31/05/2007

La teologia rock di Sinéad O’Connor

Chi scrive non può non ammettere una certa soggezione alla vigilia di questa intervista, un misto di ammirazione e timore al cospetto di un’artista da sempre apprezzata, notoriamente avversa alla stampa non troppo intelligente e protagonista di dichiarazioni ben poco diplomatiche. Dichiarazioni impopolari e controcorrente, ma sincere al punto tale che se da un lato le sono costate un alto e amaro prezzo da corrispondere (che lei non si è certo sottratta dal pagare di persona), dall’altro le hanno fatto guadagnare rispetto e riconoscimento di un’onestà intellettuale da parte di tanti. La foto del Papa strappata in diretta al Saturday Night Live, il rifiuto di suonare al Garden State Arts Center del New Jersey dopo l’inno americano (o qualsiasi altro inno nazionale, come poi precisò), le decise dichiarazioni antirazziste e antisessiste, il portare avanti ad ogni costo il proprio ideale femmineo di libertà (ma anche e soprattutto di femminilità, espressa attraverso l’essere quattro volte madre); e ancora: le critiche ai colleghi, quando necessarie (persino ai conterranei superstar U2), il rifiuto di qualsiasi morale pseudo-religiosa (lei figlia di un background fiero e passionale, ma fortemente segnato da una teocrazia clericale dominante sull’intera cultura politica e sociale del suo Paese) ne hanno fatto spesso una paria, specie negli Usa. Quando però dall’altro capo del telefono sento “Ciao, come stai?” in un tono misto tra il timido e la proverbiale toughness irlandese che ben presto si scioglierà, percepisco che ho a che fare con un’artista, e una donna, che semplicemente vuole parlare di ciò che le sta a cuore e che ritiene abbia una finalità che vada ben al di là della musica come semplice entertainment.
Ha da poco compiuto 40 anni, Sinéad O’Connor, e altrettanto da poco dato alla luce il suo quarto figlio Yeshua (il nome ebraico di Gesù), una vita e una carriera oggi ventennale che riassume laconicamente in “decisamente un bel pezzo di strada percorsa”, definendosi “una vecchia strega” sul suo sito web. Ne è passato infatti di tempo da quando, anfibi alti e abiti informi, chitarra al collo e, naturalmente, capelli rasati su un viso struccato e regolare dagli occhi grandi ed espressivi, bucava per la prima volta lo schermo nel video di Mandinka, tratto dal debutto The Lion And The Cobra del 1987, stravolgendo i canoni estetici dell’epoca e rivelando straordinarie capacità di interprete, in bilico fra forza e fragilità, violenza e sensibilità, e una maturazione musicale che negli anni le ha fatto progressivamente abbandonare l’arena del pop-rock e addentrarsi sempre più in ciò che lei stessa definisce la sacralità e la spiritualità della musica, il suo senso di esistere. E forte del suo cammino spirituale mai interrotto, giunge ora a pubblicare un doppio album dal titolo emblematico di Theology, dopo gli episodi che l’hanno vista interpretare la tradizione e lo spirito delle canzoni popolari irlandesi di Sean-Nós Nua del 2002 e l’universalità del rastafarismo nel reggae di Throw Down Your Arms del 2005.

“Crescendo in Irlanda non puoi certo sfuggire alla spiritualità e alla religione” afferma “che era un’autentica teocrazia. A 17 anni mi sono poi trasferita a Londra, e lì per la prima volta sono entrata in contatto con il rastafarismo, un movimento che ammiro moltissimo perché fondato su un atteggiamento molto mistico verso la religione: un essere per i rasta ha il compito di ricordare alla religione che esiste un Dio, e questo è un concetto che trovo contemporaneamente molto buffo e molto serio”.
Negli ultimi due anni anche la maturazione artistica della O’Connor non prende certo le distanze dalla musica religiosa: “Per anni ho ascoltato i dischi dei musicisti rasta, e ho poi collaborato con i monaci dell’abbazia irlandese di Glenstal, specializzati nei canti gregoriani. Ho poi ascoltato tanto R. H. Harris, l’artista gospel che aveva lavorato con Sam Cooke prima che questi divenisse una star, lui stesso membro dei Soul Stirrers. Quindi, ascoltando questi artisti e assorbendo il loro stile e la loro musica ho poi avuto voglia di realizzare qualcosa di mio. Questo è quello che riguarda Theology, e ci sono voluti diversi anni prima di assorbire tutto questo e sentire che era arrivato il momento di utilizzare le influenze per creare qualcosa di veramente mio, che non copiasse qualcun altro”.
Theology è un’opera doppia sorprendente, dove, replicando il concetto di Throw Down Your Arms, gli stessi brani sostanzialmente vengono proposti da un lato, nelle Dublin Sessions, minimalisticamente acustici e dominati dalla voce di Sinéad, e dall’altro, nelle London Sessions, accompagnandosi con una vera band. L’idea iniziale era di misurarsi solamente nella dimensione voce e chitarra acustica, perché se Madre Bernadette Mary (il nome assunto dalla O’Connor nella sua ufficiosa ordinazione a ministro di culto cattolico) aveva il sogno di scrivere un libro di teologia, l’artista Sinéad poteva realizzarlo cantando preghiere: “Inizialmente avevo preso l’impegno di realizzare Theology come un album singolo acustico. Poi a Dublino sono stata letteralmente tampinata per giorni da Ron Tom, il produttore delle London Sessions. Ho accettato di andare a Londra per realizzare con lui dei demo in vista di un eventuale album futuro, ma gli unici pezzi che avevo pronti erano quelli di Theology, e li abbiamo usati per vedere come funzionava la cosa, com’era lavorare insieme. Alla fine mi ha talmente pregato e supplicato che non sono proprio riuscita a negargli di far uscire anche queste versioni”. Un risultato del quale si definisce molto soddisfatta: “Credo che le diverse versioni simboleggino davvero le differenti prospettive di Theology, ed è esattamente quello che è alla base del disco: uno stesso script ma utilizzato per ragioni completamente differenti. E credo che ciò che meglio rappresenta questo processo siano le due versioni di We People Who Are Darker Than Blue”. Proprio la scelta di questo brano, cover di Curtis Mayfield, e della celebre I Don’t Know How To Love Him, tratto dal musical Jesus Christ Superstar, danno ulteriori spunti di riflessione: “Amo quel brano di Mayfield, e mi identifico moltissimo con il movimento di liberazione della gente di colore perché ha molto a che vedere con il concetto dell’autostima, importantissimo per me che, da cattolica irlandese, sono cresciuta con l’insegnamento che per essere una buona cattolica devi pensare che sei una merda. Jesus Christ Superstar è invece uscito quando avevo 9 anni, e dalla prima volta che ho ascoltato quel brano in particolare ho pensato: ehi, è la mia canzone! Ed è cantato da Maria Maddalena, e tutte le donne amano identificarsi con lei, non certo con le altre! (ride)”. La terza cover è Rivers Of Babylon, il cui testo è stato parzialmente riscritto da Sinéad: “Studiando canto ho imparato a non interpretare mai nulla che non mi appartenga veramente. In Theology non volevo nulla che potesse esprimere rabbia o violenza nei testi, perché chiunque cerchi di dimostrare che Dio approva la violenza in realtà mente. Non mi identificavo quindi totalmente con il testo originale, tratto dal salmo 137. Quando l’ho letto l’ho trovato veramente molto violento e aggressivo, ma anche triste e carico di dolore. L’ho così modificato per potermi identificare veramente”.
La ricerca spirituale dell’amore traspare anche nelle parole del profeta Geremia, il suo favorito, che trova spazio in Something Beatiful, mentre Isaia compare in If I Had A Vineyard. Dal senso di colpa cattolico all’amore universale di Jah, per poi ritornare alle radici dello spirito cristiano, quello autentico e puro, perché “Dio è ostaggio della religione, quando questa ti dice che Dio non può esistere al di fuori di essa. Ma il punto è che prima della religione c’era Dio, e lui c’è nonostante la religione. Quando la religione finirà, ci sarà sempre Dio”.
All’indomani di Sean-Nós Nua Sinéad O’Connor dichiarava la sua intenzione di lasciare per sempre la musica. L’ha fatto: l’arena commerciale del pop-rock è lontana anni luce, oggi per lei c’è la Musica.

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