San Francisco è la città ideale per la musica dal vivo perché il pubblico è curioso, entusiasta, sveglio. E rilassato. Proprio come Joel Selvin: sono queste caratteristiche che lo hanno fatto diventare il giornalista rock più bravo del mondo».
Parola di Ry Cooder.
Joel Selvin (dal 1972 al 2009) è stato il critico musicale del San Francisco Chronicle, erede del leggendario Ralph J. Gleason «con cui non ho mai lavorato», dice, «ma che è stato il mio mentore».
Joel e la città della Baia sono una cosa sola. «Mi considero californiano prima ancora che americano», mi spiega nel corso di una lunga telefonata domenicale. «Condivido tutto di San Francisco: lo spirito avventuroso, il culto della sperimentazione, la tolleranza. È la punta più avanzata della civiltà occidentale». Joel mi ha accolto tante volte nella sua casa di Potrero Hill, nel cui basement trovano posto decine di migliaia di lp, tonnellate di libri di musica, poster originali, memorabilia varie. E, nel box a fianco, una spettacolare Corvette azzurra del 1969. Lì sotto c’è il suo studio dove Selvin, più di una volta, mi ha ospitato spiegandomi la storia musicale della città, raccontandomi mille avventure rock, svelandomi retroscena gustosi. Joel mi ha presentato Grace Slick, Steve Miller, Phil Lesh e tante altre leggende della Summer Of Love. È stato così disponibile da introdurmi al pubblico americano per la presentazione del mio libro Peace & Love a San Francisco. Perché “Selvini” (come lo chiamano gli amici, non per le sue origini italiane ma perché «una i in più nel nome fa chic») è una persona generosa e amabile.
Oggi mi descrive, con orgoglio, la sua ultima fatica editoriale: si chiama California Rock’n’Roll Smart Ass, 420 pagine che raccolgono i migliori articoli di 40 anni di carriera. «Ho cominciato il giorno del Ringraziamento del 1972», racconta, «avevo 20 anni e ho scritto la recensione di un concerto di Commander Cody al Keystone Berkeley. Il Chronicle me lo ha pubblicato e così ho iniziato a scrivere di musica. I primi tempi ero contento di avere un accredito ai concerti o di ricevere le copie promozionali dei dischi. Poi hanno cominciato a pagarmi gli articoli, quindi mi hanno assunto: ma facevo soprattutto cronache di baseball e, ogni tanto, qualche recensione. È stato John Wassermann a credere in me: gli devo la mia carriera. Sono stato il suo assistente per quasi 8 anni. Negli anni 80 è cambiato tutto. Il rock è diventato un business e allora scrivevo solo di musica. Spesso i miei pezzi finivano in prima pagina. Ma con la fine del decennio ho cominciato a perdere interesse nella critica musicale in senso stretto e mi sono concentrato sempre di più sulle storie e sui personaggi». Escono così i suoi primi libri, tra i quali Summer Of Love The Inside Story Of LSD, Rock & Roll, Free Love, And High Times In The Wild West (1994) una spettacolare analisi di uno dei periodi più affascinanti della storia musicale del 900. «Oggi mi considero uno scrittore o, meglio, uno storico del rock, non sono uno che scrive romanzi: parlo di storia e di storie. Non credo di essere una penna sopraffina: sarei felice se qualcuno di me dicesse (come ha fatto la vedova Gleason parlando del marito) che ho scritto cose interessanti».
Tra le prossime uscite che arricchiranno il suo curriculum, una biografia di Sammy Hagar, una del misconosciuto folksinger Bert Berns e una storia del Peppermint Lounge, il tempio newyorchese del twist. Ma in questo Smart Ass, Selvin dà lezioni di giornalismo. «Ci sono i miei pezzi più forti: la serie di articoli sul contestato testamento di Bill Graham (che ha appassionato per mesi l’intera città di San Francisco), la storia di Sly Stone, l’intervista a Dennis Wilson in cui parla di Charles Manson, l’inchiesta sulla misteriosa morte di Kevin Gilbert, boyfriend di Sheryl Crow, gli incontri con Merle Haggard, CSN&Y, Grateful Dead, Beach Boys. Mi limito a raccontare i fatti e cercare di capire la psicologia dei protagonisti, la storia del rock è più stravagante e imprevedibile di qualsiasi fiction».
C’è una cosa di Smart Ass che rende Joel davvero orgoglioso. «È la foto di copertina», mi rivela, sorprendendomi. «Si tratta di un mio ritratto in bianco e nero. Forse però non sai che è tratta dall’ultima session di Jim Marshall. L’ho convinto a venire in uno studio di un amico, in città. Marshall non amava le foto digitali e così abbiamo passato più tempo a caricare le sue macchine che non a scattare. Qualche giorno dopo, il 24 marzo 2010, Jim è stato trovato morto in una camera d’albergo a New York. Se mai dovessi passare alla storia», confessa Selvin, «sarà per il mio lavoro con Jim Marshall: io sono stato un semplice cronista, lui ha scattato foto leggendarie. I suoi scatti di Jimi Hendrix con la chitarra in fiamme a Monterey, di Janis sul divano con la bottiglia di whiskey o di Johnny Cash con il dito medio puntato in camera, sono epocali. Resteranno per sempre nell’immaginario collettivo degli appassionati».
Al contrario di quello che sosteneva mamma Selvin («Gli smart ass, i tipi svegli non piacciono a nessuno»), raramente ho visto nell’ambiente della musica una persona benvoluta come Joel: piace a tutti, ai colleghi (Greil Marcus firma la prefazione del libro), agli operatori, ai musicisti. «Eppure io ho sempre scritto quello che pensavo», dice. Ma da Bonnie Raitt («Joel è uno che la sa davvero lunga») a Bono («Non c’è mai stato un artista che non ha avuto bisogno di un critico come te») la lista dei suoi ammiratori celebri è davvero lunga. Perché, come sottolinea Joan Jett, «Smart Ass è la quintessenza del giornalismo musicale ma anche una formidabile raccolta di moderna cultura pop».
09/12/2010