Alla fine ci siamo adeguati e ormai ci annusiamo come fanno i cani, fiutandoci sulla mappa dei gusti musicali che qualcun altro ha incasellato per noi.
Chi non ha mai provato delusione di fronte a una persona con cui si erano costruite affinità musicali, ad esempio riconoscendosi in un certo tipo di folk o di songwriting, dopo aver scoperto che costui era dedito a un ascolto appassionato anche della musica elettronica?
Ragioniamo ormai per “file under” e anche noi recensori abbiamo responsabilità nell’aver abituato le persone a collocare frettolosamente un artista o un album in un genere preconfezionato o assimilarlo allo stile di qualcun altro, già ben inquadrato. Naturalmente c’è chi ha esagerato e, per ragioni narcisistiche o perché condizionato dal solito esaustivo e iperbolico comunicato stampa, ha battezzato un nuovo genere musicale o si è inerpicato in paragoni azzardati, quando non provocatori. Le sezioni dedicate alle recensioni di riviste o webzine straboccano di nuovi De André, nuovi Battisti o nuovi Nick Drake e a anche a questo siamo assuefatti.
Comodità d’uso descrittivo in carenza di competenze specifiche per valutare la musica da un punto di vistra strettamente “tecnico”, interferenze emotive e personali, tendenza all’uniformità lessicale con conseguente appiattimento sulle definizioni: nell’era della velocità della Rete, del “tutto e subito” di Spotify o della sintesi di Twitter, il bisogno di mediazione da parte di un autorevole recensore sta venendo sempre meno.
Eppure, al di là dei settarismi e degli steccati sempre più inconsistenti, la musica è anche altro: condivisione emotiva, esperienza neuroscientifica, linguaggio espressivo.
La musica assolve a diverse funzioni, molte più di quelle che ci immaginiamo: è veicolo di socializzazione, è unguento lenitivo quando il senso di solitudine si fa più acuto, è specchio rivelatore della nostra anima in continua evoluzione.
La decodifica di un insieme di suoni e melodie è un fatto cerebrale che diventa esperienza personale, generando empatia o rifiuto.
Dovremmo chiederci cosa succede nel nostro cervello quando ascoltiamo un brano di Brahms, di Miles Davis o di Captain Beefheart, piuttosto che dissertare su cosa rappresenti lo spartiacque fra musica commerciale e arte.
Lo sapete, ad esempio, che durante l’ascolto della musica i due emisferi del cervello cooperano fra di loro? Il destro capta la melodia nel suo complesso, mentre il sinistro ha il compito più arduo di analizzarla.
A questo punto mi chiedo perché, anziché continuare ad accumulare barriere attraverso descrizioni che hanno il solo scopo di “far ballare l’architettura”, non cominciamo a insegnare come si ascolta la musica.
Magari smettendo di decidere per tutti quale sarebbe quella degna di essere ascoltata e quale no.