Le grandi vibrazioni rock in Italia
Arcana pubblica il libro di Norberto Fedele sui primi grandi concerti in Italia
La storia del rock italiano non può prescindere dai concerti. Pensiamo al valore simbolico dei Led Zeppelin al Vigorelli nel 1971, venticinque minuti di esibizione e poi il disastro. Eppure quell’anno fu determinante per il nostro rock grazie all’arrivo di tanti altri gruppi, pensiamo ai Jethro Tull ancora oggi amatissimi da noi, con concerti entrati nella storia e raccontati da Norberto Fedele in Vibrazioni Rock 1970-1977, fresca uscita Arcana. Ne parliamo con l’autore.
L’Italia è un paese strano e sorprendente, caro Norberto, basta pensare che la grande stagione dei concerti prende il via con un concerto mai terminato, quello dei Led Zeppelin al Vigorelli. Quanto fu importante quell’evento?
Premetto che, essendo io del 1977, posso parlare solo da spettatore “esterno” e non da testimone diretto di quegli eventi. E aggiungo purtroppo, perché sarebbe stato magnifico esserci, nonostante gli incidenti e le contestazioni. L’importanza di quel concerto credo risieda nel fatto che con i Led Zeppelin il rock stava cambiando realmente faccia; i giovani di allora avevano un desiderio smodato di vibrazioni nuove ed eccitanti, e Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham davano al pubblico esattamente ciò di cui aveva bisogno. La loro musica, ora sensuale ora violenta, talvolta meditativa se non addirittura trascendentale, era perfettamente in linea con la rivoluzione sociale in atto nei primi anni settanta. Non sembrava vero che la “piccola” Italia potesse accogliere il gruppo rock numero 1 al mondo, che aveva spodestato dal trono gli ormai disciolti Beatles. Peccato che il tutto si svolse in un contesto alquanto inappropriato, come era appunto il “Cantagiro”, tra la nuova avanguardia giovanile che voleva i Led Zeppelin e il pubblico delle famiglie che desiderava ascoltare Gianni Morandi, i Vianella e Milva. Difficile immaginare un connubio così male assortito, specchio di una strategia organizzativa non proprio oculata. I dissennati atti vandalici degli immancabili facinorosi (mossi esclusivamente da strumentalizzazioni politiche) e le cariche della polizia fecero il resto, mandando tutto in malora e compromettendo per sempre il rapporto tra i Led Zeppelin e l’Italia.
Qualche anno prima, nel 1965, c’era stato anche il piccolo ma storico tour italiano dei Beatles, tuttavia il tuo libro parte solo nel 1970, con i Rolling Stones. Come mai questa scelta?
Gli anni sessanta furono un periodo di fioritura. La maggior parte dei gruppi pop britannici prendevano ispirazione dal blues, ma con l’apparire di nuove tendenze musicali come la psichedelia, il progressive, il jazz-rock, la fusion e così via l’offerta crebbe sensibilmente, dando il via alla grande stagione degli anni ‘70, senza dubbio il periodo più fertile e artisticamente irripetibile. L’esibizione milanese dei Rolling Stones del 1° ottobre 1970 fu segnata da episodi di teppismo e scontri con la polizia da cui prese il via la stagione delle contestazioni, che sarebbe durata, a periodi alterni, fino al 1977. La scelta di questo arco temporale è quindi dovuta al desiderio di raccontare proprio quella fase storica.
Gli anni ’70 in Italia sono stati principalmente il decennio del prog. L’affermazione dei vari Orme, Banco e PFM fu dovuta anche al contatto con tanti giganti stranieri che si esibivano da noi. Su tutti gli adorati Jethro Tull. Che contributo diedero Ian Anderson e compagni alla nascita di una mentalità rock nel nostro Paese?
Credo dipenda dal fatto che con i Jethro Tull si ebbe la chiara percezione sulle potenzialità espressive di cui il rock poteva disporre. Voglio dire, un gruppo che riuniva in sé matrici di ispirazione folk, celtiche, classico/barocche e rock duro ebbe sicuramente un grosso impatto sul pubblico. Aqualung è un esempio perfetto in tal senso, ed è il mio disco preferito insieme a Stand Up, dove si sentiva ancora una certa impronta blues. Quanti gruppi, sulla scia dei Jethro Tull, cominciarono per esempio a introdurre il flauto traverso nella loro strumentazione? Molti direi, soprattutto italiani (pensiamo alla PFM, gli Osanna e i Delirium, i primi che mi vengono in mente). E poi c’era l’eccezionale presenza scenica e l’istrionismo di Ian Anderson, che rispetto a Mick Jagger e Roger Daltrey, modelli di sensualità e trasgressione, era teatralità allo stato puro. Un nuovo tipo di frontman che sicuramente fece scuola.
A proposito di coscienza rock, fu decisivo anche il film di Woodstock, che arrivò da noi nel 1970. Tra i giganti di quella pellicola il nostro pubblico riuscì a vedere i Ten Years After: cosa racconti dei loro concerti?
Le cronache italiane dell’epoca parlavano di un gruppo tecnicamente ottimo ma carente di improvvisazione… in pratica riproponevano per filo e per segno gli stessi arrangiamenti e assoli delle incisioni da studio. Io non sarei così severo come certi recensori di quel periodo. I Ten Years After partirono come gruppo ancorato al blues e con sfumature jazz, virando poi verso sonorità più hard. Gli album Stonedhenge e Ssssh sono rappresentativi in tal senso. Se proprio devo trovare un difetto penso che siano rimasti troppo uguali a sé stessi, riproponendo le stesse formule musicali senza osare più di tanto.
Il gruppo più adorato, letteralmente adottato in Italia ancor prima di trovare successo in patria, furono i Genesis. Hanno suonato tante volte da noi, hanno ricordi speciali dei concerti italiani. Secondo te perché ebbero responsi del genere da noi?
I Genesis avevano un grande senso melodico unito a una tecnica compositiva ed esecutiva, scevra da inutili virtuosismi, ricca di classicismo. Si trattava di eccellenti compositori, e non è un caso che il loro terzo album Nursery Cryme si aggiudicò la quarta posizione della classifica italiana; con quell’album fecero uno scatto in più, regalando al pubblico affreschi musicali dai toni immaginifici e, oserei dire, sinfonici; il Mellotron della magnifica The Fountain of Salmacis ne è un esempio. L’Italia ha una tradizione musicale classica, e questo aspetto ha contribuito ad “empatizzare” ancor di più con il nostro pubblico. La composta teatralità di Peter Gabriel, malinconica, ironica, tragica e grottesca allo stesso tempo, unita alla bravura degli altri quattro musicisti, completarono il quadro.
Non solo rock ma anche jazz, fusion, musiche incatalogabili, come Frank Zappa e Weather Report, che si esibirono per la prima volta in Italia alla prima edizione di Umbria Jazz. Il nostro pubblico aveva un gran desiderio di musica e di ascolto, non trovi?
È proprio così. Umbria Jazz rappresentò una nuova frontiera non solo musicale ma artistica in senso lato, in cui i giovani, pur se lontani dal mondo del jazz, parteciparono con spirito di aggregazione e condivisione. E poi, particolare non di poco conto, si trattava di una manifestazione gratuita, priva dell’odiato biglietto d’ingresso che era stato motivo di contestazioni per altri concerti.
I Traffic nel 1974 prima, Santana nel 1977 dopo, segnarono l’inizio del declino a causa dell’aumento di contestazioni e violenze. Cosa successe ai loro concerti?
Era il periodo in cui il promoter David Zard prese il monopolio sull’organizzazione delle tournèe. Gli autonomi videro in lui il “nemico” per eccellenza, il mercenario che si serviva della musica per spillare soldi a giovani proletari squattrinati. In realtà, come mi è stato raccontato da chi quel periodo lo visse sulla propria pelle, i giovani che amavano la musica, e che avrebbero speso volentieri 1.500 o 3.000 lire per un biglietto, erano molto di più rispetto a quelli che volevano distruggerla a colpi di bombe molotov e sassate contro le vetrate dei palasport. Il tour dei Traffic ai primi di aprile del 1974 fu solo l’inizio di una nuova ondata di incidenti, proseguita con Lou Reed – a cui accenno fugacemente – e i disastrosi concerti di Milano e Roma nel febbraio del ‘75; le contestazioni al concerto dei Weather Report con Billy Cobham/George Duke Band a Roma nel luglio 1976, fino ad arrivare appunto a Santana, quando vennero messi a ferro e fuoco (letteralmente) il Palasport di Torino e il Vigorelli di Milano nel settembre 1977. Quella fu la ciliegina sulla torta che fece definitivamente calare il sipario sulle tournèe degli stranieri in Italia per i successivi due o tre anni. Le strategie del terrore avevano vinto la loro partita. Oggi i tempi sono cambiati, e molti non si fanno problemi a spendere anche 150 euro per un concerto. Curioso, no?
Nella ricostruzione effettuata in Vibrazioni Rock, c’è qualche concerto che hai riscoperto e che ti ha sorpreso?
Beh, riscoperto o sorpreso in particolare non direi. Tieni presente che da appassionato ho raccolto nel tempo diverse registrazioni pirata, i famigerati “bootleg”, relativi ad alcuni concerti di cui parlo nel libro, e ascoltandoli mi sono sorpreso – ecco, questo sì – nel percepire quale clima si respirasse a quegli eventi, l’emozione di chi applaudiva anche tre o quattro volte durante l’esecuzione di un solo brano (come accadeva ai Genesis), oppure i cori di protesta e gli slogan politici urlati durante i concerti, spesso rovinando l’atmosfera e irritando il pubblico “giusto” (è il caso dei Jethro Tull a Bologna nel marzo 1973, o gli Yes a Roma nell’aprile 1974 ), sempre comunque in un’atmosfera di grande entusiasmo, e la sensazione palpabile di assistere a qualcosa di irripetibile. Vorrei chiudere con una precisazione che ritengo di dover fare: la scelta dei 23 gruppi trattati nel libro riflette le correnti musicali rappresentative di quel periodo (rock blues, progressive, hard rock, jazz-rock, fusion), secondo una selezione basata, oltre che su gruppi ed eventi storicamente importanti, anche su gusti personali e non pretende l’esaustività, altrimenti avrei dovuto parlare anche di Soft Machine, Curved Air, Atomic Rooster, Black Sabbath, The Who, Strawbs e tanti altri gruppi che calcarono i nostri palchi in quegli anni. Ma non sarebbe bastato un libro solo, bensì un’enciclopedia!
