Dolore = ispirazione. Decine di band hanno costruito una carriera su questa equazione. Gli Alice In Chains erano i professori della matematica del malessere esistenziale. Oggi non più. Jerry Cantrell racconta su JAM di luglio/agosto che si può essere sereni e ispirati finché la musica resta un esorcismo personale. Ecco un estratto dell’intervista.
Quando ci incontrammo in occasione di Black Gives Way To Blue mi dicesti che quell’album segnava la vostra sopravvivenza. Eravate morti e rinati e per te era stata una bella sfida credere ancora negli Alice In Chains senza Layne Staley. Ora, dopo la dimostrazione d’affetto mai sopito da parte dei fan e il riconoscimento globale del vostro valore anche con William Duvall, in che luce collocheresti quest’ultimo disco?
«È l’album della conferma della nostra identità come band. Durante la gestazione di Black Gives Way To Blue ci sentivamo insicuri e ci chiedevamo se il pubblico ci avrebbe ancora apprezzati, dunque eravamo un po’ sotto pressione, mentre per The Devil Put Dinosaurs Here abbiamo lavorato in assoluta rilassatezza e totale spontaneità, con un’alchimia collettiva totale che si è rafforzata durante le innumerevoli date che abbiamo fatto dal vivo».
Il disco è ancora più corale, soprattutto le parti vocali, e organico. Si sente il vostro affiatamento, ma nel contempo siete riusciti ad elargire anche una certa durezza selvatica e grezza. Come ci siete riusciti?
«Non c’è stato nulla di pianificato. L’effetto selvaggio deriva dal fatto che molte delle idee per i brani sono state partorite on the road, e dunque hanno risentito dell’impatto live. Poi in studio sono state rielaborate, rese più corpose in alcuni punti e più levigate in altri, fino a ottenere un risultato omogeneo. A ciò ha contribuito il nostro produttore di vecchia data Nick Raskulinecz, che ci conosce bene e che dunque sa esattamente dove vogliamo andare. Il valore aggiunto del nostro gruppo è che oramai funzioniamo come una grande famiglia, il che ci consente di lavorare anche nei momenti e nei posti più impensati».
Tu Jerry hai avuto seri di problemi di salute. Da quel che so sei stato operato a una spalla e hai sofferto di polmonite, davvero non un bel periodo in cui concepire un nuovo disco…
«È vero. Stone ad esempio è stata scritta mentre non stavo bene, ma sono abituato a sfidare la vita e onestamente mi sono risollevato da periodi ben peggiori di questo. Quindi non mi sono lasciato scoraggiare».
Tu e William vi siete dedicati sia alle chitarre che alle voci. Ti senti più a tuo agio come chitarrista o come cantante?
«Non sono per natura un frontman come Layne e dunque fare il chitarrista mi consente di starmene più defilato, il che rispecchia di più la mia personalità. A William viene invece naturale stare al centro della scena e cantare, e in questo senso è molto simile a Staley. Per me non è mai stato facile fare il cantante. Layne era così eccezionalmente pieno di talento che mi sentivo sempre inferiore, anche se lui mi incitava, mi dava fiducia, così con il tempo ho acquisito sicurezza. Duvall e Layne si assomigliano. Sono due bombe a orologeria la cui energia è pronta a esplodere on stage. William viene dalla scena hardcore, dove devi eruttare lapilli in poco tempo, mentre il mio approccio preferito è più intimista e cantautorale».