23/03/2007

La realtà di David Bowie

Camminare nel parco alle soglie dell’autunno e ascoltare lo scricchiolio delle foglie sotto i passi. Coglierne, abbagliata, la miscela dei colori come di fronte a un quadro di Balthus o alle dinamiche di un’Ouverture di Wagner. È tempo di poesia, è tempo di emozioni. Perché riscontrare la stessa miscela di colori negli occhi di David Bowie (qualcuno, prima di me, ha detto che lì si riconoscono i bagliori dell’anima di chi ci sta di fronte – se ne possiede una) in un’intervista “face to face”, resta qualcosa di speciale nell’esistenza di qualsiasi scrittore, che si chiami Eleonora Bagarotti o Victor Bockris.

A volte, capita che i discorsi prendano una piega che va oltre la promozione di un album. I’m sorry. Lo scrivo subito, a scanso di equivoci, per gli appassionati italiani che correranno (come me) il prossimo 23 ottobre al concerto milanese di Bowie, ma specialmente per coloro che si aspetterebbero un’analisi, professionalmente riscontrata col diretto interessato, delle singole canzoni di Reality, il suo ultimo album: non è andata così, a dispetto delle domande mirate. Così come (ahi, ahi.) non c’è stato il tempo sufficiente a scoprire i progetti collaterali del Duca Bianco, dai ruoli in pellicole underground alla pittura, alla tecnologia. Siamo scivolati dalle grandi tematiche esistenziali ai ricordi beatlesiani, dalla morte di vecchi amici all’eredità dei grandi artisti, dai mali del secolo alle speranze per il futuro di bambini come la piccola Alexandria, che David chiama dolcemente Lexie e, nel farlo, gli si illuminano gli occhi ‘dispari’ e questo accade (vedi sopra) perché la recente paternità gli ha acceso una nuova luce nell’anima.

E se tutto questo fosse accaduto, più banalmente, perché la sottoscritta si è recata all’appuntamento con una Collection di Nina Simone acquistata strada facendo?

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Ci terrei molto ad avere un tuo ricordo di Nina Simone, un’artista che amo visceralmente e alla quale tu stesso hai spesso fatto riferimento. Concedimi una parentesi: la tua cover di Wild Is The Wind mi trafigge il cuore come una lama affilata.
È interessante perché, quella canzone, l’ho scelta per me, per Nina. La scelta di un brano che qualcuno ha già scritto o interpretato è per me, comunque, il segnale che quel brano mi corrisponde. È mio perché lo sento come parte dell’es. Le canzoni di Nina, la sua voce vibrante, la sua enorme, pesantissima, aristocratica personalità sono state un inno all’esistenza. Lo sono per me, ora scopro che lo sono per te. E, così, Nina ha arricchito il mondo. Questo è il mio ricordo di lei, un ricordo triste. Ci mancherà.

Allora, visto che non ti dispiace, proseguiamo a scavare nella memoria: hai interpretato e inserito in Reality uno dei brani di George Harrison (Try Some, Buy Some) tratto dall’album che più ho ascoltato di lui, Living In The Material World. Hai mantenuto la struttura classica della canzone, ad eccezione del tuo timbro vocale.
Mi auguro che riproporre quel brano rappresenti un’occasione per ascoltare parole che solo l’anima può codificare. Parlano di spiritualità, che per George ha rappresentato un filo conduttore, ma parlano anche di distacco dal materialismo, che per noi rappresenta ormai tutto. Noi siamo parte di esso: produciamo, appariamo, le nostre azioni rappresentano risposte alla domanda economica che sostiene il mondo. Quand’è così, siamo riconosciuti. Viceversa, è come se una parte dell’umanità non esistesse. Sarebbe ora di pensarla in altra maniera.

Concordo, ma il meccanismo è questo. Del resto, tu stesso sei anche un esempio, in tal senso: le tue azioni sono quotate in borsa.
Sono stato abile e fortunato. La vita mi ha dato molto. Posso vivere a New York che, nel bene e nel male, può offrire alla mia famiglia tutto quanto esiste al mondo. E la vita è più comoda. Negarlo sarebbe falso. Vallo a dire a un bambino africano che muore di fame. Solo che noi non ci rendiamo conto di quello che ci arricchisce veramente, o che può renderci gli esseri più poveri della terra. La morte di un figlio, una malattia. Se ce ne dimentichiamo, arriveremo prima o poi a un punto di non ritorno. La libertà del pensiero va anche di pari passo con quella del distacco dalla materia. Per questo ho scelto la canzone di George.

Lo conoscevi bene?
L’ho conosciuto abbastanza da poter dire che incontrarlo è stato un dono perché era un grande: se n’è andato in silenzio, attraversando il male che non perdona. Non se n’è andato con un grido, capisci, se n’è andato con un soffio, sussurrandoci l’importanza di un abbraccio. E questo è stato davvero un grande urlo.

Ti prego, parlami di Lennon.
John. John era un vulcano di idee, poesia, passione. Era viscerale fino all’osso. Uno col quale non potevi non essere amico perché ti sputava addosso la verità ma, prima di tutto, la sputava addosso a se stesso. Un uomo, non una maschera. E un artista eclettico. Mi manca. Ricordo il tempo trascorso insieme come fosse ieri. Ripenso a lui cantando Fame, ma non voglio tornare sulla sua morte, fa troppo male.

Hai citato Fame: come molti tuoi colleghi di lunga carriera, nonostante il tuo percorso sia caratterizzato da più stili, ti ritrovi ad eseguire nei concerti dal vivo molti vecchi successi. Mi piacerebbe scoprire i tuoi stati d’animo rispetto alle canzoni di un tempo, tante quante il tempo che abbiamo a disposizione.
Se ci poniamo quest’obiettivo ci vorrebbero mesi, forse anni. Sai. La sensazione rispetto alle canzoni è simile a quella che proviamo tutti guardandoci indietro: a seconda di come siamo, di quanti anni abbiamo o di come stiamo vivendo in quell’istante, i nostri ricordi assumono diversi significati. E non si tratta solo di ricordi riferiti a persone o a luoghi che, necessariamente, scontrandosi con noi ci hanno influenzati. Si tratta di noi stessi. Credo nel tempo che fa evolvere le persone. A me è successo e lo intendo positivamente. A volte, accade il contrario. Ad ogni modo, ciò che siamo stati non è più ma, nello stesso tempo, continua ad essere perché se il nostro dna spirituale è giunto fin qui, deve per forza essere passato nelle trame precedenti. Dunque, se è vero che un brano come Ashes To Ashes continua a piacermi più di altri dal vivo, è anche vero che parti di me, oggi, continuano a riconoscersi in esso, a specchiarsi.

Ma se è vero che Reality, di base, può definirsi un agglomerato di tematiche meno cupe del consueto, come la mettiamo con quelle di Low? E la maschera di Ziggy o anche i delitti seriali del protagonista di Outside (che, tra l’altro, resta uno dei capolavori che mi porterei su un’ipotetica isola deserta)?
Tre esempi concreti ai quali riferirmi. Dunque, per quanto riguarda Low, ammetto di non ascoltarlo spesso, ma sarei un falso modesto se non riconoscessi di averlo riascoltato, a distanza di anni, e di averlo trovato ottimo. Il rimando ai momenti difficili c’è. Ora ne sono fuori. Però so di aver toccato il fondo perché, a quel punto, avrei potuto risorgere o morire. Resta la consapevolezza di aver sperimentato ogni emozione. In quelle del dolore ci si riconosce sempre perché la sofferenza è ciclica. Quelle canzoni sono un grido di aiuto e di autodistruzione, ma anche esperimenti sonori che hanno dato la svolta decisiva alla mia storia musicale, da Ziggy Stardust in poi. Guardo a Ziggy con affetto: era un tempo pieno di energia e di voglia di cambiare le cose. Credo abbia rappresentato una fase importante per molti giovani. Outside è scaturito da un progetto più ampio. Rigoroso, direi. Una collaborazione tra me e Brian Eno, che proseguirà ancora. Una vera e propria linea tematica dalla quale muoversi, prendendosi tuttavia libertà armoniche e concedendosi improvvisazioni.

Cosa intendi, esattamente, con “improvvisazioni”? So che non parli di jazz, ma sono italiana e voglio capire bene: Outside è colmo di pathos, ma la cosa che risulta immediatamente percepibile – e altamente apprezzabile – è una ricercatezza sonora pignola fino all’ultima, sfumata, minima dinamica.
È vero. Outside è il risultato di un lavoro particolarmente studiato. Non sono il tipo che improvvisa, neppure dal vivo. Mi piace che la canzone segua la sua linea perché così ne è stata concepita l’architettura, così è stato sviluppato il suo stelo argomentativo. Cosa intendo con “improvvisazione”? Intendo entrare in studio e confrontarmi – nel caso di Outside, insieme a Brian – sugli schemi delle idee che, man mano, si costruiscono. Se c’è un dubbio, una nuova idea, tutto va preso in seria considerazione.

In parole povere: è come disfare un maglione perché si decide, strada facendo, di dargli un’altra forma, inserire un nuovo colore.
Esattamente. È un concetto chiaro e semplice, detto così, ma difficile da mettere in atto. Bisogna ascoltare certi richiami, anche a costo di rimettersi in discussione.

Nella musica, ma anche nella vita, mi sembra che tu ti sia messo spesso in discussione. Sbaglio?
Acuta osservazione. Anche provare tutto significa mettersi in discussione perché, per quanto mi riguarda, quella era una specie di ricerca.

Nel tuo caso, mi sembra che abbia condotto alla “realtà”, una verità piuttosto felice, osservandoti e ascoltandoti.
Yeah, felicità come parte della realtà della vita, che continua a svincolarsi anche attraverso dubbi e domande, e sbigottimento per quel che può accadere. Però, io ho incontrato Iman. Ho capito subito che era la donna della mia vita e questo è un fatto molto concreto, come l’atto di diventare padre: la vita di un uomo può essere incompleta, parziale. Può non giungere mai a provare un tale equilibrio emozionale, di testa e di cuore. È un miracolo che pensavo di non meritare e poteva anche non accadere. Di certo, non passa giorno che io non me ne renda conta.

Cosa ti auguri per la piccola Alexandria, tua figlia?
Banalmente, mi auguro che Lexie trascorra una vita senza grossi problemi, in un mondo migliore. In fondo, questo è il messaggio di Reality. Però è ancora molto piccola e tenera: per ora, cerco di essere il padre che non sono stato col mio primogenito, che oggi è un uomo in gamba e che è sempre stato un ragazzo straordinario per caratteristiche sue e non perché, pur amandolo più di ogni cosa, io sia stato un buon padre. Essere buoni genitori significa, prima di tutto, essere presenti. E io, trent’anni fa, ero troppo impegnato. Finché i figli non sono diventati adulti, credo che conti molto la quantità del tempo trascorso con loro, non solo la qualità. Spesso si dice questo per consolarci dell’impossibilità di farlo, o della mancanza di volontà, dell’incapacità. Gli esseri umani si ritrovano in una struttura sociale che, a volte, finisce con l’irrompere anche in quella mentale. E per combatterla, ci vuole rigore, niente spazio per le sciocchezze, come spesso accade. In quest’epoca affannosa e carente di tempo per gli affetti, io e Iman, per Lexie, ci saremo sempre.

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