03/02/2011

LOW ANTHEM

Prove tecniche di folk post industriale

L’opificio con estrattore di salse di Central Falls, circa 4 mila metri quadrati d’estensione, è un retaggio della comunità italiana, una delle più ampie dello stato di Rhode Island e, in proporzione, di tutta l’America settentrionale. Un tempo, quando era in attività e produceva salse e sughi per pastasciutta, era appartenuto a Buddy Cianci, sindaco corrotto di Providence, che è anche la città quartier generale dei Low Anthem. Smart Flesh, il terzo disco della band in uscita il 22 febbraio, è stato registrato in quell’enorme luogo abbandonato a cavallo fra il 2009 e il 2010. Dopo l’attenzione suscitata da Oh My God, Charlie Darwin il gruppo di Providence ha suonato in alcuni dei più prestigiosi festival internazionali come Bonnaroo, Glastonbury, Newport Folk, Lollapalooza e Prospect Park’s Celebrate Brooklyn e ha suonato come supporter ai concerti di Emmylou Harris, Iron And Wine, National e Ray LaMontagne. Accantonato con orgoglio il disco (uscito due volte, prima autoprodotto, fatto praticamente “a mano” e poi ristampato e distribuito in tutto il mondo dall’accoppiata Nonesuch/Bella Union) i Low Anthem hanno preso la decisione di cambiare studio di registrazione, adattando quello spazio post industriale per sperimentare nuove vie sonore. «L’edificio non tratteneva il calore. A causa del freddo non si riusciva né a muoversi di scatto né a rilassarsi», ricorda Ben Knox Miller, leader del gruppo che con i compagni Jeff Prystowsky, Jocie Adams, il nuovo membro Mat Davidson e il fonico Jesse Lauter hanno prima predisposto a studio, e poi alloggiato, la  cavernosa e disabitata area post industriale per due lunghi e rigidi mesi d’inverno.
La parte più ardua è stato il trasloco. Per completare l’allestimento della fabbrica ci sono voluti 10 giorni d’intenso lavoro fra trasporto delle attrezzature, dispositivi, tappeti riciclati e cavi di ogni tipo, lunghezza e spessore. Senza contare gli strumenti, la maggior parte dei quali antichi o insoliti, di cui i Low Anthem sono avidi cultori.
Giri per vendite private, soffitte passate al setaccio e aste su eBay hanno permesso al gruppo di mettere in piedi un negozio di seconda mano di strumenti rari da far invidia ai collezionisti trendy di Brooklyn. In nome di questa passione i Low Anthem hanno imparato a fare il restyling di alcuni pezzi, come per esempio gli organi a pompa. Al momento, il magazzino esotico della band, di cui sul palco per motivi logistici vediamo solo un assaggio è fatto di tamburi sovradimensionati, dulcimer, autoharp, campane tibetane, banjo, steel pan, crotali, corni di ogni specie e quattro organi a pompa, uno dei quali del peso di tre quintali. Per le session di Smart Flesh sono stati inclusi anche uno scacciapensieri, la sega musicale, lo stilofono e un elaborato schema per re-amplificare alcune frequenze nelle varie stanze del complesso industriale.
Il suono che è uscito fuori dagli amplificatori ha sorpreso tutti. La stessa band ha ammesso candidamente che non aveva una minima idea di cosa volesse dire suonare in quel luogo dimenticato. Come racconta Miller, «ci siamo subito resi conto che avevamo a che fare con un vero e proprio strumento aggiuntivo (l’edificio, nda). La risonanza era spaventosa. Ogni cosa che è accaduta dopo quella scoperta iniziale era subordinata ad esso». La maggior parte dei suoni registrati per Smart Flesh provengono da strumenti “organici”, anche se spesso rielaborati con applicazioni e componenti elettroniche. Nel corso delle prove di registrazione il fonico ha piazzato i microfoni in giro per il complesso industriale anche a notevole distanza dal punto in cui suonava la band per “catturare” il suono da una stanza all’altra. Non è un caso che il sottile rimbombo e alcuni indefinibili rumori ambientali che si possono ascoltare nella maggior parte delle tracce siano uno degli aspetti caratteristici del disco.
Ma, come suggerisce il blog della band, la «pasta sauce factory» ha rappresentato qualcosa più di un semplice luogo per fare musica. Dopo aver ripulito la pittura scrostata dalle pareti, tappezzato con coperte il pavimento e aver fatto pace con i pipistrelli, i musicisti si sono accaparrati l’unica area dell’intero stabilimento dov’erano installati tre condizionatori industriali per l’aria calda. Nello scomparto del montacarichi è stata improvvisata una cucina e arredata una piccola zona soggiorno con tanto di divani, scaffali, piante. In un angolo, una pila di cartoni per la pizza si faceva sempre più imponente, man mano che passavano i giorni. Durante l’incisione si spegneva tutto per eliminare ogni rumore, come il ronzio delle luci fluorescenti al neon o quello delle pale del riscaldamento ventilato. Fra una take e l’altra c’era il tempo per inventare giochi di ogni tipo, un po’ per riscaldarsi, un po’ per divertimento: una specie di tennis veloce inventato dalla band soprannominato baffle-ball o corse in bici per tutta la planimetria della fabbrica. Una volta, dice Miller, «un poliziotto si è insospettito vedendo Jeff salire la scala esterna antincendio. L’aveva scambiato per un magnaccia della zona».
Smart Flesh, autoprodotto dai Low Anthem e missato in larga parte da Mike Mogis (Bright Eyes, Monsters Of Folk), è stato masterizzato da Bob Ludwig e contiene 11 nuovi brani alcuni dei quali già suonati in tour (Ghost Woman Blues e Golden Cattle), e altri completamente inediti (come Love And Altar e Boeing 737). Parte della track list (3 canzoni), è stata registrata sette mesi dopo aver smantellato lo studio alla «pasta sauce factory» nel febbraio 2009, con Dan Cardinal in un garage cittadino adibito a home studio che la band ha chiamato Gator-Pit. Un posto piccolo e confortevole, all’estremo opposto dell’opificio di Central Falls.
Attualmente la band è pronta a partire per il nuovo tour che li porterà in giro per l’America e l’Europa e approderà in Italia il 28 marzo per l’unica data nel nostro paese alla Salumeria della Musica di Milano. Dalle rumorose luci fluorescenti di una fabbrica dimenticata alle eleganti luminarie della ribalta neo folk. Ne abbiamo parlato con Jeff Prystowsky.
Per quale motivo avete scelto di montare uno studio di registrazione in un enorme edificio post industriale?
«Mentre eravamo in giro per il mondo ci siamo resi conto che la musica che stavamo facendo basata anche sulle armonie vocali e sul nostro bizzarro armamentario aveva un miglior impatto acustico nelle chiese e nei grandi teatri. Verso la fine del tour, quando abbiamo iniziato a parlare del seguito di Charlie Darwin, ci siamo messi a discutere su dove avremmo dovuto registrare. I tipici studi sono composti da piccole stanze dove il suono è relativamente smorzato e i riverberi sono poco naturali. Ci siamo messi a cercare un grande spazio con qualità particolari, che avesse un riverbero unico nel suo genere e con cui potevamo sperimentare. Certo, non doveva necessariamente essere così… enorme».
Il lavoro che avete fatto sulla qualità delle registrazioni è molto intrigante. Quali sono stati i problemi più significativi che avete dovuto affrontare utilizzando un vecchio luogo di lavoro industriale come ambiente sonoro?
«I primi tempi, quando schiacciavamo il tasto del playback, eravamo il più delle volte portati fuori strada dal semplice fatto che ascoltavamo le tracce nella fabbrica. Ti sembrerà strano, ma ci abbiamo messo un bel po’ a capire che ci trovavamo in un habitat capace di intensificare alcune frequenze e che quello che ci arrivava alle orecchie era in parte distorto dai processi fisici delle condizioni ambientali. Quando abbiamo portato i nastri fuori dall’edificio per suonarli a casa, in macchina o sul tour bus, il sound era inevitabilmente più sottile. Un bel casino da risolvere. Il problema di fondo è che quando eravamo nella fabbrica era difficile, davvero, immaginare come le nostre canzoni avrebbero suonato nell’esatto momento in cui le stavamo registrando. Io, personalmente, ho impiegato un mese intero per capire la differenza fra il tipo del suono della “pasta sauce factory” e come poi avrebbe suonato in condizioni normali».
E che cosa ne ha guadagnato la musica?
«Insieme a Mike Mogis e Jesse Lauter abbiamo cercato di implementare diverse tecniche per catturare la gamma delle proprietà che il sito, davvero unico nel suo genere sia per la grandezza che per caratteristiche fisiche, predisponeva. Ti parlo di meravigliosi riverberi, di spazi dal diverso assorbimento acustico e di un decadimento naturale che ha arricchito il sound di sfumature. Abbiamo inciso strumenti a distanze differenti. Una chitarra poteva essere più o meno ravvicinata. A 3 metri, ad esempio. Oppure a 7, 8 metri o anche 15. In seguito registravamo le canzoni daccapo, dopo aver messo le track su nastro o – con l’ausilio di Pro Tools – sull’hard disk del computer e approntavamo nuove tecniche di playback e registrazione. Un processo complesso, ma affascinante».
Tecnicismi a parte, in che modo avete contribuito al risultato finale come band?
«Anche in questo caso Smart Flash presenta una novità rispetto ai nostri dischi precedenti. Per la prima volta, infatti, abbiamo sperimentato la registrazione dal vivo con tutti i microfoni accesi sulle nostre postazioni. È una cosa inedita per noi perché finora in studio lavoravamo separati utilizzando le sovraincisioni. In passato è anche capitato che qualcuno di noi mandasse in produzione file da stati o paesi differenti».
Prima di entrare nell’edificio dismesso di Central Falls avevate già un’idea di quello che volevate ottenere dal punto di vista musicale o è stata una scoperta graduale?
«È stato un processo completamente sperimentale. In due settimane abbiamo montato lo studio. C’erano fili scoperti dappertutto. Immagina un posto completamente disabitato con pipistrelli e ratti in giro. Non avevamo un’idea precisa di come usare la fabbrica come uno strumento, ma abbiamo capito subito che era quello che volevamo fare. È stato più o meno come quando qualcuno di nuovo entra in una band. Ci vuole tempo per conoscere le sue reazioni e per vedere come il gruppo reagisce al nuovo elemento. Differenti microfoni e tecniche di registrazione, sperimentazioni con gli strumenti e l’eco, prove di vario tipo. Il progetto di sound di Smart Flesh ha iniziato a prendere forma quando certi meccanismi si sono automatizzati e abbiamo iniziato davvero a suonare. Si può dire senza ombra di dubbio che lo “spazio” è stato lo strumento più importante dell’album, il nuovo membro dei Low Anthem (ride, nda)».
Sul vostro blog ufficiale avete scritto una nota singolare, cioè che la storia di Smart Flash si rivelerà nel corso del tempo. Che cosa intendete?
«Come in una matrioska, ci sarebbero tante situazioni da raccontare. Aneddoti, storie dentro a storie, fatti che ci sono capitati in una situazione fuori dal normale. Immagina cosa vuol dire per una band vivere e suonare per due mesi in una fabbrica abbandonata. Non si è trattato solo di uscire con in mano delle canzoni fatte e finite. È stata un’esperienza eccitante, selvaggia. Pensa che abbiamo registrato ben 30 brani prima di arrivare alla track list definitiva. Praticamente abbiamo un altro album non ufficiale registrato. Quel disco non pubblicato è figlio di una comunità. Quella che ha vissuto per due mesi in quel posto. Insomma, c’è ancora molto da dire sul periodo passato alla “pasta sauce factory”…».
Come accennavi all’inizio, voi Low Anthem, tra l’altro tutti polistrumentisti, siete anche noti per l’utilizzo di “attrezzi” da scena quasi da antiquariato, poco familiari al pubblico rock. Avete aggiunto strumenti insoliti all’equipaggiamento per dare un colore ancora più originale alla vostra ultima fatica?
«Uno dei nostri preferiti è diventato lo scacciapensieri (jaw harp, nda). Lo puoi sentire in tre brani dell’album. Ce l’ha prestato Robert Houllahan, che ha fatto le riprese del video di Ghost Woman Blues. Credo appartenesse addirittura a un suo trisavolo. Ha un suono bellissimo ed è più grande come dimensione di quelli che si trovano in circolazione. È anche più pesante ed è rifinito a mano. Ce ne siamo davvero innamorati, ma sfortunatamente l’abbiamo dovuto restituire al suo legittimo proprietario… l’avremmo voluto portare in tour, ma abbiamo dovuto comprarne un altro paio (ride, nda). Oltre a questa new entry ci sono tutti gli strumenti “strani” che ci hanno accompagnato in tour come la sega musicale (musical saw, nda), i crotali, l’armonium o gli organi a pompa e l’elenco potrebbe andare avanti… Che posso dirti? Siamo dei fanatici. Abbiamo una collezione piuttosto varia anche dei classici ferri del mestiere: basso, chitarra, batteria e percussioni di ogni forma e dimensione. La cosa più assurda, comunque, è stato suonare lo scacciapensieri in Boeing 737 che è un brano piuttosto movimentato e sparato a tutto volume».
A proposito di questa vostra passione per il collezionismo di strumenti musicali “fuori corso”, è vero che avete restaurato personalmente tre antichi organi a pompa?
Puoi tranquillamente dire quattro, ora. Ne abbiamo appena aggiustato un altro (ride, nda)».
In pratica avete un mestiere di riserva.
«Esatto! Quest’ultimo di cui ti parlavo è a dir poco fantastico. Ce l’hanno donato ed è il più grande di tutti. Pesa quasi 3 quintali, ha due manuali (tastiere per organo, nda), dieci ottave e diversi registri. Credo che sia stato costruito circa 150 anni fa. Lo porteremmo volentieri sul palco, ma credo che sarà molto complicato trasportarlo».

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