09/12/2009

LENNON

Le interviste perdute

John Lennon ha fatto molte cose brillanti in vita sua, ma una delle più ispirate è stata probabilmente la distruzione deliberata dei Beatles nel 1969, poco più di quarant’anni fa. All’epoca non sembrò un gesto ispirato, non alle decine di milioni di fan dei Beatles distrutti dalla notizia in tutto il mondo, non a Paul McCartney che, sentendosi abbandonato, si trasferì nella sua fattoria scozzese e cadde in depressione. Se Lennon, fondatore del gruppo che si sarebbe trasformato nei Beatles, non avesse assassinato la propria creatura in quel preciso momento, se la band avesse continuato negli anni 70 la propria lotta intestina, dubito che oggi leggereste questo articolo. Uccidendo i Beatles prima che ci potessero deludere – e lo avrebbero fatto con l’evolversi delle mode musicali e la pubblicazione di album non all’altezza di quelli che amiamo – Lennon li ha congelati per l’eternità al loro picco.
Ai tempi dello scioglimento, nel 1969, facevo interviste per l’Evening Standard di Londra con l’incarico speciale di coprire la musica rock. Oggi i giornalisti sono tenuti a debita distanza dalle star da legioni di addetti stampa, ma allora era diverso, per me lo fu. Solo ora, guardandomi indietro, riesco ad apprezzare fino in fondo l’accesso sorprendente ai Beatles che ho avuto dal 1967, l’anno del picco artistico di Sgt. Pepper, sino al 1972, quando lo scioglimento era diventato materia per l’Alta Corte. Ecco perché nell’ottobre del ‘68 ero agli studi di Abbey Road, dove raccolsi le confidenze felicemente indiscrete di Yoko Ono circa le relazioni avute durante i primi due matrimoni, per poi concludere la serata con un concerto privato al pianoforte di Paul McCartney, che stava lavorando a una nuova canzone chiamata Let It Be. Intanto riuscivo a sentire dall’altra parte del corridoio John Lennon e il produttore George Martin mixare Cry Baby Cry dal White Album.
Quasi tutte le conversazioni che ebbi nel corso di quei febbrili, ultimi giorni beatlesiani sono finite nel mio piccolo registratore Sony, che riversava confessioni e opinioni su audiocassette. Queste ultime venivano archiviate, dimenticate o ammonticchiate senza alcun criterio in una vecchia cassa da imballaggio della Pickfords. È in queste cassette, che non sono state ascoltate per decenni (in alcuni casi, mai), che recentemente ho scoperto registrazioni che in alcuni passaggi sfidano punti di vista quarantennali sulla relazione tra Lennon e McCartney. Non tutte le interviste si sono salvate. All’epoca le cassette erano costose e mi mortifica ammettere che ne ho una in cui i nomi McCartney, Jagger e Hendrix sono stati cancellati via via che un’intervista veniva registrata sulla precedente. Né tutto ciò che registrai è stato pubblicato. Molte dichiarazioni erano confidenziali. Il tempo rimargina le ferite: il fatto che renda pubbliche quelle confidenze ora non ha più molta importanza.

Nel 1969 giravano voci di contrasti nel giro dei Beatles, ma in apparenza tutto procedeva nella solita allegria. Poi, mentre frequentavo il quartier generale della Apple a Mayfair un giorno di settembre, capii che stava accadendo qualcosa di brutto. Ci fu una riunione dei Beatles nella sala di consiglio che si trasformò improvvisamente in baruffa, seguita da un gran viavai su e giù per le scale. Nessuno però spiegò che cosa stava accadendo. Poche settimane dopo ricevetti una chiamata da John. Mi diceva di avere appena restituito alla Regina il titolo di Membro dell’Ordine dell’Impero Britannico. Era in uno stato d’animo gioioso, riflettevo prendendo appunti. Ma faceva le sue mosse separatamente dagli altri Beatles, tanto da farmi scrivere due giorni dopo un pezzo titolato «Il giorno in cui morirono i Beatles». Ai tempi avevo il mezzo timore di avere sopravvalutato il caso, perché agli occhi del mondo esterno la formazione era ancora decisamente viva. Ma non appena l’articolo fu pubblicato, una rosa bianca incellofanata fu recapitata sulla mia scrivania, con abbinato il messaggio: «A Ray con amore da John e Yoko». Da quel momento in poi, quando si trattava di coprire avvenimenti legati ai Beatles, io e il mio registratore avremmo avuto a disposizione la migliore delle fonti.
Quell’anno, poco prima di Natale, avrei ascoltato con sbalordimento (e con una certa disperazione) John, che mi aveva fatto volare con lui fino a Toronto per raggiungere Yoko, raccontarmi allegramente la storia segreta di come aveva distrutto i Beatles. «Alla riunione Paul parlava a vanvera di quello che avremmo fatto, perciò alla fine dissi: “Penso che tu sia pazzo. Voglio il divorzio”». Non aveva previsto di dirlo, ma una volta fatto, non avrebbe mai più ritirato quelle parole, sebbene la notizia della separazione sarebbe stata annunciata pubblicamente solo all’uscita del disco successivo Let It Be in maggio. Naturalmente ho anche nastri di interviste a McCartney. Mentre John era occupato a fare a pezzi il tempio dei Beatles, Paul alla fine era riuscito a riprendersi dal colpo tanto da realizzare il suo primo album solista McCartney. Solitamente astuto nelle faccende riguardanti la promozione, in quell’occasione fece un passo falso, rilasciando nell’aprile 1970 un comunicato stampa ambiguo abbinato all’album, che fu interpretato come l’ammissione di avere sciolto la band. Titoli carichi di accusa fecero il giro del mondo. «Come ha potuto farlo?», si chiedevano i fan in pena di tutto il globo. «Fu un grande equivoco», mi disse pochi giorni dopo. «Pensai: “Cristo, che cos’ho fatto?”, mentre le budella mi si torcevano. Non ho mai inteso quel comunicato come un modo per dire: “Paul McCartney lascia i Beatles”». Che ironia. Il Beatle che più di tutti voleva che il gruppo stesse unito, il primo fan dei Fab Four, veniva incolpato della loro dissoluzione.
«Perché non hai scritto le cose che ti ho detto in Canada?», mi chiese John quando capì che Paul aveva accidentalmente ottenuto il dubbio onore di porre fine al gruppo più amato del mondo. Giacché li aveva fondati, pensava di dover essere lui a distruggerli. Gli risposi che era stato lui stesso a chiedermi di non scrivere quelle cose. La sua risposta fu sprezzante: «Sei tu il giornalista, Connolly, non io», disse bruscamente.
Ma la cosa che più mi colpisce, riascoltando le cassette, è la “prescienza” di John, il modo in cui sapeva cogliere il segno dei tempi che cambiavano. Così come una volta aveva saputo quali canzoni scrivere e quali commenti avrebbe suscitato un titolo di giornale, aveva visto la fine avvicinarsi pur trovandosi nel bel mezzo del vortice chiamato Beatles. «Nella mia testa la storia era finita molto prima che iniziasse il finimondo», mi ha detto nel 1971, durante una mia permanenza di cinque giorni da lui e Yoko a New York. «Credevamo al mito dei Beatles tanto quanto ci credeva il pubblico, eravamo innamorati di loro alla stessa maniera. Ma eravamo fondamentalmente quattro persone che alla fine hanno riacquistato la propria individualità dopo essere stati sommersi dal mito. Conosco un sacco di persone sconvolte dallo scioglimento, ma tutti i circhi devono finire prima o poi. I Beatles erano diventati un monumento che andava cambiato o smantellato. Alla fine è stato smantellato. I Beatles dovevano essere questo e quello, ma in definitiva non eravamo che una band che ha avuto molto successo. In verità, i giorni migliori sono stati quelli precedenti la fama, quando suonavamo per ore e ore nei club. Il mio numero preferito era Baby Let’s Play House di Elvis. La facevamo durare una decina di minuti continuando a cantare lo stesso verso. Tempo dopo presi un verso da quella canzone e lo misi in una delle mie composizioni chiamata Run For Your Life, qualcosa tipo “Preferirei vederti morta, ragazzina, che vederti con un altro uomo”. Mick Jagger disse che non eravamo dei buoni performer. Ma non ci ha mai visti al nostro meglio a Liverpool o ad Amburgo. Eravamo la migliore band sulla piazza. Conosco le prime canzoni rock’n’roll meglio di quanto conosca quelle che ho scritto io».
La gran parte del tempo, però, John si comportava da iconoclasta. Era come se, presa la decisione, non riuscisse a distruggere il personaggio del Beatle abbastanza velocemente, o in modo sufficientemente oltraggioso. Mi disse che non voleva essere «uno dei quattro dèi sul palco» e perciò invitò la stampa mondiale per una settimana ai piedi del suo letto durante la luna di miele «per aiutare la pace nel mondo». Quindi, incurante del fatto di essere stato ampiamente ridicolizzato, per non dire del rimprovero della sua formidabile zia Mimi per «essere stato un esibizionista», apparve nudo con Yoko sulla copertina di un album di musica elettronica chiamato Two Virgins, prima di andare a caccia di controversie con una serie di litografie erotiche raffiguranti Ono e a volte lui stesso. «Perché disegni così tanti cunnilingi?», gli chiesi durante il viaggio per il Canada mentre gli passavo le litografie affinché le firmasse. «Perché mi piace», sogghignò allegramente l’uomo che un tempo portava i capelli a caschetto. La polizia di Londra avrebbe chiuso in seguito la sua esibizione in una galleria del West End. A loro non piaceva.
In quel periodo ad essere accusata pubblicamente della fine dei Beatles era Yoko, e di certo lei avrebbe potuto comportarsi con più tatto. Ma non era che uno dei tanti elementi catalizzatori. E John, da quel che sento dalle mie cassette, era completamente infatuato da lei, da quest’artista sexy e misteriosa che ben s’accompagnava all’insicurezza buffonesca che c’era in lui. «È stata Yoko a cambiarmi», la stuzzica nel corso di una conversazione nel 1970. «Mi ha forzato a diventare avant-garde e a spogliarmi quando tutto ciò che volevo era diventare Tom Jones. E ora guardami! Lo sai che avant-garde in francese significa stronzata?». E va avanti, riferendosi a come lei aveva iniziato ad unirsi a lui sul palco: «Dobbiamo suonare solo quattro battute quando lei prende il microfono e inizia: “Aggghhh!”. Portala dove vuoi e replicherà il numero per te».
In sottofondo sento Yoko ridere. Era la sua complice.

Il John Lennon che registrai è un uomo molto divertente che ama dipingersi ironicamente come la vittima sdegnata delle sue stesse storie. «Hai letto che il Time descrive George come un filosofo?», mi chiese un giorno. «E c’è un articolo del Times, che ho seriamente pensato di spedire ovviamente in modo anonimo a Pseuds Corner (una rubrica del giornale satirico Private Eye, ndt), che dice che Paul è un grande musicista. Uno è un filosofo, l’altro un grande musicista. E io che sono?».
«Il pazzo?» suggerii.
«Sì, sono il pazzo. Che se ne vadano affanculo».
Oggi Lennon sarebbe una star comica con la tendenza all’autoironia. Essendo appena tornato da una seduta terapeutica di “urlo primario” in California nel 1970, era più che mai loquace. Fosse stato un comico, avrebbe dedicato un tempo intero del suo spettacolo a quel che spinge gente come lui a voler diventare famosa. «Eccoti sul palco come un capro espiatorio che aspetta di essere lapidato. È come mettersi continuamente alla prova per dimostrare che sei bravo a sufficienza per mamma e papà. Sai, una cosa tipo: se mi metto a testa in giù, scoreggio e suono la chitarra e ballo e gonfio palloncini e divento baronetto e canto She Loves You, se faccio tutte queste cose mi amate?». Era il tipico farneticare di Lennon, ma nel dire quelle cose non faceva che sorridere.
In un’altra occasione, parlando della sua Not A Second Time contenuta nel secondo ellepi dei Beatles, nel corso di una conversazione dedicata alla sua musica, dice: «È quella al cui proposito quel cazzo di idiota di Thomas Mann (intendeva William Mann, il critico musicale del Times, nda) parlò di cadenza eolia per il finale come nel Canto della terra di Mahler. Erano accordi come altri. Non era che la prima stronzata intellettuale scritta su di noi». E dopo un’abile pausa: «Nonostante ciò, so quanto aiuta avere stronzate intellettuali scritte su di te».
Più tardi, spiegando che una delle sue canzoni preferite del suo repertorio, You Can’t Do That, era un tentativo di imitare Wilson Pickett, si fa fintamente addolorato e ammette che «diventò un lato B perché Can’t Buy Me Love (la canzone di McCartney, nda) era così buona, cazzo». Sì, con Paul era competitivo e, quando le relazioni fra i due si erano guastate, arrivava ad essere ingiurioso, come evidenziato dal verso di una canzone sul suo ex partner contenuta nell’album Imagine: «Il suono che produci è muzak alle mie orecchie». Paul dovette soffrirne e persino John, pochi mesi dopo a New York, avrebbe fatto un’ammissione un poco contrita: «Suppongo di essere stato un po’ pesante con lui…». Ma, come spesso diceva, «non erano che parole scappate dalla bocca in quel momento». In verità, aveva sempre saputo quanto era bravo Paul, senza per questo apprezzare ogni cosa che faceva. «In vita mia ho chiesto a due sole persone di lavorare con me», diceva vantandosi delle sue capacità di talent scout. «Uno era Paul McCartney, l’altra Yoko Ono. Niente male, eh?». Ricordo, anzi, che un giornalista di un giornale underground fece un commento sprezzante sulla canzone di Paul Let It Be, dando per scontato che John fosse d’accordo. Non lo era. «I Beatles eravamo Paul e io», mi diceva con enfasi, in privato. «Le canzoni le scrivevamo noi due». Circa il suo debito nei confronti del giovane McCartney, era davvero generoso: «All’inizio non scrivevo molto materiale, meno di Paul, perché lui sapeva suonare piuttosto bene la chitarra. Anzi, mi ha insegnato molto dello strumento».
Chi vede John come il più favoloso dei favolosi quattro dovrebbe rifletterci su: Lennon ammetteva pacificamente e felicemente quando era debitore nei confronti di McCartney. Mentre esprimeva giudizi lusinghieri su alcune delle canzoni di Paul – gli piaceva in particolare For No One: «Era una delle sue migliori. Quelle che gli venivano meglio sono effettivamente le canzoni semiclassiche» – poteva liquidare in modo disarmante molte delle proprie. «I Am The Walrus non significava niente», dice, gettando nel cestino delle cose inutili il lavoro di una generazione di beatlesiani che hanno tentato di decifrarne il testo; odiava da sempre Yes It Is, non pensava di avere interpretato particolarmente bene Lucy In The Sky With Diamonds («Ero talmente nervoso da non riuscire a cantare, ma le parole mi piacciono») e ammetteva che lui e Paul rifilavano le canzoni più scadenti a George e Ringo perché le cantassero loro. Ma il pezzo che suscitava la sua massima ira è It’s Only Love, da Help!. «È la canzone più imbarazzante che abbia mai scritto. È tutta in rima. Il testo è disgustoso. Anche allora ero così imbarazzato dalle parole che quasi non riuscivo a cantarle. Ecco, questa è la canzone che vorrei non avere mai scritto», dice. Poi, dopo un’altra pausa comica: «Beh, potrei dire la stessa cosa di altre mie canzoni». E quelle che gli piacevano? «Across The Universe era una delle mie preferite. La diedi in prima battuta al WWF, ma non ne fecero granché, quindi la inserimmo nell’album Let It Be. Non ha avuto una gran fortuna come disco, ma forse il testo sopravvivrà. E Strawberry Fields Forever significava molto per me. Come Together è un’altra delle mie preferite. All’inizio era una canzone-slogan per la moglie di Timothy Leary, ma non sono mai riuscito a finirla. Tutti pensano che significhi “Uniamoci in pace”, ma c’è anche quell’altro significato!». In definitiva era orgoglioso di molte sue creazioni: In My Life, I’m A Loser, Girl… «Mentre ero in terapia mi fu chiesto di dare un’occhiata a un libro contenente tutte le canzoni che avevo composto, verso per verso. Non potevo credere di averne scritte così tante».
È interessante notare – me ne sono accorto solo dopo avere riascoltato i nastri – che per quanto John criticasse pubblicamente Paul, quest’ultimo non ha mai criticato Lennon, per lo meno nelle interviste in mio possesso. Anzi, il contrario: «Su Abbey Road mi sarebbe piaciuto fare le armonie vocali con John, come ai vecchi tempi. E credo che anche a lui sarebbe piaciuto. Ma ero troppo imbarazzato per chiederglielo».

Avrei sempre voluto essere coinvolto nella vita dei primi Beatles, quelli più felici, ma il mio ruolo è stato raccontare l’atto finale della loro carriera e osservarne le conseguenze anzitutto, ma non esclusivamente, con John. Ci furono momenti bizzarri e rivelatori in quel periodo. Visitando un villaggio di nativi americani nell’Upstate New York anche lui mostrò che, con tutto il suo entusiasmo, era capace di uscite fuori luogo. «Quand’ero bambino a Liverpool e guardavo i film di indiani e cowboy, ero sempre dalla parte degli indiani», disse ai presenti senza rendersi conto di quanto condiscendenti suonavano quelle parole.
Sono sicuro che quando disse di volere divorziare dai Beatles non immaginava quanto complicata, e costosa per tutti quanti, si sarebbe rivelata l’operazione. Ma per l’ottobre 1971, quando viveva a New York, aveva cominciato a farsene un’idea. Mi chiese di fare da intermediario e mi consegnò un messaggio per Paul in cui proponeva di risolvere almeno una delle loro controversie senza coinvolgere né il suo manager Allen Klein, né Lee Eastman, manager di Paul e padre di Linda McCartney. Tornai a Londra e consegnai il messaggio, ma alla fine non si poté evitare che fossero gli avvocati a risolvere la questione.
Ascoltare i nastri e risentire dopo tanti anni la voce cantilenante di John ha riportato a galla alcuni ricordi vividi. Ma l’impressione più marcata che rimane da quelle interviste è la vitalità dell’uomo e il modo di parlare tipicamente inglese che possedeva, quella maniera di essere ironico eppure impassibile. Era una persona molto generosa e diceva: «Non riesco a pensare ai soldi. Piovono e spiovono. Ho sempre voluto essere un milionario eccentrico: ora lo sono». Mi faceva ridere quando parlava della sua educazione: «Se ne avessi ricevuta una migliore, non sarei quel che sono. Quando ero alla scuola secondaria pensavo che un giorno avrei frequentato l’università, ma non ricevetti nessun diploma. Mi iscrissi allora alla scuola d’arte pensando che sarei finito alla Slade (un celebre istituto d’arte londinese, ndt) e sarei diventato un fenomeno. Neanche lì mi adattai. Sono sempre stato un tipo strambo, mai amabile. Sono sempre stato Lennon!». Lo sento come sempre schietto quando gli dico che dovrebbe scrivere un musical: «No, niente musical. Li detesto. Mai avuta intenzione di scriverne uno. Mio cugino mi ha costretto a vederne un paio. Li odio. Mi annoiano da morire. Sono orribili. Persino Hair lo è. Le musiche sono immancabilmente scadenti». Chissà che cosa avrebbe pensato di Love, lo show di Las Vegas del Cirque du Soleil basato sulle canzoni dei Beatles. Quel che mi disse di un gruppo di Hare Krishna che stava dipingendo un piccolo tempio nella tenuta di Tittenhurst Park vicino ad Ascot, che per breve tempo fu la sua residenza, è puro Lennon: «Ho dovuto licenziarli. Erano carini e gentili, ma non facevano che andarsene in giro a dire “pace” tutto quanto il tempo. Mi facevano diventare pazzo. Non riuscivo a stare in pace, cazzo».
Infine, ecco il John sinistramente profetico del 1970: «Non butterò via la mia esistenza come ho fatto sinora vivendo a mille chilometri l’ora. Devo imparare a non farlo, perché non voglio morire a 40 anni».
Aveva 40 anni e due mesi nel 1980, quando venne ucciso da un fan squilibrato a New York. Il giorno dopo avrei dovuto intervistarlo per il Sunday Times.

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