30/04/2009

LENNY KRAVITZ

AMORE E RIVOLUZIONE

Era il 1989. Il muro di Berlino non era ancora caduto e il mondo musicale americano era diviso in una dicotomia tra scena mainstream e underground che pareva insanabile. Non era soltanto una polarizzazione tra star dall’enorme portata mediatica e il pullulante sottobosco indie, ma anche una biforcazione tra musica bianca e musica nera che figure come Michael Jackson e Prince (in modo ortodosso il primo, trasgressivo il secondo) stavano cercando di sanare, così come faceva la nascente scena crossover. Se le radici commiste tra sacro e profano della tradizione black avevano già trovato la loro sintesi in Lovesexy di Prince (1988), a Los Angeles un meticcio newyorchese di buona famiglia (il padre Sy Kravitz era un ebreo produttore televisivo e redattore musicale, la madre era la famosa attrice di colore originaria delle Bahamas Roxie Roker, la Helen Willis della fortunata serie dei Jefferson) dava origine a un sincretismo sonoro peculiare. Considerando che a Los Angeles, dove nell’adolescenza si era trasferito con la famiglia, la scena dell’hair metal stava lasciando spazio al rock bastardo dei Guns n’ Roses e dei Jane’s Addiction, Leonard Albert Kravitz appariva come un extraterrestre: un neohippy dalla folta chioma di dreadlock che cantava come John Lennon e suonava la chitarra come Jimi Hendrix. Quando il video di Let Love Rule uscì su Mtv il verbo di questo strano personaggio sembrò così nuovo da non essere compreso.
Chi era questo fricchettone né nero né bianco che in era di edonismo post reaganiano parlava d’amore con toni alla flower power ed esibiva una fisicità alla Prince? Che tra i fasti del punk-rock più nevrotico e del minimalismo indie pigliava a piene mani dagli anni 60 unendo con enfasi funk, rock acido e soul sussurrando frasi come «l’amore è delicato come una rosa, e l’amore può vincere qualunque guerra: è ora di prendere posizione, fratelli e sorelle, unite le mani, dobbiamo far trionfare l’amore», manco fosse a un lennoniano sit in di protesta?

Lenny era cresciuto frequentando il migliore ambiente culturale newyorchese, ascoltando jazz e rhythm & blues, andando a vedere con il padre i concerti dei più grandi artisti. «Rimasi basito dai Jackson 5. Volevo essere come loro». Quando i genitori si trasferirono nella città degli angeli, entrò a far parte del prestigioso California Boys’ Choir. Si diplomò dopo tre anni di corso e, poiché la sua voce stava cambiando, decise di dedicarsi alle sue vere passioni: la chitarra elettrica, il basso, la batteria, il rock, il funk e il soul. Avrebbe in seguito dichiarato: «Quando uscì Let Love Rule i critici mi trovarono derivativo rispetto ai Beatles, ma non erano state le armonie dei Beatles ad influenzarmi, quanto quelle del coro». Negli ascolti era onnivoro, anche se prediligeva Stevie Wonder, John Coltrane, Jimi Hendrix e John Lennon. La madre gli trasmise una profonda fede in Cristo, che avrebbe conservato per tutta la vita anche nei momenti più oscuri di perdizione (porta tatuati sulla pelle una croce e la scritta: «My heart belongs to Jesus Christ»). Quando nel 1978 riuscì a frequentare uno dei corsi di musica più esclusivi della California era ancora un rampollo di buona famiglia come il suo compagno Saul Hudson, lo Slash dei Guns n’ Roses che avrebbe partecipato al suo secondo album Mama Said. «Era un periodo in cui cercavo di costruirmi un’identità e il mio mito era David Bowie. Passai da essere un bravo ragazzo dell’upper class a un punk, anche se nel cuore ero un hippy di buoni sentimenti». Il bisogno di emanciparsi dalla famiglia di origine e di crearsi un personaggio lo portò intorno al 1979 ad andarsene di casa dopo una lite con il padre e a cambiarsi il nome in Romeo Blue (lo abbandonò nel 1988 in occasione del contratto con la Virgin). «Nel 1979 vidi Prince, ed ebbe un grande impatto sulla mia vita». Comunque, per un po’ dormì da amici, poi sul sedile posteriore di una Ford Pinto, esperendo nel frattempo la vita vera, non quella protetta ed elitaria del suo ambiente d’origine. Decise di dedicarsi alla sua passione e, malgrado il diploma alla scuola superiore, non andò all’università, utilizzando i soldi che il padre aveva destinato alla sua educazione per finanziarsi un demo, un misto di new wave, Prince e Rick James cui partecipò anche il cugino Gerry DeVeaux, suo futuro collaboratore. «Mi dicevano che il suono non era abbastanza nero, o abbastanza di moda, ma io non volevo svendere la mia integrità». Nel 1985 i genitori si separarono, e Kravitz per superare lo shock si buttò ancora di più nella musica. Nello stesso periodo nel backstage di un concerto dei New Edition incontrò quella che sarebbe diventata la sua soulmate e la sua musa, Lisa Bonet, attrice già affermata grazie al ruolo di Denise nei Robinson. «Diventammo inseparabili. Era anche lei di origini ebreo-caraibiche: come vedere me stesso allo specchio. Mi trasferii nella sua splendida casa a Venice e mi sentii subito così ispirato che incominciai a scrivere senza tregua». Quei brani sarebbero finiti in Let Love Rule, totalmente dedicato al suo amore per Lisa. «Decisi di seguire unicamente il mio estro e, siccome a Los Angeles non riuscivo a trovare un contratto discografico che mi garantisse piena libertà artistica, ci trasferimmo a New York». Nel novembre 1987 un titolone apparve sui tabloid di gossip: «Lisa Bonet sposa il rocker Romeo Blue». I due non avevano avvertito neppure le rispettive famiglie e si erano sposati a Las Vegas. Nel dicembre 1988 sarebbe nata Zoe. «È stata l’esperienza più forte e pura della mia vita. Iniziai a piangere» avrebbe dichiarato il neopapà. Comunque per la stampa Kravitz appariva ancora come un principe consorte, uno sconosciuto arrivista, anche se l’uscita del primo album avrebbe cambiato tale percezione. Nella Big Apple Lenny incontrò Henry Kirsch, un ingegnere del suono che amava come lui l’analogico e che aveva gli stessi gusti musicali eclettici. Kirsh ottenne i soldi dal padre di Kravitz (che non si fidava dell’incostanza del figlio) per finanziare il primo album. Con Henry come supporto tecnico, alle tastiere e al basso e Lenny che suonava quasi tutto il resto, chiusi ai Waterford Studios nel New Jersey, i due diedero vita a Let Love Rule. Kirsch disse: «Le canzoni prendevano forma nutrite dalla nascente love story con la Bonet e io lo incoraggiai a seguire il suo istinto a dispetto di tutti. Poi iniziai a parlare con alcune case discografiche, e la Virgin si dimostrò interessata». Kravitz: «Ero incredibilmente innamorato, e il disco era tutto sull’amore. Stavo cambiando e liberandomi da ogni sovrastruttura. Volevo solo comporre le canzoni che sentivo dentro».
Alla Virgin intuirono il potenziale dell’artista e gli offrirono la distribuzione del disco. «Mi dissero che non sapevano come promuovermi perché non sapevano in quale categoria mettermi. Così non mi proposero una vera strategia di marketing, ma mi piacque il fatto che si fidarono del progetto, e fu per questo che non cedetti ad altre etichette. Con il senno di poi quell’album suonava così diverso da quello che andava di moda allora, che fu una vera fortuna che venisse distribuito. Era un disco di pace e poesia quando andava la musica velenosa e piena di rabbia».

Col suo miscuglio peculiare di rock acido, melodia, funk e psichedelia, Let Love Rule fu interamente scritto e prodotto dal musicista ventiquattrenne che mescolava Hendrix, Marley, Mayfield e Lennon. Come Prince, con cui condivideva la versatilità stilistica, la capacità compositiva e tecnica (erano degli one man band) e il connubio di sensualità e spiritualità, sacro e profano, Kravitz aveva la musica scritta nell’anima. «Registrare è una necessità vitale e istintiva, e per questo non credo nelle superproduzioni. Un disco è reale come un diario».
Kravitz venne subito accusato dai detrattori di essere derivativo, un buon collante musicale tra generazioni capace di costruire discreti patchwork. Inoltre, in pieno boom tecnologico, non venne apprezzata la sua dedizione per la strumentazione vintage e l’analogico. Alle critiche rispose che «ogni artista rielabora, almeno in senso subliminale, il lavoro di chi è venuto prima. Nel rock è stato oramai inventato tutto, per cui è inevitabile rifarsi a certe influenze. L’importante è farlo con personalità». Per chi come lui, nato negli anni 60, poté metabolizzare la colonna sonora di Woodstock e della controcultura, i ritmi della Motown e il funk più acido, l’hard rock e le melodie dei Beatles, era inevitabile diventare così. Mi disse nel 2001 quando lo intervistai: «Le nuove generazioni hanno sviluppato altri gusti ma io resto coerente alla mia linea. Mia figlia ha amato le Spice Girls, ma è anche capace di apprezzare i miei vecchi vinili. A volte è questione di sincronia con i tempi. Ad esempio io propongo oggi la stessa attitudine del 1989, con la differenza che ora viene accettata e osannata, allora venne criticata».
L’album uscì il 19 settembre 1989. Non fu un’esplosione improvvisa: negli Stati Uniti arrivò solo al 61esimo posto della classifica di Billboard, ma in Europa divenne subito un disco di culto. A casa sua, vivendo con i suoi musicisti come in una specie di comune, Kravitz si accinse a preparare il live act e, nel gennaio 1990, partì per il primo tour mondiale.
Intanto la vita di coppia aveva subito dei contraccolpi. Le scabrose scene di sesso che Lisa Bonet aveva girato con Mickey Rourke nel film Angel Heart Ascensore per l’inferno avevano oscurato la sua carriera basata sulla figura della brava Denise, e gli equilibri tra i due iniziarono a invertirsi. Finalmente Lenny assaporava il successo («Che bello sentire finalmente i miei pezzi passati alle radio») e decise, malgrado ciò fosse in contraddizione con l’amore per la moglie decantato nell’album, di viversi a pieno il ruolo della rockstar, eccessi compresi (Neneh Cherry scrisse Buddy X pensando a lui, allo pseudonimo che usava negli alberghi mentre tradiva la moglie). Il matrimonio non resse alla forza d’urto e Lenny e Lisa si separarono nel 1991. Come ebbe a dichiarare in seguito, «il mio equilibrio venne completamente stravolto nel momento in cui incominciai a vivere nella follia mediatica. Non mi stavo rendendo conto che il mio matrimonio stava andando a rotoli e quando cercai di rimediare era troppo tardi. Quell’esperienza servì però per toccare con mano i miei limiti e le mie debolezze. Da allora tutti i miei sforzi si concentrarono nel diventare un uomo migliore e un buon padre». Nel tempo gli ex coniugi sono riusciti a trasformare il loro rapporto in amicizia, soprattutto per il bene della figlia. Quando gli parlai mi raccontò di essersi trasferito alle Bahamas con Zoe e il nonno Albert Roker («Lui è il mio fondamento, la mia forza e la mia radice»), proprio perché a quel tempo la Bonet aveva dei grossi problemi personali e non era in grado di fare la mamma. Le cronache parlarono di abuso di crack e altre sostanze.
Quando nell’aprile 1991 uscì invece Mama Said (memorabile la data del tour al Rolling Stone di Milano), che sfoderava un rock ancora più hard, il profeta pacifista dell’album precedente si era già trasformato in una rockstar contraddittoria, che parlava di essenzialità e poi strizzava l’occhio ad eccentrici stilisti, che diceva di snobbare il culto dell’immagine e poi si faceva riprendere in pose sexy dai migliori fotografi delle riviste patinate,  che abbracciava l’idea di un nuovo umanesimo e poi vendeva a Madonna il pezzo Justify My Love lanciato da una megaoperazione multimediale. L’apoteosi la raggiunse dopo Are You Gonna Go My Way, il disco che lo decretò superstar internazionale. Kravitz da lì in poi avrebbe continuato a parlare d’amore venendo nel contempo pizzicato con splendide modelle, giovani starlette (Vanessa Paradis che produsse, ma anche Natalie Imbruglia e Alicia Keys), con superdive come Penelope Cruz e Nicole Kidman (solo per citarne alcune). «È una contraddizione solo in apparenza. Tutto ciò che vivo è reale e ha un ruolo nella mia vita, ma il mio vero amore è mia figlia. Essere padre dà la giusta priorità alle cose, ti aiuta ad uscire dal tuo egocentrismo e autoreferenzialità, anche musicalmente», disse.

La vita scorreva convulsa in un continuo giro di giostra quando uscì Circus, il suo lavoro più oscuro. Era il 1995 e l’adorata madre stava morendo. Quando mancò il 2 dicembre Lenny si trovava in tour in Giappone, protagonista assoluto del circo dello stardom. Quella data segnò uno spartiacque nella sua vita personale e professionale. Si fermò per scavare a fondo nel dolore, per ristabilire i giusti valori nella sua esistenza e, nella rielaborazione del lutto, concepì 5, il suo disco più digitale, che uscì nel 1998 (Thinking Of You venne proprio dedicata alla madre scomparsa). All’uscita di Lenny (2001) mi spiegò, con voce roca e timida, molto lontana da quella del soul-rocker cui eravamo abituati: «La morte di mia madre ha cambiato tutto. Ha poca importanza che io usi l’analogico o il digitale, perché le mie canzoni raccontano sempre e comunque la mia vita. Improvvisamente mi sono reso conto che stavo vivendo come un pazzo, in un Circus che mi stava allontanando dai valori veri. Così ho detto basta e ho cambiato la mia esistenza in modo da passare più tempo con mia figlia, ho cercato di riportare le cose a un livello di semplicità ed essenzialità scardinando le “mascherate” del music-biz e circondandomi di persone vere. L’autenticità per me ora è diventata irrinunciabile, tanto che passo molto tempo alle Bahamas, luogo sacro dei miei antenati. Lì, nella mia capanna isolata sulla spiaggia, a contatto con le forze primarie della natura, riesco a connettermi con le muse. La musica è già scritta in qualche luogo superiore e il compito del musicista è soltanto quello di canalizzarla. Anche i miei Roxie Studios di Miami sono costruiti in modo da rispettare tale esigenza. Nell’arte come nella vita amo spingermi agli estremi, portare una situazione ai limiti fino a farla scoppiare per poi ridurla ai minimi termini. Solo così raggiungo l’essenza». Umile e mai supponente, l’uomo tutto muscoli, tatuaggi, piercing e pailette spiegava che il suo verbo era un mantra di pace che trascendeva l’immagine. «Quella è solo la confezione esterna. Dopo Are You Gonna Go My Way avevo perso la bussola, giravo come una trottola da un party al palco senza più sapere dove fossi. Il lutto mi fece capire che la vita è troppo breve e preziosa per sprecarla in un mondo di finzione. Con l’aiuto della musica, di Dio e di mia figlia mi sono ritrovato. Ora lotto per difendere la mia privacy e affronto le paure e i conflitti con la fede. A un certo punto devi decidere che tipo di persona vuoi essere e comportarti in modo coerente. Sono convinto che ciascuno è l’artefice del proprio destino, anche se a volte si va avanti per tentativi, come nelle canzoni: sperimenti, sbagli e riprovi senza perderti d’animo».
Questa attitudine è stata perpetuata attraverso i successivi lavori (Baptism, 2004 e It Is Time For A Love Revolution, 2008), che sancirono la redenzione definitiva, personale nella fede e sociale, anche se i tabloid di gossip lo prendono ancora di mira, come una delle celebrità più interessanti. «Ci sono così tante questioni al mondo più importanti del successo e che meritano attenzione. È davvero triste che le persone, invece di impegnarsi a migliorare la propria esistenza, si concentrino su quella altrui, anche quando questa è raccontata dalle bugie dei media. Non comprendo questo meccanismo, che è anche il segnale di un profondo vuoto di valori all’interno della nostra società. Il fatto che vengano osannati personaggi dal dubbio spessore rivela che esiste un buco nell’anima della gente».
La verità del cantante si legge anche nei suoi testi. In In My Life Today da Circus riferendosi a Gesù diceva: «Ora che l’oscurità è svanita non sono più cieco, ci vedo e non devo più aspettare, perché questa è la libertà». E in Let Love Rule: «L’amore trascende spazio e tempo… non lo senti anche tu? Non può fallire».

Dopo aver sperimentato successo, fama, denaro, donne, ora prevale il Lenny più spirituale, quello che avendo perso il ruolo di figlio (recentemente gli è morto anche il padre) osserva la ciclicità eterna dell’esistenza attraverso il rapporto privilegiato con Zoe. «Passiamo così tanto tempo a lottare con i fantasmi del passato o a proiettarci nel futuro che ci perdiamo l’importanza del momento. L’ho compreso analizzando il rapporto con mio padre, che era sempre stato conflittuale, ma che alla fine della sua vita si era tradotto in una meravigliosa armonia. All’improvviso il passato veniva trasceso e trasmutato e, visto che il futuro per noi non esisteva, abbiamo colto la bellezza di quell’istante presente. La tristezza per la sua perdita alla fine si è trasformata in un sentimento elevato di bellezza cosmica, come ho descritto in A Long And Sad Goodbye». E ancora, decantando la sua fede in Dio: «Credo che un segreto nella vita sia accettare quello che Dio ci manda. Accettandomi per quello che sono ho un miglior rapporto con gli altri, amo la vita che faccio. È una grande fortuna fare ciò che si ama. Adesso sono felice. La felicità è saper accettare i momenti, viverli e trovarsi a proprio agio nel farlo».
In quest’ottica e avendo collaborato anche con le migliori star mondiali (con l’amico Sean Lennon in Give Peace A Chance in occasione della prima guerra in Iraq, con David Bowie, Mick Jagger, Aerosmith, Tom Petty, Steve Winwood, Alicia Keys, Sheryl Crow, Erykah Badu e molti altri, più varie produzioni) ci sarà per Kravitz un’esperienza più eclatante delle altre? «L’avere fatto un tour con Robert Plant, il mio mito, non potevo crederci. Dopo così tanti anni riesce ancora a divertirsi con ciò che fa, una grande lezione. Si muove nel baraccone del music-biz con intelligenza e humour. Mi ha insegnato a non prendermi troppo sul serio, a rilassarmi quando ero perennemente preoccupato di dimostrare la mia integrità musicale. Ora quando compongo lascio andare i pezzi, magari li sovrappongo, ed è incredibile come un piccolo elemento in più possa cambiare l’intera alchimia. Anche la band mi aiuta a sviluppare le idee. Siamo così affiatati che certi brani nascono all’unisono. Craig Ross (chitarrista e co-autore, vedi box a pagina 37, nda) e Cindy Blackman (batterista, nda) sono con me dal terzo album. Mi sono stati vicino nei momenti più bui e sono la mia famiglia».
Sacerdote neohippy e guru del nuovo amore universale, patriota sardonico nel rifacimento di American Woman e miracoloso prestigiatore sonoro, attore e vincitore di un’infinità di premi e Grammy Awards, cultore dei film di Antonioni ed estimatore di Miles Davis e Sly Stone, Kravitz è tuttora l’artista che più riprende l’iconografia e i valori dei 60s e 70s. «Per me quegli anni sono esempio di libertà, soprattutto espressiva. Se penso a tutta quella gente variopinta che se ne andava in giro a suonare e recitare, mi viene una gran nostalgia, anche per i vestiti eccentrici di mia madre che spesso rubavo. Quella è stata l’epoca in cui la cultura bianca e nera si mescolavano per la prima volta e nelle classifiche potevi ascoltare le Supremes e Bob Dylan, i Jackson 5 e Simon & Garfunkel, i Beatles e i Temptations, Isaac Hayes e Joni Mitchell. Gente come Al Green, Curtis Mayfield, Aretha Franklin volavano con la musica. Come meticcio cresciuto nella multiculturalità di New York tra l’elegante Upper East Side e i sobborghi di Brooklyn, sono abituato alle commistioni. Ora è tutto stereotipato mentre io voglio continuare a volare».

Sono passati vent’anni da Let Love Rule, un intero ciclo è stato compiuto e per festeggiare l’evento esce ora la deluxe edition dell’album, un doppio con l’originale (ad oggi più di 2 milioni di copie vendute) addizionato a materiale inedito, demo, b-side, più un cd tutto di pezzi registrati dal vivo (vedi box a pagina 33). Seguirà un tour che vedrà quattro date italiane. «Non riesco ancora a credere a quanto sono passati velocemente vent’anni» scrive Lenny sul libretto del doppio cd. «È stato un viaggio surreale ed incredibile e ne ho adorato ogni momento: quelli belli, quelli difficili, le gioie e i dolori. Dentro di me tutto si fonde insieme fino a diventare la deliziosa miscela che è diventata la mia esperienza. Per questa nuova edizione di Let Love Rule ho dovuto riguardare vecchie scatole di foto, di cassette, di souvenir, ed è stato bellissimo immergersi nel passato. Vedo distintamente come Dio mi ha benedetto». Quel messaggio d’amore allora ispirato dalla Bonet e oggi di matrice più universalistica assume, nella appena iniziata epoca di Obama, una nuova rilevanza, segnando una chiusura del cerchio anche storico-politica. Non a caso già il suo ultimo album del 2008 si intitolava It Is Time For A Love Revolution e Kravitz lo spiegò così: «Dal primo giorno della mia carriera ho sempre detto “let love rule”, e l’amore è sempre stato il tema principale di tutti i miei lavori, fosse esso inteso dal punto di vista personale o sociale. Ora penso che sia giunto il momento di diventare ancora più radicali a proposito, visto che il mondo è diventato orribile, e l’avidità e le guerre regnano ovunque. È davvero il momento di riunire le persone nel nome dell’amore. Quel titolo è una dichiarazione, così come il brano Back In Vietnam. Non è per fare il vecchio pacifista che lancia slogan desueti, ma ciò che succede in Iraq è ancora peggio del Vietnam. Non mi sono mai sentito parte di una scena o di un movimento. La mia evoluzione musicale e artistica è sempre andata di pari passo con quella personale, e le mie canzoni hanno sempre riflettuto un’esigenza interiore, non di successo commerciale. Che poi abbiano incontrato anche i gusti del pubblico e i favori del mercato, questo è stato un valore aggiunto. Il vero risultato per me è fotografare con la musica il più onestamente possibile ciò che sono e il mondo che mi circonda. Non devo dimostrare nulla a nessuno, soltanto utilizzare al meglio il dono che mi è stato dato. Sinceramente, fin dai tempi di Let Love Rule, non ho mai pensato a diventare una star, diversamente da molti colleghi che conosco. La musica per me è sempre venuta prima, poco importava se dovevo suonarla in una jazz band, nel gruppo di qualcun altro, per strada o facendo il musicista in studio. Ho sempre sentito di essere un musicista, fin da quando avevo 5 anni». E ancora: «Cerco di trasmettere una vibrazione positiva che possa arrivare a tutti al di là delle parole, un messaggio che infonda fiducia e speranza nell’oscurità umana. Non credo che le canzoni possano cambiare il mondo, ma possono magari penetrare le coscienze aiutando a riflettere. Possiamo trasformare il pianeta solo comprendendo che la vera rivoluzione deve avvenire in noi. In questo senso la musica può agire come la spiritualità, e per me le due forze sono sempre connesse. Dio mi ha dato il grande dono di essere musicista e io lo contraccambio facendolo con la massima serietà. Ho sempre percepito chiaramente il mio ruolo su questa terra, e per seguirlo non devo far altro che mantenere il mio cuore puro, lasciando che le canzoni arrivino. Certo ho avuto nella vita grandi maestri: Bob Marley, John Lennon, il Mahatma Gandhi, Martin Luther King e mio nonno, che è stato un vero saggio. Vorrei che le persone capissero che esiste sempre un’altra possibilità. Pensavamo non ci fosse una via d’uscita dall’abisso in cui eravamo caduti dopo l’11 settembre, e invece ora abbiamo il primo presidente afro-americano della storia». E sul nuovo cofanetto scrive ancora: «In questi anni sono cambiate tante cose, ma il cuore di tutto è immutato, la mia passione per la musica non è diminuita. Forse mi sento persino più affamato, più pronto ad esplorare. Grazie a tutti quelli che hanno intrapreso questo viaggio con me. Abbiamo appena iniziato: i prossimi  vent’anni non saranno da meno».

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