quali certa.
Qualcuno (Aldo di Ricaldone) sostiene infatti che sia la somma di “mons” e “farro”, altri che derivi da “mons ferax” (monte fertile e ricco), altri ancora, pensando ai ferri lasciati dai Romani dopo la conquista di quelle terre, ritengono sensato pensare che l’etimologia sia “mons ferratus”.
L’ipotesi più suggestiva è invece da attribuirsi a un certo Aleramo, nato nel 900 da una nobile coppia vichinga. Il giovane, cresciuto forte e coraggioso a Sezzadio, s’innamora di Alasia, la figlia dell’Imperatore Ottone I, «la fanciulla più bella del mondo». Fuggito con lei, contro la volontà del padre, Aleramo viene perdonato e nominato marchese e signore di tutte le terre che avesse potuto circoscrivere a cavallo in tre giorni e tre notti. È l’anno 967 ed Aleramo, secondo la leggenda popolare, ferra il suo cavallo con un mattone (mùn in dialetto) e lo stesso fa durante la frenetica cavalcata, quando perde un ferro, in modo da risparmiare tempo e marchiare più terra possibile. Per questa ragione, il territorio tra il fiume Po e le colline delle Langhe prende il nome di Monferrato, mùn frà (ferrato con un mattone).
La saga di Aleramo (suffragata da una teoria simile di Jacopo d’Acqui) ha catturato la fantasia di Paolo Archetti Maestri e dei suoi Yo Yo Mundi, un ensemble attivo dal 1988 capace di spaziare dal combat folk alla canzone d’autore non disdegnando contaminazioni con altre forme di espressione artistica come cinema, teatro e letteratura.
Originari di Acqui Terme, la capitale dell’Alto Monferrato, (guarda caso proprio come Jacopo), gli Yo Yo hanno dedicato quattro anni di studio, ricerca, raccolta di materiale e composizione per la realizzazione di Munfrâ, un concept affascinante che si ispira proprio alla leggenda di Aleramo, alla storia del Monferrato e al suo immaginario, «pieno di storie e tipi di ogni genere, piemontese, lombardo e ligure, cosmopolita e ricco di grano e rugiada, opulento come una bella polenta, con strade piene di miraggi e incantesimi», come suggerisce in modo arguto Paolo Conte nelle deliziose note di copertina del disco. Già, perché (oltre a vini, cibo, arte e cultura) anche la musica è di casa in Monferrato. E, proprio come per le altre forme espressive, non è mai banale: pensate ai fratelli Giorgio e Paolo Conte ma anche a Luigi Tenco per arrivare a Giorgio Faletti e agli Yo Yo Mundi (appunto) passando anche per tante avventure folk, dalla Ciapa Rusa in poi. Una musica “selvatica” ma piena di calore e colore che Conte descrive come una «tristezza colorata che, nonostante l’uso frequente del minore, non crea abbandono ma danza continua di luci e ombre». Se ascoltate La ballata del sogno perduto capirete esattamente quello che sostiene Paolo Conte ma anche lo spirito di Munfrâ. Paolo Archetti Maestri  (mente compositiva e voce degli Yo Yo, con la sua inconfondibile “r” arrotatissima) duetta magistralmente insieme a Eugenio Finardi nel pezzo più emblematico del disco che racconta in maniera suggestiva e poetica la storia d’amore tra Aleramo e Alasia e la nascita del marchesato del Monferrato. Altrettanto bella e trascinante è la traccia d’apertura il cui folgorante attacco di vocalizzi è seguito dalla sapiente ghironda di Sergio Berardo (Lou Dalfin) per uno strumentale folk-rock scandito, ad ogni finale di strofa, dal maestoso coro Munfrà.
Da Steve Wickham (Waterboys) a Hevia, dall’arpa di Vincenzo Zitello all’organetto di Filippo Gambetta, per la prima volta nella loro storia gli Yo Yo Mundi vengono affiancati da suoni tradizionali ed artisti folk. Non solo. Il grande Mario Arcari e la Banda Osiris danno il loro contributo ai fiati insieme a Radiodervish (voce e percussioni), Fabio Rinaudo (uillean pipes), Stefano Valla e Andrea Masotti (piffero e cornamusa dell’Appennino), Franco Minelli (oud), un paio di cori maschili e femminili delle colline monferrine. Insomma, come lo definisce Beppe Greppi della Felmay, discografico e co-ispiratore del progetto, Munfrâ è una sorta di concept album a chilometri zero, «sognato a occhi chiusi e a orecchie aperte» aggiunge Paolo Archetti Maestri. Piacciono le ballad ispirate come Il grande libro dell’ombra, i pezzi folk-rock in dialetto come Carvé 1928, gli strumentali etno-new age come Arcanssél. Commuove un pezzo come Na bela corba ed niule (Un bel raccolto di nuvole), dal testo un po’ in dialetto e un po’ in italiano ma sempre gonfio di poesia («Ecco il vento del Monferrato imbastardito da un soffio di mare / Che poco prima di sera avrà ingravidato la luna piena») dedicato all’indimenticabile corregionale Luigi Tenco.
«Tra le tracce di questo album ci sono i segni visibili e invisibili del passaggio delle genti, dell’incontro tra culture», dicono gli Yo Yo Mundi, «ma anche della capacità di accogliere perché, come scrive José Saramago, “noi siamo l’altro dell’altro”. Ci piace immaginare che questa sia una luminosa peculiarità del nostro Monferrato, capace di crescere e trasformarsi, fondendo desideri, esperienze e voglia di futuro. Perché la cultura scaturisce e si colora grazie all’incontro».

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