31/03/2009

L’UNIVERSO DEI DEPECHE MODE

Sono sufficienti tre minuti e una manciata di secondi, quelli del singolo Wrong, a sciogliere ogni dubbio. I Depeche Mode, specie più che rara assieme a gente come gli U2, restano una delle poche band inchiodate sull’altare del rock e in grado di tracciare segni indelebili da decenni, oggi dando alle stampe un disco dal titolo insieme sfrontato e ironico come Sounds Of The Universe, un po’ come fu ai tempi dell’eloquente Music For The Masses. In poche parole, non ci si trova solo al cospetto di una band che da 28 anni ha mantenuto fede alla propria line up fondamentale, ma che pure resta fonte d’ispirazione, ammirazione e discordia, lungo un percorso che l’ha vista evolversi da gruppo di giovinastri di Basildon, a una quarantina di chilometri da Londra, impegnati a smanettare dietro a qualche sintetizzatore a icona universalmente venerata. Oggi la triade composta da Gahan, Gore e Fletcher fa ritorno a Milano, già loro nota non solo per i concerti, ma anche per l’incisione, esattamente venti anni or sono, ai Logic Studios di Personal Jesus.
«La storia inizia dopo l’ultimo disco, quando ci siamo presi una pausa», inizia a raccontare Andrew Fletcher, che prende parola spontaneamente per introdurre Sounds Of The Universe. «In questo periodo Dave, che è davvero in forma tra l’altro (l’interessato, sorpreso dalla constatazione, sorride e ringrazia, nda) ha pubblicato un album solista di successo, mentre Martin ha usato questa pausa per comporre canzoni. Ci siamo così ritrovati alla fine dello scorso anno, abbiamo ascoltato il materiale a disposizione e deciso di fare un nuovo album, reclutando Ben Hillier». Niente di più naturale e risoluto per i tre, quindi, che ritrovarsi in studio in compagnia dello stesso produttore che li ha accompagnati nelle ricerche stilistiche di Playing The Angel e scoprirsi, pochi mesi dopo, a iniziare le prove del tour che li porterà in giro per l’Europa, Italia compresa, tra maggio e giugno.
Oggi i suoni dell’universo portano l’inconfondibile marchio Depeche Mode, non solo a partire dal timbro esclusivo delle linee vocali del loro frontman, ancora più intenso e in grado di delineare attimi vellutati e scariche taglienti, ma passando per atmosfere tenebrose e un uso dell’elettronica sapiente nel creare gli arrangiamenti. Il tutto coniugando l’estetica coniata dalla band stessa a un’esplorazione sonora che spinge verso il futuro, in un equilibrio a dir poco disarmante. «Penso che la nostra musica suoni sempre come se fossimo… noi», chiarisce Martin Gore a tal proposito, sorridendo da sotto il berretto di lana calato fino a metà fronte. «Non importa quello che facciamo: sfidiamo noi stessi, ci spingiamo più in là, ma ci sono degli elementi che non cambiano. Dave ha una voce unica e distintiva e c’è qualcosa nel nostro modo di lavorare che resta immutato, quindi creiamo un sound che è inevitabilmente nostro, per quanto cerchiamo di rinnovarlo. In ogni caso, mi piace pensare che facciamo sempre qualcosa di contemporaneo».

Sebbene le cose si siano sviluppate in modo naturale in studio, coniugando modus operandi consolidato e singoli apporti, anche le scelte artistiche di Hillier sembrano aver avuto un notevole impatto nel plasmare il sound del disco, ma insieme ad altri due elementi peculiari. Innanzitutto i tre, Martin L. Gore in testa, hanno preferito utilizzare apparecchiature vintage: il risultato è una notevole eterogeneità di suoni, che si traduce non tanto in una pura questione di gusto, ma anche di efficacia nella resa finale, da un punto di vista sia emozionale sia tecnico. «Questo è un album pieno di suoni vecchi», continua Gore. «Ritengo che gli strumenti vintage abbiano conferito delle sonorità più calde, sporche e delle distorsioni più naturali rispetto a quelli di ultima generazione o allo stesso computer. Abbiamo utilizzato synth e drum machine, ma anche delle chitarre, quindi mi sono dato un po’ alla pazza gioia con questi strumenti, che tra l’altro ho acquistato su eBay. Ogni giorno arrivavano in studio dei pacchi per me».
Il disco è estremamente variegato nei suoni, caratteristica che ha ripercussioni anche nella libertà di lasciarsi contaminare dai generi: rock ed elettronica, infatti, sono corroborati da influssi soul e spiritual, tanto evidenti nelle linee vocali quanto negli impianti stessi di brani come In Chains, senza dimenticare le venature al retrogusto industrial di Corrupt. Nell’interezza delle 13 tracce spiccano quei temi di redenzione e peccato già costante nella carriera del gruppo, ma gli autori precisano che eventuali riferimenti alla Bibbia sono puramente casuali, compreso Jezebel, come conferma lo stesso Gore, al quale il rimando verso alla figura dell’antica regina è stato fatto notare in un momento successivo alla composizione. Del resto, i pezzi risultano stratificati in più livelli interpretativi, come da tradizione, mentre tra emozioni incatenate nel carnale e tensioni verso lo spirituale fa capolino una dose d’ironia cupa. Un’unione che si manifesta con parole sapientemente dosate a creare climax continui e ricorrenti nello sviluppo dei versi, parole che addensano il significato delle atmosfere, ricordate nelle loro potenzialità quando messe a confronto con il vuoto del silenzio, mutuate da un lessico in bilico tra il sacro e il profano ad accentuare l’addensarsi e il rarefarsi delle melodie, tra ritorni ed evasioni, corruzione e perfezione. Infine, alcune canzoni, si dice ben tre, sono state scritte da Dave Gahan stesso, che si trova ad affiancare Gore nel processo creativo. «Non c’è stata differenza nel lavorare su pezzi che fossero miei o di Martin, che ha fatto un ottimo lavoro su questo album, aiutandomi anche a presentare i miei pezzi sotto una veste diversa e contribuendo agli arrangiamenti. È stato sorprendente riascoltare il risultato finale rispetto all’originale», interviene Gahan, smagliante nell’impeccabile completo nero e camicia bianca dalla quale, a tratti, spunta un accenno dei suoi tatuaggi. «A questo punto mi viene molto spontaneo scrivere e comporre per la band. Di certo, non posso ambire a paragonarmi a Martin come autore, anche solo per i volumi nella produzione. Diciamo piuttosto che ora mi sento in panchina e riesco a giocare 10 minuti della partita, non sono più in tribuna o nello spogliatoio com’ero prima». Per quanto possa apparire paradossale, insomma, Gahan si sente nuovamente parte di quei Depeche Mode di cui egli stesso è immagine sacra, ulteriormente favorito da un livello qualitativo delle composizioni sempre in crescita, tanto che, confessa lo stesso Fletch, è risultato difficile scegliere i pezzi che avrebbero dovuto far parte del disco.

Uno dei pregi delle canzoni di questa band è forse il racchiudere le molteplici potenzialità di più livelli di lettura, che sul palco manifestano la loro essenza più sfacciatamente rock: dalla presenza di batteria e chitarre al fronte di semplici sintetizzatori, sino all’imporsi magnetico della figura di Gahan. Tutte caratteristiche esplose in maniera inconfutabile nel Devotional Tour, dove la band ha conquistato il palco scendendo dagli scranni dei propri synth e fronteggiando un pubblico sempre più massiccio, con Alan Wilder impegnato direttamente a suonare la batteria. E la teoria che i Depeche Mode possono sfoggiare una profonda essenza da rock band nel senso più travolgente, impattante e sudato, è un dato di fatto, storie di droghe ed eccessi comprese, sebbene siano parte del passato: il frontman infiamma e doma il pubblico, gli arrangiamenti si fanno a tratti diretti e aggressivi, a tratti si placano in attimi di acustico intimismo, portando brani elaborati in modo sempre più complesso e meticoloso a esplodere di energia viva, coprendo a tutto tondo le potenzialità degli artisti in fase progettuale e nella dimensione live. «Quella del non riuscire a creare lo stesso impatto su un grande palco per una band che fa elettronica è un’idea ormai vecchia» osserva il frontman. «Gli stessi dubbi sono stati sollevati prima che suonassimo al Rose Bowl di Pasadena, ma è ancora sotto gli occhi di tutti come siano andate le cose. Per noi è una sfida suonare negli stadi: se hai di fronte 10 o 50 mila persone, la situazione è diversa. Avremo comunque il supporto di Corbijn, che si occuperà sia degli effettivi visivi, sia delle luci e della scenografia».
Proprio Anton Corbijn, figura imprescindibile ufficialmente entrata nell’orbita dei Depeche nel 1986 con il video di A Question Of Time, è fautore del loro irreversibile cambiamento d’immagine, visto non tanto come semplice alterazione di look e atteggiamento, ma in un unicum con la loro evoluzione artistica. Basti pensare ai videoclip degli anni 90, in equilibrio fra le atmosfere in bianco e nero di un film d’autore e il rimando ai dipinti allucinati di Bosch, senza contare le scenografie dei concerti, a partire da quella claustrofobica del Black Celebration Tour. «Abbiamo visto Control e ci è piaciuto molto, anzi siamo felici che Anton sia riuscito a girare il film che ha sempre desiderato», interviene Gahan a proposito del film su Ian Curtis dei Joy Division. «Martin l’ha anche aiutato: il processo di creazione di un film è complesso e costoso».
Prima di firmare con la Emi, raccontano i tre, sono state considerate tutte le possibilità, tra cui persino l’autoproduzione. «Il mercato è sempre in evoluzione e difficile da interpretare, ad ogni nuovo disco il contesto cambia», spiega Fletcher. «Credo ci sia una certa ripresa in atto per quanto riguarda le case discografiche, che stanno ad esempio riuscendo a risolvere alcuni problemi legati al download selvaggio. Per quanto riguarda i contenuti, stiamo cercando di offrire ai fan dei prodotti che loro desiderano, qualcosa in più rispetto al classico supporto». Un qualcosa in più che si traduce in un’edizione speciale traboccante di remix, tracce bonus e demo, idea inedita nella carriera della band, accompagnata dal materiale video più vario, comprese delle incursioni in studio durante l’incisione dei “suoni dell’universo”.
A ben guardare non solo l’ottima forma del frontman e i blitz d’ironia che scintillano tra le varie domande, come un Gahan che propone la candidatura di Al Pacino a interpretare Fletch in un ipotetico film sul gruppo, pare che il tempo non scorra e la polvere non si accumuli, che le cose non si deteriorino, per citare gli stessi. Le tecniche di registrazione sono cambiate, incidere un disco è oggi un fatto scontato, eppure ci sono elementi che fanno la differenza, come la piena coscienza di sé e una maturità artistica in continua evoluzione, a supporto di una band che da tre decenni sa dare le giuste risposte. E, per una volta, niente appare sbagliato.

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