18/05/2024

Little Albert, “The Road Not Taken”

Il chitarrista dei Messa ci parla del suo secondo album solista, della sua musica, di blues e…

 

Si sente spesso dire che la nuova scena rock italiana ha poco da raccontare, che ci sono pochi progetti validi. Ma non è questo il caso.

Tra gli artisti più intriganti tra le giovani leve spicca Little Albert, alias di Alberto Piccolo, chitarrista blues tra i più interessanti, capace di muoversi tra blues appunto, jazz e improvvisazione. Il 29 marzo è uscito il suo secondo disco The Road Not Taken, sotto l’etichetta Virgin Music / Universal Music Italia. Un disco ispirato e figlio dell’interiorizzazione dell’epoca d’oro del rock, ma non privo di un taglio personale. Abbiamo colto l’occasione per fare quattro chiacchiere con Albert in merito al disco, sulla carriera e su cosa pensa della scena blues italiana.

 

Com’è nato The Road Not Taken?

I brani li ho scritti in un arco di tempo abbastanza lungo, circa quattro anni. Non mi fermo mai, scrivo continuamente; metto da parte le canzoni e poi decido: “Ok, questo è un disco”. È un po’ una raccolta di canzoni che parlano di cose diverse: fare delle scelte, una storia d’amore, di salute mentale. Sono tutti pezzi abbastanza autobiografici. Scrivere per me è come una valvola di sfogo, come se raccontassi cose mie anche se attraverso le parole di Sara (Sara Bianchin, voce dei Messa, gruppo in cui alla chitarra figura proprio Alberto Piccolo, ndr). Ho suonato le cose che mi venivano spontaneamente: prendo la chitarra, non penso a niente e suono. Il disco è un po’ istintivo sotto questo aspetto.

 

Ascoltando i diversi brani che compongono il progetto si sentono molte sfumature diverse. Cosa ti sei portato dietro degli ascolti che ti hanno formato?

Alcune influenze sono abbastanza evidenti, come i Cream o Jimmy Page, in generale il rock di fine anni ’60 e inizio ’70, e il blues inglese tipo John Mayall. Sono influenze di cui mi accorgo più dalle recensioni, perché quando improvviso è difficile rintracciarle. Ci sono un paio di pezzi in cui mi sono ispirato ai Graveyard, che hanno pubblicato questo disco nel 2011, Hisingen Blues, che considero abbastanza perfetto. Mi hanno fatto dire: “C’è ancora qualcuno che fa il rock come negli anni ’70”. Mi riferisco ad esempio a See My Love Coming Home, anche se quest’ultimo è diventato più country-western dopo. Il mio non è un disco in cui la ricerca della novità è fondamentale: volevo fare qualcosa che mi piacesse.

 

Cosa vuol dire fare questo genere di musica nel 2024?

Devo dire che mi sento sempre un po’ un pesce fuor d’acqua. Mi sono sempre sentito così per tutta la mia vita fino ad ora, quindi lo trovo coerente con il resto. Spesso ci sono band che sono quasi delle cover band, suonano un determinato genere e sembra che facciano dei pezzi che non hai ancora sentito di formazioni a cui si ispirano. Ad esempio, alcuni amano i Led Zeppelin e i loro pezzi sono come un’imitazione degli originali. Quello che cerco di fare io è prendere quel sound e creare qualcosa di attuale, sfruttando quella forma compositiva ma senza scimmiottare. Voglio creare qualcosa che abbia ancora cose da dire oggi. Ha una patina vintage, ma credo che sia ancora molto attuale.

 

Prima di conoscerti per la tua produzione solista in molti probabilmente ti hanno conosciuto come chitarra dei Messa. Come fai a scegliere a quale progetto dedicare i brani che scrivi?

Scrivo sempre e metto tutto in un calderone unico, dove il lavoro di smistamento viene fatto a posteriori. A volte capita che io sappia in anticipo cosa va dove. È come se avessi diverse personalità nello scrivere e poi spetta a me mettere ordine e proporre la canzone giusta per il progetto giusto.

 

La situazione per la musica dal vivo in Italia non è delle migliori, se si esclude il mainstream. È vero che ci sono meno spazi per suonare dal vivo?

Ci sono sempre meno locali. I posti chiudono e non c’è più il giro di una volta. Basta vedere i tour degli artisti internazionali: spesso attraversano l’Europa, ma evitano l’Italia. È un segnale evidente. Il valore della musica sta un po’ scadendo e il sud Europa ne risente forse un po’ di più. Tuttavia, frequentando anche l’ambiente punk e metal, c’è molto da imparare da quel mondo: l’auto-organizzazione. In mancanza di un mainstream o di proposte da grandi enti, le persone che seguono quei generi si sono organizzate tra di loro, creando collettivi che organizzano concerti. I fan vanno ai concerti anche senza conoscere chi suona, si sostengono a vicenda, comprano dischi e merchandise, che sono vitali per sostenere un progetto. Magari la scena blues facesse lo stesso… non capisco perché non si possa fare così.

 

Si sente spesso dire – a torto – che il rock in Italia non c’è mai stato … e che non c’è neanche oggi. Che ne pensi?

Come in tutti gli aspetti della vita le cose bisogna cercarle. Non è che saltano fuori da sole, non c’è una selezione fatta a grandi livelli. Ora tutto è frammentato in mille scene indipendenti e, avendo tutti accesso a tutto, per trovare qualcosa di bello devi cercare nei canali giusti; non è più il canale che viene da te. Serve pazienza, saper ascoltare e essere aperti al nuovo.

 

Little Albert - The Road Not Taken

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