Si chiama Artie Kornfeld, ha 66 anni e vive a Delray Beach, Florida, con la moglie Caroline e un sacco di gatti. Conserva lo stesso entusiasmo (ma anche la medesima determinazione) di quei giorni dell’estate del 1969. Anche per questo è considerato un eroe dagli attivisti della Woodstock Preservation Alliance, un manipolo di coraggiosi e nostalgici guidati dal prode Brad Littleproud che, dal 2004, si batte affinché il luogo originale del festival ritorni accessibile a tutti e non soltanto di proprietà del Bethel Woods Center For The Arts (vedi box a pagina 41). Per loro, Artie è «the father of Woodstock», il papà di Woodstock. Io l’ho visto con i miei occhi, il 1° settembre 2007, al Golden Gate Park di San Francisco durante le celebrazioni dei 40 anni della Summer Of Love. «Sono quello che ha organizzato la Woodstock originale», ha urlato appena salito sul palco di fronte a più di 100 mila vecchi e nuovi hippy, precisando subito che non c’entrava nulla con l’edizione del 25ennale e neppure con l’infausta rievocazione del 1999. Con entrambe, invece, c’entrava (eccome) Michael Lang suo socio e co-ideatore della prima, grande tre giorni di pace, amore e musica della storia. Lang che oggi, dopo alti e bassi, è nuovamente grande amico di Kornfeld.
«Vuoi sapere la verità su Woodstock?», mi chiede Artie nel corso di una delle numerose telefonate che ci siamo fatti negli ultimi tre mesi. Kornfeld è un tipo diretto ma non certo uno di poche parole, anzi… Ti travolge con milioni di aneddoti, divagazioni sul tema, arrabbiature, polemiche e slanci di entusiasmo. «Non dare retta alla storia dello studio di registrazione, sono tutte cazzate. Ti spiego io com’è andata. Un giorno» inizia a raccontare «la mia segretaria alla Capitol Records (a soli 21 anni, Kornfeld è in quei giorni il più giovane vicepresidente nella storia dell’industria discografica americana, nda) mi dice che un certo Michael Lang vuole vedermi. “Ha un appuntamento?”, chiedo io. “No”, mi risponde lei, “dice però di riferirti che anche lui viene da Bensonhurst, Brooklyn”. A Bensonhurst ci ho trascorso la mia infanzia: come fai a non ricevere un ragazzo del tuo quartiere? Così l’ho fatto entrare. Assomigliava a Gerome Ragni, l’attore protagonista di Hair: capelli lunghi pieni di riccioli, giacca a frange, blue jeans, mocassini indiani. Michael era il manager di una rock band, The Train (niente a che vedere con l’omonimo gruppo di San Francisco degli anni 90, ndr): voleva che li mettessi sotto contratto. Ma facevano troppo schifo… Ho provato anche a portarli in studio: niente da fare. Però mi divertivo a stare con lui, a chiacchierare, a condividere idee e sogni. Per me, Michael era il re dell’underground: alternativo, competente, adorabile e molto cool. Ben presto, Train a parte, siamo diventati amici. Lui abitava a Woodstock dove aveva affittato una camera. Spesso, però, perdeva l’ultimo bus per tornarci e stava a dormire a casa mia. Abbiamo passato serate piacevolissime, giocando a biliardo e parlando moltissimo: io imparavo le sue idee rivoluzionarie, lui i segreti del music business».
«Una notte» continua Artie «più o meno verso le 2, iniziamo una conversazione che ci appassiona. Parliamo di musica, concerti, eventi. Io cominciavo a essere stanco del mio lavoro in Capitol, sembrava mi stessi allontanando dalla musica vera. “Andiamo al Fillmore East”, mi propone allora Lang. Mentre stiamo recandoci al locale di Bill Graham, gli dico: “Michael, pensa che figata… Se avessimo un paio di milioni di dollari e ci potessimo permettere una specie di concerto privato per pochi intimi, diciamo un centinaio di nostri amici… Beh, potremmo organizzarlo a Broadway, affittare un teatro e farci suonare Hendrix e i Beatles, gli Stones, Creedence Clearwater Revival e Sly Stone. Nessun biglietto: concerto gratuito”. Lang, a quel punto, controbatte: “Più che Broadway, vedrei questa cosa a Woodstock: è da sempre una colonia di artisti e da quando ci abitano Bob Dylan e i musicisti di The Band anche altre rockstar si sono prese una casa lì: Janis, Richie Havens, Paul Butterfield, Van Morrison… per il rock, è il posto più in che ci sia”. È stato allora che Michael, per un momento, mi ha proposto di mettere in piedi uno studio di registrazione. Ma poi siamo tornati all’idea di un festival anche perché Lang aveva lavorato all’organizzazione del Miami Pop pochi mesi prima. Dunque, aveva una certa esperienza. Anche la mia prima moglie Linda, alla quale avevamo raccontato il nostro sogno, era d’accordo: “Se davvero riuscite a mettere insieme un cast del genere” ha detto “rischiate che arrivino almeno 50 mila persone”. In quel momento il nostro pensiero ricorrente ha cominciato a essere un progetto. Ormai, eravamo giunti al punto di non ritorno».
Figlio di Shirley e Irving Kornfeld, Arthur Lawrence Kornfeld nasce a Brooklyn il 9 settembre 1942 ma cresce a Levittown, sempre nei dintorni di New York. Inizia a suonare a 14 anni, quando riesce a comprarsi la sua prima chitarra con il piccolo guadagno da factotum di un autolavaggio. A 16 anni, nel 1958 (in piena esplosione del rock’n’roll) firma il suo primo contratto discografico. Ha la chance di incidere un 45 giri: come musicisti gli vengono affiancati Dion & The Belmonts e come coristi gli Skyliners. Partecipa a un paio di concerti rock organizzati da Alan Freed prima di frequentare l’Adelphi College. Lì diventa amico di una compagna di classe che, come lui, è appassionata di musica e canta benissimo: si chiama Cass Elliott e, di lì a qualche anno, diventa famosa come Mama Cass (The Mamas & The Papas). Poi, Kornfeld entra a far parte del giro del Brill Building, la fabbrica degli hit di Broadway. Con lui ci sono Lou Adler, Gerry Goffin, Carole King, Neil Sedaka. Le sue canzoni cominciano a essere incise da artisti famosi e scalano le classifiche. Insieme ai Changin’ Names registra Pied Piper che diventa numero 1 nel 1964 e se ne va in tour con Sonny & Cher. Ancora prima di “inventare” Woodstock, Kornfeld (come autore, producer, manager o promoter) ha il suo nome su 100 dischi d’oro e di platino. E, quando non ha ancora compiuto 24 anni, ha già scritto 75 canzoni che sono entrate in classifica. Prima, durante o dopo Woodstock, mette sotto contratto, promuove e/o sviluppa le carriere di rockstar del calibro di Sheryl Crow, Santana, Sarah McLachlan, Jack Johnson, Bruce Springsteen, Tracy Chapman, Depeche Mode, Billy Joel, Alanis Morissette, Tom Petty, Bonnie Raitt, Pink Floyd, Aerosmith, Joe Cocker, ZZ Top e di moltissimi altri ancora. «Ma non mi è mai interessato fare carriera», mi dice, «e i soldi sono l’ultimo dei miei pensieri». Anche per questo, sin dall’inizio, Artie usa una colomba bianca nel logo della sua nascente ditta: la Kornfeld Lang Adventures. Gliela disegna Victor Kahn, lo stesso grafico che, in quei giorni, sta curando la copertina di Let It Bleed degli Stones.
Qualche tempo dopo, tramite un amico comune, Kornfeld e Lang vengono a sapere di questi due giovani newyorchesi di cui si mormorava disponessero di «capitali illimitati». O così, almeno, c’era scritto su un annuncio che avevano pubblicato sul Wall Street Journal. Sta di fatto che John Roberts e Joel Rosenman (i due giovani imprenditori con «capitale illimitato») si incontrano con Artie e Michael e decidono di investire 250 mila dollari nel loro sogno di un festival. Nasce in quel momento la Woodstock Ventures e Artie ha una buona scusa per mollare la Capitol. «Il resto è storia», mi dice, «una storia che non ha cambiato soltanto la mia vita: ha cambiato il mondo. Io e Michael ci siamo divisi i compiti: lui si è preso a carico l’organizzazione, io la comunicazione e la promozione. Devo dire che, anche per questo, ho avuto presto la percezione che la cosa ci stava scoppiando in mano. L’entusiasmo per la Woodstock Music Art And Fair era contagioso. Quando poi ho firmato il contratto con la Warner Borthers per il film, ho cominciato a rendermi conto che stavamo per scrivere una parte importante della storia del rock. Infine, nel momento in cui sono salito sul palco, e ho visto tutta quella gente… ho capito. La Woodstock Nation non era più un sogno o un’ingenua utopia: era una realtà».
Non l’ha capito subito Joseph Allen McDonald, un altro che la sua Woodstock experience l’ha vissuta a 360 gradi. Un’esperienza talmente forte e importante che (da allora in poi) ne ha condizionato vita artistica e personale. Nato a Washington ma cresciuto in California, Joe è un ex soldato della Marina americana che nei primi anni 60 si trasferisce a Berkeley, cittadella universitaria e capitale radical d’America. Lì si fa le ossa suonando per strada, a Telegraph Avenue. I suoi genitori, comunisti americani, gli avevano dato il nome Joseph in onore di Stalin (che, si dice, durante la Seconda Guerra Mondiale venisse soprannominato Country Joe). A Joe McDonald quel nomignolo piace e decide di adottarlo: presto anche lui diventa (per tutti) Country Joe. Quando incontra il chitarrista Barry Melton si inventa una delle prime band psichedeliche della baia di San Francisco, Country Joe & The Fish.
Rivoluzionario ma hippy, pacifista convinto eppure rispettoso dei militari, Country Joe è un personaggio anomalo della scena rock di quegli anni. Così come lo è la sua musica, un misto tra il folk di Woody Guthrie e i suoni lisergici dei Grateful Dead, tra la poetica dylaniana e l’avanguardia di Andy Warhol. McDonald è stato il grande amore (maschile) di Janis Joplin con cui ha formato una delle coppie più cool della Summer Of Love. «Ci volevamo bene, ma non poteva funzionare», confessa, «eravamo giovani ed entrambi concentrati sulle rispettive carriere musicali». È Joe a prendere la decisione. «“Va bene stronzo”, mi dice Janis quando le comunico la mia decisione, “prima di piantarmi, almeno dedicami una canzone”. Così ho scritto Janis, il brano che, per sempre, l’ha fermata nella mia mente e nel mio cuore».
«Woodstock mi ha cambiato la vita», mi racconta oggi Joe nella sua casa di Berkeley, la stessa villetta di tanti anni fa, a poche centinaia di metri da University Avenue, «eppure, sino a tre settimane prima, non sapevo nemmeno che ci sarebbe stato un festival. Ricordo quando mi ha chiamato Bill Belmont, discografico leggendario, allora mio manager, che faceva un po’ di consulenza artistica per gli organizzatori di Woodstock. Mi ha proposto di andare perché gli organizzatori avevano preferito noi ai Jethro Tull: io gli ho detto subito di sì. Lo stesso giorno, Gary “Chicken” Hirsh, il nostro batterista, mi ha comunicato la sua intenzione di mollare la band, seguendo in pratica quello che avevano già fatto David Cohen, il tastierista, e prima di tutti Bruce Barthol, il bassista. Fino a quel momento, l’estate del 1969 mi aveva portato soltanto casini: il gruppo si stava sciogliendo, il mio matrimonio stava andando a rotoli, alcol e droghe mi stavano bruciando il cervello e la mia musica faceva schifo. L’occasione di partecipare a Woodstock è stata invece per me motivo di distrazione e di ritrovato entusiasmo. Tanto che ho deciso di recarmi là prima che il tutto iniziasse, nonostante la performance di Country Joe & The Fish fosse prevista per domenica 17, ultima giornata del festival. Avevo fatto la stessa cosa, nel giugno del 1967, a Monterey ed era stato bellissimo perché mi ero goduto quasi tutti gli show di quella prima, indimenticabile tre giorni di rock. Noi musicisti siamo spesso in giro e non riusciamo ad assistere ad altri concerti. Quei festival erano opportunità uniche di vedere artisti straordinari esibirsi uno dopo l’altro. E, da questo punto di vista, il cartellone di Woodstock sembrava davvero irresistibile. Così, giovedì 14 agosto ho preso un volo da San Francisco a New York e, per puro caso, sul mio stesso aereo ho trovato Peggy Caserta, una cara amica di Janis Joplin, con cui ho avuto una piacevolissima conversazione. Un amico comune ci ha portato direttamente a White Lake facendo stradine secondarie perché quella principale era intasata dal traffico. Avendo al collo un pass all access potevo muovermi agevolmente dappertutto. Ho passeggiato in lungo e in largo tra la folla, prima che le condizioni climatiche volgessero al peggio».
Al contrario di quanto affermato da Kornfeld, Country Joe non ha (in quel momento) alcuna percezione particolare sulla portata epocale di Woodstock. Certo, non ha mai visto tanta gente in vita sua e neppure un palco così grande… «Era enorme e bellissimo, l’esatto contrario del backstage che era organizzato malissimo. Non c’era nulla: solo un gran casino e un tavolo con le birre». Non è quindi per caso che Joe si trova sul palco quando finisce il set di Richie Havens, il primo a cominciare perché ha solo due accompagnatori e in tre ci si può far trasportare dagli organizzatori, dall’hotel direttamente al retro palco, con piccoli elicotteri in modo da evitare le lunghe code di automobili che hanno bloccato la Route 17B. «Non c’era nessun altro gruppo o artista pronto a dargli il cambio. John Morris, che era l’annunciatore e lo stage manager, ha visto che ero in zona. È venuto da me e mi ha chiesto se me la sentivo di suonare per una mezz’oretta e, anche se mi trovavo lì impreparato e nemmeno troppo desideroso di farlo, gli ho detto di sì. Ma non avevo con me una chitarra. Dopo un paio di minuti, Morris è tornato con un’acustica giapponese, una Yamaha FG 150, economica ma molto carina. Mi ha anche rimediato una corda, perché non avevo la tracolla. Sono quindi andato di fronte al microfono e ho cominciato a cantare. Il mio set ufficiale, quello con Country Joe & The Fish, era previsto per domenica. Per motivi etici, non volevo suonare canzoni del repertorio del gruppo che avrei eseguito due giorni dopo e così ho fatto Tennessee Stud (un traditional reso celebre da Johnny Cash), Rockin’ Around The World, Flyin’ High e Seen A Rocket, un pezzo che avevo scritto quando ero al liceo. In mattinata, al motel, avevo incontrato Janis Joplin. Pensando a lei, ho suonato il brano che le avevo dedicato quando ci eravamo lasciati. Dopo 20 minuti, però, non sapevo più cosa fare anche perché nessuno sembrava interessato al mio set. La gente era completamente distratta. Così, un po’ in ansia, sono andato da Bill Belmont e gli ho chiesto se per lui fosse una buona idea fare il “F-U-C-K cheer” e poi Fixin’-To-Die Rag. Non so nemmeno perché gliel’ho chiesto, forse avevo solo bisogno di approvazione».
Il “F-U-C-K cheer” non è nato a Woodstock, mi spiega Country Joe. «Chiamandoci Country Joe & The Fish, facevamo fare – a mo’ d’incitazione, proprio come le cheer leader prima degli incontri sportivi – lo spelling di F-I-S-H al pubblico: lettera per lettera fino a formare la parola completa. “Give me an F” (datemi una F), urlavo e il pubblico rispondeva “F”. E così di seguito, una lettera dopo l’altra sino alla domanda finale: “What’s the spell?” (cosa leggete?) e tutti rispondevano “FISH!!!”. Subito dopo, partiva la canzone (I-Feel-Like) I’m-Fixin’-To-Die Rag, che avevo scritto nel 1965 per protestare contro la guerra in Vietnam, un pezzo talmente esplicito da essere bandito da tutte le stazioni radiofoniche d’America perché considerato sovversivo e socialmente pericoloso. Un anno prima eravamo stati invitati a New York per un festival a Central Park sponsorizzato dalla birra Schaefer. Il giorno successivo saremmo stati gli special guest dello show televisivo di Ed Sullivan, il più popolare d’America, quello che aveva ospitato Elvis e i Beatles. Gary “Chicken” Hirsh, il nostro batterista, prima del concerto ha un’idea. Il Chicken è uno che ha sempre avuto buone idee: era stato lui a dirci che, facendo essiccare le bucce di banana, raschiandone via la parte bianca e fumandola, si ottenevano effetti più soddisfacenti di quelli della marijuana. Dunque, tutti noi pendevamo dalle sue labbra. “Ragazzi, cosa dite se, invece del F-I-S-H cheer, stasera facciamo fare al pubblico lo spelling di un’altra parola che ha quattro lettere e inizia per F?”. Non c’è stato bisogno di votare: la mozione del Chicken è stata approvata all’unanimità. E così abbiamo fatto: il F-I-S-H cheer, per la prima volta, è diventato F-U-C-K cheer con totale e divertita partecipazione del pubblico. Non tutti, però, hanno gradito. Alla fine dello spettacolo uno dei dirigenti della birra Schaefer è venuto da me e, a muso duro, mi ha detto: “Signor McDonald, sappia che lei e la sua band avete partecipato a due edizioni del nostro festival, la prima e l’ultima”. Poco dopo, anche due produttori dello show di Ed Sullivan mi hanno raggiunto in camerino. “Signor McDonald, questo è l’assegno pattuito per la vostra partecipazione allo show: tenetelo pure ma non presentatevi domani nei nostri studi”. Da quel momento, però, il F-U-C-K cheer è diventato una tradizione nei concerti di Country Joe & The Fish. Il pubblico se lo aspettava e lo voleva. Ecco perché ho deciso, anche a Woodstock, di farlo. Non sapevo che stavano girando un film, non sapevo che quell’urlo avrebbe acceso il festival, non sapevo che sarei entrato nella storia facendo gridare la parola più scomoda, oltraggiosa e proibita d’America a mezzo milione di giovani. Non sapevo nemmeno che, nel documentario di Michael Wadleigh, avrei dato vita al primo karaoke: ricordate la pallina che saltella sulle parole del testo del Fixin’-To-Die Rag? Non sapevo come la gente avrebbe reagito, tanto che a metà della canzone l’incito ancora di più: “Ma se non siete nemmeno in grado di cantare in coro il ritornello di questo pezzo, come pensate di poter fermare la guerra in Vietnam?”. Non sapevo che, una volta terminato il brano, il pubblico si sarebbe alzato in piedi, entusiasta, e non sapevo che il mio intervento solista si sarebbe concluso in quel momento. Non sapevo, infine, che dopo quei 5 minuti di apparizione, la mia vita sarebbe completamente cambiata».
Da allora, Country Joe ha inciso più di 35 album, fatto concerti in tutto il mondo, composto Section 43, primo brano psichedelico della storia, scritto canzoni ecologiste e a favore dei diritti delle donne e dei più deboli, partecipato a migliaia di raduni pacifisti, denunciato George W. Bush, scritto libri, prodotto documentari. Eppure, tutti si ricordano di lui per quell’urlo sul palco di Woodstock e per quella canzoncina contro la guerra in Vietnam.
Non tutti, forse, si ricordano di lui per quel reportage scritto tre giorni dopo Woodstock, anche perché Greil Marcus è, da molti anni, lo storico del rock più stimato del mondo. L’unico, finora, in grado di dare a questa musica una dignità culturale vera analizzandola all’interno di un più ampio contesto socio-politico.
«Ricordo bene il motivo vero per cui sono andato a Woodstock: poter vedere, in un colpo solo, tutti quei gruppi e quei grandi artisti era un’occasione da non perdere», mi confessa il Professor Marcus, nella pausa di una delle sue lezioni alla Berkeley University. «Non avevo minimamente idea della portata storica che l’evento avrebbe avuto. Per me contava la musica, una parata di stelle che surclassava persino quella del Monterey International Pop Festival di due anni prima. A Woodstock mi sono recato in auto con altri due colleghi di Rolling Stone, un redattore e una fotografa. Grazie ai consigli di alcuni amici che abitavano in zona, siamo riusciti a evitare le lunghe file che intasavano la Route 17B. Siamo arrivati lì venerdì 15 agosto, senza biglietto né accrediti stampa. Ma non abbiamo avuto il minimo problema ad entrare».
Nato a San Francisco nel 1945, Greil Marcus è il primo caporedattore di Rolling Stone, rivista fondata dal suo compagno di college Jann Wenner («Ma guadagnavo solo 30 dollari la settimana»). Dopo essersi laureato in letteratura americana alla UC Berkeley, Marcus prende una seconda laurea in Scienze Politiche e poi si dedica al rock. «Non sono mai stato un hippy», mi dice, «ma ho visto tutti i concerti alla Avalon Ballroom e al Fillmore. A Woodstock la situazione ambientale era dura, lo ha descritto benissimo Michael Wadleigh nel suo film-documentario, solo che alla pioggia e ai disagi generali aggiungo che faceva anche molto caldo. Per fortuna, ero riuscito a raggiungere il backstage e da lì a salire sulla parte laterale del palco. Potevo così godere di una posizione privilegiata e osservare da vicino tutti i concerti. Inoltre, vedere dal palco quella folla enorme era davvero impressionante. La musica rappresentava l’elemento catalizzante. Addirittura, la seconda giornata, notte inclusa, l’ho passata interamente sul palco. Per un po’ ho visto concerti discreti sino a quando sono saliti Crosby, Stills, Nash & Young. La loro esibizione mi ha colpito moltissimo: erano talmente felici di essere lì e al tempo stesso insicuri perché quella era la loro seconda esibizione ufficiale da comunicare tensione emotiva, passionalità, inquietudine. Un misto di sensazioni che non poteva passare inosservato e che si mescolava con armonie vocali deliziose che andavano a impreziosire canzoni bellissime che trasudavano di California. La gente, un oceano di persone, alla fine della loro performance è impazzita. Dal punto di vista musicale, il momento più emblematico è stato lo show di Jimi Hendrix. Io, però, ero già andato via, come la maggior parte del pubblico. Ma la sua versione dell’inno americano è l’unico brano autoctono prodotto da Woodstock che viene consegnato ai posteri come uno dei momenti di arte suprema del XX secolo».
«Finito il festival», continua Marcus, «sono volato in Colorado da mia moglie e lì ho scritto il mio réportage per Rolling Stone. In quel pezzo descrivevo le meraviglie musicali che avevo visto ma soprattutto cercavo di spiegare come il rock aveva trovato una platea gigantesca e che per tutti noi si stava aprendo, com’è infatti accaduto, una nuova stagione. Woodstock ha rappresentato una svolta epocale per la musica e per la cultura giovanile: è diventato un paradigma. Io l’ho compreso appieno solo dopo aver letto Woodstock Nation, il saggio di Abbie Hoffman. Pur non essendo mai stato un ammiratore di Hoffman, il suo libro mi ha fatto capire qual è stato lo spirito di Woodstock. Uno spirito di libertà, di appartenenza, di consapevolezza per un mondo diverso che ancora oggi affascina i giovani e che fa loro rimpiangere di non poterci essere stati».
«La cosa più incredibile, e alla quale ancora oggi stento a credere», confessa Country Joe McDonald, «è vedere come dopo 40 anni il rock, lo spirito di Woodstock e la filosofia hippy abbiano ancora tanta presa sui giovani nonostante il sistema abbia imputato a quella cultura tutte le colpe del mondo. Una cosa è certa: la forza delle idee, il fascino della creatività, il potere della musica non temono nulla. Sconfiggerli è impossibile».
«Non ho bisogno di anniversari per celebrare lo spirito di Woodstock», dice Artie Kornfeld, «per me ogni giorno è buono». La sua osservazione mi ricorda quanto dice sempre Carlos Santana: «Tutte le volte che salgo su un palco è come se rivivessi lo spirito di Woodstock».
«Non mi pento di nulla», giura Kornfeld, «forse l’unica cosa che non rifarei è quella di aver firmato il contratto con la Warner. Tornando indietro, avrei preferito fare il produttore con Lang del film-documentario di Michael Wadleigh. Non per i soldi (il film ha incassato negli anni diverse centinaia di milioni di dollari, nda) ma per la soddisfazione… Il mio più grande rammarico è stato quello di non aver potuto avere John Lennon nel cast del festival. Ci ho provato anche perché eravamo amici. “Tu sei quello che ha scritto Pied Piper, vero? Bella canzone”, mi aveva detto Lennon, la prima volta che ci eravamo incontrati. Ma in quei giorni John era nei casini con il governo americano e non è stato possibile averlo a Woodstock: un vero peccato. Sono felice di aver mantenuto buoni rapporti con la maggior parte dei musicisti presenti a Woodstock e di vedere che anche loro, come me, continuano ancora oggi a portarne avanti l’eredità artistica e culturale».
«Woodstock è stato un festival della gente, anzi il primo festival della gente mai organizzato in America», mi ha detto una volta Richie Havens, «un festival in cui la gente si era ritrovata per celebrare uno spirito comune: ecco perché per me Woodstock ha ancora oggi un significato profondo».
«L’eredità più importante che Woodstock ci ha lasciato è quella di esser diventato l’emblema di qualcosa di grande, di irripetibile, capace di unire gente diversa», chiosa Greil Marcus. «Questa è stata la nostra Woodstock: abbiamo spesso sentito ripetere questa frase nel corso degli ultimi 40 anni. È successo a Berlino, nel 1989 durante il crollo del Muro e, lo stesso anno, a Pechino durante le proteste di Piazza Tien An Men e in decine di altri eventi epocali, prima e dopo. L’eredità di Woodstock è questa nuova consapevolezza, quel senso di scoperta di un’identità collettiva che una massa di persone riesce a formulare nel corso di un evento».
«La Woodstock Nation non ha sconfitto il razzismo, ma ha sconfitto la segregazione», ha detto e scritto Abbie Hoffman, «abbiamo rimosso l’idea che le donne fossero considerate cittadini di serie B. Abbiamo fatto dell’ambientalismo un punto fondamentale per i programmi di governo. Ci siamo dati da fare per creare un mondo migliore e abbiamo cambiato il corso della storia. Le grandi battaglie sociali che abbiamo vinto non possono più essere messe in discussione. Saremo stati anche giovani, ipocriti, coraggiosi, stupidi, testardi e spaventati a morte. Ma avevamo ragione».