03/03/2008

LA REGINA E LA RINNEGATA

Shelby Lynne

Due donne completamente diverse che non si sono mai incontrate, né avranno occasione di farlo su questa terra poiché una di esse, Dusty Springfield, se n’è andata nove anni fa per un tumore al seno, con problemi di alcolismo e nell’indifferenza generale. Due artiste che sembravano appartenere a mondi e tempi lontani. Fino a ieri, almeno, quando Shelby Lynne ha deciso su suggerimento di Barry Manilow di rendere omaggio all’altra registrando un album di sue cover, tranne una scritta di suo pugno (Just A Little Lovin’, vedi recensione su JAM 145). Un album, come recita il sottotitolo, ispirato da Dusty Springfield, e che lei molto semplicemente spiega così: “Dusty è una delle mie cantanti preferite. Ha fatto canzoni bellissime che tutti amano. Quindi, perché non farlo?”.
Una spiegazione che Shelby butta lì, di getto, e che conferma un attimo dopo tagliando corto quando le chiedo se si senta in qualche modo affine alla cantante inglese, come artista o come donna. “No” risponde con decisione “sono soltanto una sua fan, e nemmeno da tanto tempo. L’ho scoperta con Dusty In Memphis solo una decina di anni fa e l’ho amata da subito. Non mi sento vicina a lei. In realtà faccio fatica a sentirmi vicina alla maggior parte della gente”.

Seppur diverse, le due donne hanno camminato, per differenti ragioni, sul lato più buio della strada. Dusty, che in realtà si chiamava Mary Isobel Catherine Bernadette O’Brien, si guadagnò il soprannome che l’avrebbe resa popolare in tutto il mondo quando era ancora bambina, ma una bambina particolare, una tomboy, una ragazzina in cui a prevalere è il lato maschile. Nessuno, naturalmente, allora sapeva che in quel nomignolo, Dusty, c’era già scritto il suo futuro: solo dopo la morte certe dichiarazioni rilasciate in vita, il look, il modo di fare avrebbero reso evidente la sua omosessualità, peraltro già suggerita da lei stessa in varie occasioni pubbliche e dalla sua popolarità presso i gay. Nel concerto pubblicato anche su dvd alla Royal Albert Hall del 1979, visto il gran numero di gay presenti in prima fila, la cantante commenta: “È bello vedere che la famiglia reale non è stata rinchiusa nei palchi”, con ovvio riferimento a quel soprannome per gli omosessuali, “queens”. Shelby Lynne invece è una sopravissuta, scampata a una tragedia famigliare che le si abbatte addosso quando a soli 17 anni assiste, assieme alla sorella Allison, anch’essa oggi cantante e autrice country (vedi box a pagina 57), all’omicidio-suicidio del padre che prima di togliersi la vita ammazza la madre. Materia per strizzacervelli certo, ma quella sottile malinconia nella voce della Springfield sembra oggi ritrovare una eco, consapevole e sensibile, nelle appassionate riletture realizzate da Shelby, una rinnegata, ma dalla corazza di vetro.
E tanto per continuare il giochino pseudopsicanalitico (ma giochino poi mica tanto), qualcosa dovrebbe dire anche che tra le rendition più belle di Shelby (azzardo, la più bella) ci sia quella I Don’t Wanna Hear It Anymore scritta da Randy Newman, la canzone preferita da Shelby dell’intero Dusty In Memphis, ma anche (e soprattutto) quella che proprio Dusty preferiva. E si stupisce allora, con divertita sorpresa, Shelby quando glielo dico: “Oh, questo non lo sapevo. Mi fa molto piacere” e per la prima volta nel corso della nostra chiacchierata accenna una piccola risata. Non è stato allora difficile scegliere le canzoni, come mi conferma, sciogliendo ormai del tutto la scontrosità iniziale delle prime risposte: “È stato facile. Ho scelto quelle che mi piacevano di più e tra quelle le canzoni che sapevo di poter riuscire a rendere mie, quelle che potevo marchiare con il mio nome. Così ho cercato in tutta la sua lunga carriera. Non ci sono solo canzoni da Dusty In Memphis, che è il mio preferito, ma anche da altri album. Una canzone che invece non potevo proprio fare è Son Of A Preacher Man perché quella è la sua canzone definitiva. Era impossibile riuscire a farla mia. E quando non riesci a impossessarti di una canzone, per quanto bella sia, meglio lasciar perdere”.

Non ci sono dubbi che il marchio di Shelby Lynne ci sia su queste nove canzoni di Dusty Springfield, canzoni che non suonano affatto come “Shelby does Dusty”, ma che al contrario hanno subito un profondo “de-make up”, asciugate da quegli arrangiamenti luccicanti e spesso orchestrali delle versioni originali e riportate a una dimensione intima. Se, come disse una volta Jerry Wrexler, il produttore di Dusty In Memphis, quell’album era il prodotto di musicisti jazz che provavano a fare musica soul, questo Just A Little Lovin’ pare tornare indietro e recuperare quell’imprinting jazzy originale. “Capisco quando parli di un disco jazzy” mi dice Shelby Lynne “perché gli arrangiamenti sono puliti, non ridondanti. Ma non direi che Just A Little Lovin’ sia proprio un disco jazz. Per me è soul. Gli arrangiamenti sono ariosi, delicati, semplici, a differenza delle trame del jazz generalmente più complesse e intricate. Meglio ancora, credo sia un blend di soul, R&B, blues”. Jazz o blues, poco importa, in fondo. Ciò che importa è il magnifico equilibrio di una produzione delicata. Una produzione dove lo spazio tra le note gioca un ruolo altrettanto decisivo quanto le note stesse, una produzione che ha un nome e un cognome da leggenda, Phil Ramone: “Il produttore mi ha proposto questa chiave di lettura, ma devo dire che è stato un lavoro di equipe. Abbiamo registrato tutto in cinque giorni, in diretta e senza aggiungere overdub o ritoccare con il computer. Che è il modo di lavorare che preferisco. È stato tutto molto semplice: trovavamo la tonalità, il giusto groove e mettevamo giù la canzone. Abbiamo cominciato con Just A Little Lovin’ e quello che è venuto ci è piaciuto tanto da proseguire con lo stesso approccio. Lavorare con Phil è stato molto bello. Lui è un grande produttore e come solo i grandi produttori sanno fare mi ha lasciata libera di affrontare le canzoni e provare a farle mie. Il merito è anche di Al Schmitt, l’ingegnere del suono. Il modo con cui ha registrato la mia voce è perfetto. E abbiamo resistito alla tentazione, che spesso ti prende quando sei in studio, di riempire tutti i silenzi e la pause. Perché quando una canzone funziona da sola, è meglio lasciarla stare così come è”.

Già, la voce. Tutto il disco gira attorno alla sua voce, intensa e appassionata, fragile e disillusa. E posto migliore per registrare la sua voce, Shelby non riusciva proprio a immaginarlo. Quando comincia a lavorare all’album, nel gennaio dello scorso anno, è ancora, ma per poco, legata contrattualmente alla Capitol Records e il suo sogno di poter un giorno registrare negli studi all’interno della famosa torre Capitol diventa finalmente realtà: “Trovarmi dentro a quello studio, il Capitol Studio A, quello dove Frank Sinatra aveva registrato i suoi dischi, è stato incredibile. E ancora più incredibile cantare con il microfono di Frank. Mi piacciono le vecchie apparecchiature di registrazione e il modo di fare i dischi alla vecchia maniera”. In quello studio, con quel microfono, Shelby mette su nastro nove canzoni, recuperate dagli album A Girl Called Dusty, Dusty In Memphis e da un singolo (How Can I Be Sure) poi incluso nel Greatest Hits, cui aggiunge una propria canzone, Pretend, una love ballad amara e spietata (“Abuse me one more night and pretend you love me”, così si conclude) giocata solo con chitarra e voce: una voce piena di rimpianti per una canzone che forse Dusty Springfield avrebbe fatto sua. “È la ragione per cui l’ho inserita nel disco” conferma Shelby “perché credo davvero che avrebbe potuto far parte del suo repertorio. Mi sembra una canzone appropriata per il tono generale dell’album e vicina alla sensibilità di Dusty”.
Forse è una bella giornata oggi a Palm Springs, oppure, più semplicemente, quella reputazione di bad girl che la stampa americana le ha cucito addosso è una (intelligente) copertura pubblicistica di una comprensibilissima diffidenza nei confronti della macchina del music biz, non disgiunta da una tenera timidezza. Fatto sta che oggi Lynne sorride e ride parecchio e pur non essendo certo una chiacchierona, mano a mano che l’intervista procede e si allontana da possibili invasioni nella sfera privata, l’atmosfera si fa più rilassata. Parliamo allora della sua irrequietezza stilistica, della sua insofferenza a restare dentro a un genere. Che sia questa invece, la dimensione musicale che stava cercando, questo soul bianco così rarefatto? “Francamente è difficile dirti che cosa farò dopo questo disco. Non credo che farò un altro disco di cover, almeno per molto tempo. Ho le mie canzoni. Ora faccio questo e ne sono felice, così come sono stata soddisfatta di ogni mio album passato, ed è tutto quello che so”. Oppure è il cinema la sua prossima mossa, dopo aver interpretato e con esiti più che convincenti, la figura di Carrie Cash, mamma di Johnny Cash, nel film Walk The Line? “Ero così emozionata quando mi hanno dato la parte. Tutti fortunatamente sono stati gentili e mi hanno aiutata. È stato un grande onore per me recitare in quel film. Lo ritengo un grande film, anche se ci recito io. Ci sono grandi attori che hanno fatto un ottimo lavoro. Potrei recitare ancora, ma rimane comunque una cosa part time, una parentesi. Io sono una musicista ed è meglio che continui a fare quello che so fare meglio, no?”.

Tanto per proseguire nel giochino delle affinità, o delle coincidenze, ce n’è un’altra che in questi giorni è sotto agli occhi di tutti e che riguarda però le due sorelle, Shelby Lynne e Allison Moorer. Così come la sorella maggiore, anche Allison ha pubblicato un disco di cover, Mockinbird, una raccolta di canzoni al femminile, e fra queste anche una di Shelby, She Knows Where She Goes: “La versione di Allison è fantastica, come tutto il disco peraltro. Sono onorata ed emozionata che abbia voluto fare una mia canzone. Avrebbe potuto sceglierne altre mille e cantarle altrettanto bene. Allison è una grande artista e può fare qualsiasi cosa”. Tento un’ultima provocazione, per provare a stanare la bad girl, chiedendole come si senta a far parte, secondo certa critica, della cosiddetta nuova scena di Nashville. Macchè, la bad girl si fa un’altra bella risata: “Non mi frega un accidente di quello che dicono i critici. Non sapevo nemmeno che esistesse una nuova scena (ancora ridendo, nda). La mia label sta a Nashville, ma non credo che la si possa definire un’etichetta country mainstream. È piuttosto una renegade country label, un’etichetta country di rinnegati. Dentro ci sono bad boys come Willie Nelson, Ryan Adams e bad girls come Lucinda Williams e come me. Mi piace farne parte. No, non ho niente a che fare con nessuna scena di Nashville”.
Eccola finalmente la parola che stavo aspettando: una bad girl, una rinnegata. “Oh yes, I’m a renegade”, risponde con un filo di voce ammiccante.

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