Josh Homme e Dan Druff sono allibiti. Nella elegante hall di questo elegantissimo hotel milanese c’è un sottofondo di musica new age e presto uno degli educatissimi inservienti viene a rimembrarci che non si può fumare (il portacenere è già pieno zeppo). “Caspita!” sbotta Dan, il bassista che ha sostituito Nick Oliveri nei Queens Of The Stone Age. “È come la California. Prima ci mettono il coro degli uccellini a primavera poi ci impediscono di fumare!” E Josh, più pacato: “So che questo hotel era una banca, ma noi non siamo dei bancari. It’s fucking rock’n’roll man!”.
Questi sono i Queens Of The Stone Age, anche senza Nick. Non li puoi castrare, non puoi mettere loro dei paletti. Loro sono così, prendere o lasciare e la maglietta slabbrata di Homme, unita alla sua assolutamente non trendy corpulenza, la dicono lunga a proposito. Non fa eccezione la loro musica che, a dispetto del botto commerciale di Songs For The Deaf e delle varie pressioni subite per fare questa o quella cosa, ha sempre il coraggio di cambiare, e di dar origine a un album assolutamente non facile, né immediato come Lullabies To Paralyze.
Per la verità il titolo del disco viene ripreso dalle liriche di Mosquito Song, un brano di Songs For The Deaf. “In questo modo abbiamo cercato di riempire il gap che di solito si crea tra un disco e l’altro, e poi, ad essere onesti, ci piaceva semplicemente il suono”, spiega Josh. In realtà c’è anche un’altra ragione, più mascherata. Per Homme le canzoni sono come dei figli che necessitano almeno nove mesi di incubazione e cura prima di diventare definitive. “Scrivo in continuazione, anche ora ho una chitarra in camera per comporre nuovi pezzi, per cui mi viene da ridere quando mi chiedono i tempi per il prossimo album. A dire il vero sarebbe già pronto. Però io amo lasciar sedimentare i brani, cucinarli a fuoco lento e poi sceglierli per un determinato album in base alla personalità degli stessi. È sempre la musica a dirti dove devi andare, malgrado tutti cerchino di darti buoni consigli.”
Josh ha una sorta di reverenza e devozione per la musa, perché si rende conto che il flusso creativo arriva da un qualche misterioso posto con il quale bisogna umilmente cercare una connessione. Non a caso prima di registrare l’ultimo disco si è messo a rileggere alcuni racconti di fate. “Queste storie sono così cupe eppure così lucenti! Si adattano all’attitudine dei Queens che hanno sempre cercato di essere un’evasione dalla realtà pur facendone parte. Sono affascinato dal fatto che ogni evento, ogni parola è suscettibile di molti livelli e sta a te capire quale vuoi cogliere e codificare. Puoi fermarti alla superficie e pescare l’ovvio, oppure addentrarti nell’esplorazione dei significati più reconditi, fino ad arrivare al simbolismo più esoterico. Mantenere i testi delle canzoni criptici fa sì che questa magia venga rispettata. I Queens si pongono delle domande ma non danno delle risposte, perché le risposte sono soggettivamente correlate a ciò che il singolo sente il bisogno di interpretare. È questo il potere delle musa. Essa fornisce sempre e soltanto lo specchio per trovare nuove parti di noi stessi. Malgrado ciò, in quest’ultimo lavoro ho cercato di rendere i testi abbastanza comprensibili e di dar loro un senso compiuto, anche se talvolta lo trovo inutile perché la musica esprime già tutto quello che voglio dire e alla fine resta ben poco da aggiungere. E poi mi piace tenere qualcosa per me stesso, perché la creatività si nutre anche di segreti. In ogni caso anche i video di Lullabies To Paralyze non esplicano nulla e cercano di lasciare libera l’interpretazione del pubblico.”
Questo percorso personale di Homme attraverso i labirinti dei differenti livelli di realtà partorisce musicalmente un album molto più complesso e cerebrale, sicuramente meno teso e nervoso rispetto ai precedenti. “Negli altri dischi si percepiva una certa conflittualità tra i vari componenti e collaboratori della band. Inoltre dovevamo ancora imparare ad essere ciò che volevamo essere, mentre per quest’ultimo disco tutto è stato più semplice. Eravamo tutti amici, non abbiamo dovuto cozzare con visioni estranee alla nostra, per cui i brani uscivano spontaneamente e senza tensione. Semplicemente eravamo connessi e sintonizzati sulla stessa lunghezza d’onda e non c’era bisogno di discutere, né di mettere alla prova i nostri ego. Infatti abbiamo registrato relativamente in fretta. Lo studio si trovava nella zona di Los Angeles dove vengono girati tutti i film porno, rendendo l’atmosfera surreale e divertente. La musica è dolceamara come la vita: magari c’è cupezza, ma alla fine esiste sempre un lato ironico che tende a sdrammatizzare. Inoltre i suoni devono rispecchiare l’alchimia tra le persone come nel gospel.”
Oltre ai soliti compagni di merende nel deserto (tra cui Chris Goss, Alain Johannes, Dave Catching) in Lullabies spicca la partecipazione di Billy Gibbons, figura storica degli ZZ Top che accompagna il combo losangelino nel brano Burn The Witch. “Stavamo ascoltando alcuni vecchi dischi degli ZZ Top degli anni 70, perché era esattamente il suono che desideravamo ricreare, e ci siamo detti che avremmo potuto direttamente invitare Billy Gibbons. Siamo rimasti sorpresi del fatto che abbia accettato, perché di solito è molto restio ad elargire la sua presenza. La cosa curiosa è stata che lui all’inizio ci proponeva arrangiamenti più moderni, dai quali cercavamo di fuggire, e così alla fine siamo stati noi a costringerlo a pescare dalla memoria delle sue prime esperienze per foggiare timbri più impastati e carichi. Alla fine ci ha ringraziati per avergli fatto rivivere i tempi andati.”
In You Got A Killer Scene There, Man ci sono invece le voci di Shirley Manson (la rossa dei Garbage) e di Brody Dalle (leader dei Distillers nonché fidanzata di Homme). “Shirley era a Los Angeles per registrare il nuovo disco dei Garbage, mentre Brody era con lei perché sono amiche. Erano le 4 del mattino e loro sono capitate in studio ubriache mentre noi stavamo registrando e così le abbiamo aggiunte ai cori. Come vedi le nostre comparsate non sono mai pianificate, ma sempre casuali e basate su una vera amicizia e frequentazione. Dunque non posso prevedere chi si aggiungerà ai Queens Of The Stone Age in futuro…”
Tra il lavoro con le Regine, le Desert Sessions e le scampagnate con gli Eagles Of Death Metal, Josh Homme è da cinque anni che non ha un istante libero. “È che ci sono sempre così tanti interessanti progetti da seguire! Il tour di Songs Of The Deaf è stata un’esperienza molto oscura e difficile, e l’attitudine giocosa degli Eagles Of Death Metal mi ha aiutato a ritrovare la leggerezza e il senso del divertimento necessari per rimettermi al lavoro. Jesse è un vero spasso nella sua mania di essere una rockstar plateale alla Freddy Mercury. Io invece vengo dal punk e tendo sempre a denigrare quel tipo di atteggiamento. Per me i musicisti sono al servizio della musica ed è lei la vera star. Per quanto riguarda le prossime sessioni a Joshua Tree, beh, non appena avrò un po’ di tempo mi rimetterò all’opera. A dire il vero abbiamo già registrato un brano, mentre nel deserto nevicava; è stata un’esperienza esilarante.”
È risaputo che Josh non ama parlare delle ragioni che hanno spinto Oliveri a lasciare la band. C’è chi cita le insostenibili intemperanze dell’incontenibile Nick, chi dice che oramai i due erano giunti a una visione diametralmente opposta di ciò che le Regine e la loro musica dovevano essere. Ancora una volta Homme si mantiene vago: “Molti diranno che questo album non è all’altezza dei precedenti perché non c’è Nick; io sostengo soltanto che una band, come la musica, è essenzialmente un enigma, ossia un qualcosa che esiste anche se non dovrebbe esistere e che non si riesce a spiegare. Ciò che per me conta è che io mi senta integro e a mio agio in ciò che faccio. Io delle decisioni altrui non sono responsabile. Ciascuno di noi ha persone che gli danno ragione o torto e in questo senso per me gli ultimi due anni sono stati molto interessanti. Ci tengo solo a precisare che non sono un tipo che parla a vanvera e che quando mando a quel paese qualcuno è perché ci ho riflettuto a lungo e ho le mie buone ragioni. Alla fine si tratta solo di musica e poi le cose sono sempre esattamente come devono essere in quel momento”.
Di nuovo una sorta di misticismo. A quanto pare Homme non è quel ragazzone semplice che potrebbe apparire e lo dimostra anche la sua teoria sul successo che improvvisamente l’ha abbracciato: “Cerco di cogliere sempre l’onda del momento, tentando di vivere al massimo ogni istante, perché so che non durerà. Tutto passa e fa il suo tempo. Forse il mio è soltanto un atteggiamento scaramantico per esorcizzare la paura della fine, ma tant’è. Ciò che è passato non lo puoi cambiare, ma puoi essere incessantemente attivo per vivere al meglio il tuo presente”. Come scrive in This Lullabye (“La mia speranza sta nell’orizzonte”) l’importante per la rossa regina di cuori e mantenere le frontiere aperte, affinché la libertà vada sempre ad alimentare anche l’ultimo alito di anima. “Quella è la mia canzone preferita, anche se scegliere tra i vari brani è come scegliere tra i diversi figli di una stessa madre. Ma amo quel pezzo perché in esso vi sono contenute mille sfumature differenti: la dolcezza, la passione, la durezza, il rimpianto, la contemplazione. Adoro le situazioni cangianti e dunque anche le personalità delle canzoni che sanno racchiudere diversi umori.”
Quanti Josh Homme esistono? C’è l’umile punk-rocker che ha sacrificato sull’altare della musa il suo ego da rockstar; c’è l’amico di Mark Lanegan che quando suonava negli Screaming Trees ha salvato il tormentato cantante da una fine certa; c’è l’adepto del misticismo sciamanico dei Kyuss devoto al sacerdote dei Masters Of Reality Chris Goss; c’è l’icona acclamata di un rock’n’roll concepito alla vecchia maniera, tra lo sperma, il sudore e il sangue. Poi c’è lo sguardo pulito del ragazzone tutta birra e hamburger che tradisce le origini irlandesi da “redhead” e c’è l’amante appassionato che ha spinto la Dalle a dichiarare pubblicamente che i rossi lo fanno meglio. Oggi scopriamo anche una persona riflessiva e complessa, che crede nell’amicizia ma non lesina separazioni, che parla volentieri ma non vuole svelare un mistero che neanche lui alla fine comprende fino in fondo. Poi vai sul sito www.qotsa.com e scopri un’intera vena demisticatoria dell’allure che circonda i Queens Of The Stone Age. Non è che l’enigma alla fine giace in una fottuta paura del successo raggiunto? “Demistificare aiuta a mantenersi umili. Per noi la musica è qualcosa da prendere con estrema serietà, ma non amiamo prendere noi stessi altrettanto sul serio. Lasciamo che sia la musica a rappresentare le ombre con le quali noi giochiamo a rimpiattino. C’è un momento per soffrire e un momento per gioire, un momento per svegliarsi e uno per addormentarsi.” Come le ninnananne che richiamano i rassicuranti respiri dell’utero materno e che hanno la forza di bloccare il feto nel limbo amniotico della simbiosi più atavica. “La musica può essere madre o matrigna, ma non dimenticare che anche le ninnananne possono paralizzare”.