12/10/2009

L’ULTIMO EROE DEL FOLK MIKE SEEGER

Lo scorso 7 agosto, nella sua casa coloniale di Lexington, Virginia, si è spento Mike Seeger, musicista e musicologo, produttore colto e divulgatore inimitabile, esponente massimo della musica tradizionale nordamericana bianca. Al suo fianco, sino all’ultimo, c’è stata Alexia Smith, sua moglie da 14 anni. «In luglio gli avevano diagnosticato un mieloma multiplo», racconta, «eppure prima di entrare al Cancer Center dell’Università della Virginia, è voluto andare a fare un concerto: la musica per lui veniva prima di tutto». Dopo un solo ciclo di cure, Mike ha preferito interrompere la chemioterapia e tornare a casa, dov’è morto una settimana prima di compiere 76 anni. Io lo avevo conosciuto nel giugno del 1983. All’epoca, insieme a un gruppo di amici appassionati, oltre a pubblicare il “papà” di JAM (il bimestrale Hi, Folks!), organizzavo quella che avevamo chiamato Convention Italiana di Old Time & Bluegrass. Era una due giorni per appassionati dei suoni delle radici americane che si svolgeva al Ponderosa Ranch di Tradate, in provincia di Varese. Il primo anno era stato un successo clamoroso: sembrava che in Italia ci fossero più cappelli da cowboy, banjo e mandolini che chitarre elettriche e giubbotti di pelle. Così, l’anno successivo avevamo deciso di invitare “quelli veri”. Mike Seeger era il nostro idolo. Con i New Lost City Ramblers aveva sdoganato la musica folk e old time, l’aveva portata nei principali festival statunitensi e, persino, sul palco della Carnegie Hall. «C’è sempre qualcuno che allarga l’orizzonte, che ti fa scoprire nuovi mondi: Mike Seeger ha avuto questo effetto su di me», ha scritto di lui Bob Dylan nelle sue Chronicles. Ricordo ancora l’emozione provata nel leggere la lettera in cui Mike ci confermava di aver accettato il nostro invito alla convention: lo avevo chiamato subito, la sera stessa e ci eravamo messi d’accordo in cinque minuti. Un mese dopo, ero andato a prenderlo all’aeroporto della Malpensa. Sembrava un ragazzino: simpatico, entusiasta, dinamico. Al Ponderosa aveva stupito tutti per la sua disponibilità. Sul palco, aveva dato lezione di folk. «Una lezione nata sui prati», scriveva in quei giorni Pierangelo Valenti, proprio sulle pagine di Hi, Folks!, «con l’aiuto e la compagnia occasionale di musicisti dilettanti e improvvisati ballerini di clogging. Culminata on stage e continuata poi in cento ed uno capannelli spontanei, sui sedili di un camper, dentro una tenda canadese, in mezzo ad un’umidità che entrava nelle ossa. Esattamente come la musica e le parole, banjo e hollering, scacciapensieri e shout, pan-pipes, autoharp ed il milione di sorrisi regalati da un rambler newyorchese di illustre casato, ex infermiere, innamorato del suono grezzo e maledettamente naturale di zufoli e lamelle vibranti. Il violino costantemente imbracciato, Mike sembrava aver esaurito tutte le risorse, musicali e fisiche, prima della sua esibizione ufficiale, e invece ha tenuto incollati a sé gli occhi e gli orecchi dell’intero uditorio. Senza trucchi, senza trovate e giochi furbescamente programmati, solo improvvisando un repertorio con corde, canne di legno, fiato, voce e piedi (scalzi, secondo un’antichissima consuetudine degli artisti popolari, già al secondo brano) nel più americanizzato dei mestieri artigianali, quello dell’entertainer». Dopo quei primi giorni trascorsi insieme, al Ponderosa e in giro per l’Italia, io e Mike ci siamo visti tante volte. Un’estate mi aveva ospitato nella sua casa di Lexington (dove avevo ammirato un’incredibile collezione di strumenti rari e registrazioni preziose). Poi era stato nuovamente a Milano, a seguito di un nostro invito per un altro festival. Curiosamente, aveva voluto conoscere un suonatore di scacciapensieri, il virtuoso di “u marranzanu” Don Emanuele Calanduccio: una serata ai confini dell’assurdo, in un ristorante siculo di Viale Zara, che il mio amico Roberto Monesi ricorda molto bene. Poi, ci siamo persi di vista sino a incontrarci nuovamente, per l’ultima volta, a Varazze, nel maggio del 2006. Mike apriva la nona edizione del Festival Internazionale di Mandolino. Abbiamo cenato insieme, in una trattoria tipica, nel centro storico della cittadine ligure, e l’avevo trovato immutato. Tonico e scattante, ma totalmente immerso nel suo mondo artistico e culturale, ignorava che Bruce Springsteen avesse inciso un disco con le canzoni del suo fratellastro Pete Seeger. «Ma Pete che ci guadagna?», mi aveva chiesto. «Non prenderà neppure le royalties perché quei pezzi non li ha scritti lui…». Lo avevo presentato, dal palco del Teatro Don Bosco, usando la frase usata da Dylan per descriverlo: l’archetipo supremo del folk. Il concerto, ancora una volta, era stato una magistrale lezione del Professor Seeger. Ci eravamo parlati, per telefono, sei mesi dopo. Avevo scoperto che Ry Cooder lo aveva voluto nel suo progetto My Name Is Buddy e Mike, per la prima volta in tanti anni, aveva incrociato il suo banjo con quello di Pete Seeger. Tornato a metà agosto da un viaggio in Oriente, è stato proprio Roberto Monesi a darmi la triste notizia della sua morte e a ricordarmi quel concerto, tutti insieme, sotto l’Arco della Pace a Milano, nell’estate del 1987. Perché Mike Seeger era fatto così. La musica per lui era una cosa seria, ma significava anche condivisione. Non riusciva a concepirla in nessun altro modo. Guardando fuori dalla finestra, con il cuore pieno di commozione, mi sembra ancora di vederlo spuntare, con quel suo incedere saltellante. D’improvviso, su una colonna sonora immaginaria di fiddle e banjo mi si incrociano davanti agli occhi immagini che il mio cervello ha immagazzinato nel tempo. Dietro Mike, compaiono i suoi amici musicisti e poi Alexia e le altre due ex mogli, i tre figli e i quattro figliastri, le due sorelle, i due fratellastri e i tredici nipoti: la Seeger Family, la dinastia che qualcuno ha definito «i Kennedy del folk». Mike Seeger, però, era speciale.
Ha ragione chi lo ha definito un «patrimonio della cultura tradizionale nordamericana», quasi fosse un animale in via di estinzione. Perché è proprio così: di personaggi come lui, forse, non ne nasceranno più.

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