Sono una delle famiglie musicali più popolari d’America: non a caso, tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70 furono giustamente considerati l’alternativa bianca ai fratelli Jackson.
Eppure qui in Italia, nonostante un curriculum davvero impressionante, Donny Osmond, il più celebre dei celebri fratelli, è quasi uno sconosciuto. E lo sa; me lo dice, in modo quasi divertito, quando lo incontro negli uffici della sua casa discografica, nel centro di Milano, in occasione della promozione del suo nuovo album, sorta di tributo al musical rivisto in chiave moderna, emblematicamente intitolato: This Is The Moment. Francamente, non sono in grado di dire se, per Donny Osmond, questo sia veramente il momento ideale per sbarcare nella beneamata penisola ma una cosa è certa: a lui non sembra importare granché pur se, da buon americano, non perde occasione di lodare in modo incondizionato il nostro paese.
Anch’io ho comunque una certezza: so che molti giornalisti americani avrebbero fatto carte false pur di essere al mio posto e incontrare Osmond, vis à vis, mentre sorseggia un cappuccino fumante, potendo conversare amabilmente di musica e show business per quasi un’ora. Donny, infatti, è una vera celebrità: nei suoi 44 anni (portati benissimo, beato lui.), oltre a un matrimonio felice (5 figli) ha messo a segno un’infinità di colpi: dai successi discografici con gli Osmonds negli anni 60 a quelli televisivi insieme a sua sorella Marie (il leggendario Donny & Marie Show) per tutti i 70 e i primi 80, sino ai recenti fasti come attore, ballerino e cantante nel musical Joseph And The Amazing Technicolor Dreamcoat di Andrew Lloyd Webber. In più, ha pubblicato una ventina di dischi come solista, fatto il produttore discografico, recitato in film e commedie, addirittura era pronto per diventare pilota professionista nelle corse Indy.
“Avevo tutto: auto, scuderia, manager, un contratto con lo sponsor. Ma poi è arrivata l’offerta per il musical di Lloyd Webber e la mia famiglia ha pensato che il teatro fosse meglio dei circuiti automobilistici.”
Simpatico, spigliatissimo e molto disponibile, Donny non ti fa mai pesare il suo status anche quando, con nonchalance, butta lì che un paio di giorni dopo, nell’ambito di un party esclusivo “mi esibirò a Londra cantando uno dei brani del disco per la Regina Elisabetta”. O che, poco tempo fa, è uscita in America la sua autobiografia in cui si raccontano le sue mille prodezze: cose che una persona normale, se mai ce la facesse, avrebbe bisogno di dieci vite.
Quello che sorprende di Donny è la sua passione e la sua competenza in campo musicale. Ma si coglie anche una certa dose di orgoglio. Un esempio: nel 1982 Donny ha fatto un primo tentativo di sfondare a Broadway con un musical, la pièce Little Johnny Jones di George M. Cohan. “Il tutto è durato una sera: lo show ha chiuso i battenti istantaneamente”, confessa Donny. “È stata un’esperienza triste e dolorosa dal punto di vista umano e professionale. Avevamo lavorato duramente ed eravamo convinti della nostra opera. Probabilmente siamo andati in scena in un momento infelice e forse con il lavoro sbagliato. Ma ricordo di aver fatto a me stesso una promessa: non finisce qui. Prima o poi, tornerò a Broadway con uno spettacolo di successo. E così è stato.”
Viene il sospetto che questo nuovo lavoro possa essere un’ulteriore piccola rivincita se non una vera e propria vendetta nei confronti di quella delusione del 1982. “Hai ragione”, ammette, “tanto che, come brano conclusivo del disco ho scelto proprio il tema di Little Johnny Jones.”
Al suo fianco, in questa operazione, un’altra leggenda della musica americana, il mitico producer Phil Ramone. “È stato lui che ha avuto l’idea di dedicare un intero album alle musiche di Broadway. Un mese prima di entrare in sala ci siamo messi a lavorare al progetto. Insieme, abbiamo deciso di eseguire brani poco conosciuti se non addirittura inediti (come il caso di un pezzo del nuovo musical di Lloyd Webber, The Beautiful Game). Quindi, senza compromettere l’integrità degli arrangiamenti originali, Phil ha saputo dare un tocco moderno e originale al tutto. Lavorare con lui è stata una grande esperienza. ‘Ti tratterò come ho fatto con Frank Sinatra’, mi ha detto. E la cosa mi ha messo un po’ di pressione addosso. Sapevo che voleva dire che avrei avuto a disposizione solo tre takes per ogni brano. Ma aveva ragione lui: in questo modo è stata garantita tutta la spontaneità che volevamo fosse presente nel disco.”
Quando Donny racconta la fase di produzione dell’album ci viene in mente che anche lui, per un certo periodo, è stato dall’altra parte della barricata. E che dunque, meglio di chiunque altro, può spiegare il rapporto conflittuale tra produttore e artista. “Ho una mia teoria al riguardo: penso che un artista debba essere propositivo ma pur sempre rispettoso del ruolo del produttore. Al contrario, il produttore deve essere attento a non imporre in modo autoritario le proprie idee. Addirittura, la cosa ideale sarebbe che il produttore riuscisse a far fare all’artista quello che lui ha in mente facendogli credere che è stata una sua iniziativa personale. Senza stravolgere l’identità artistica del musicista.”
Donny è uno che la sa lunga: non a caso, nel 1988, Peter Gabriel lo ha chiamato offrendosi di produrgli un disco. “L’incontro con Peter Gabriel è stato una delle esperienze più interessanti della mia carriera. Ricordo che è venuto da me”, continua Osmond, “con idee davvero curiose. Ma io avevo una stima enorme e mi sono fidato di lui. Gabriel mi ha ricordato le teorie creative del mio amico Dweezil Zappa con cui ho collaborato anni fa.”
Stupisce questa vena rock nell’animo di un entertainer popolare come Donnny. Ma è ancora più stupefacente scoprire che conosce molte rockstar. “Con alcuni sono davvero amico”, dice. “Io e Frank Zappa, ad esempio, abbiamo passato lunghe serate a conversare non solo di musica. Frank mi parlava di filosofia, arte, politica: era un vero pensatore.”
“Quando io e i mie fratelli facevamo quella che allora veniva definita bubblegum music, sui palchi d’America si esibivano Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin. Sono cresciuto con il rock anche se la musica che più mi ha influenzato è stato l’R&B. Stevie Wonder è il mio grande idolo.”
Oggi la seconda parte della sua autobiografia è ben lungi dall’essere scritta. Per il futuro Donny ha parecchi progetti già stabiliti, “come un album di duetti rock con i miei migliori amici”, e qualche sogno nel cassetto. “Ho lavorato per quasi quindici anni in televisione”, dice, “ma oggi quello che più mi stimolerebbe sarebbe uno show dedicato ai nuovi talenti in campo musicale. Una specie di Ed Sullivan Show del nuovo millennio, con musica dal vivo per gruppi e artisti emergenti.”