16/05/2007

L’uomo dall’ugola di caucciù

E’ diventato famoso cantando che è meglio “non preoccuparsi e vivere felici”. Ma la leggenda di Bobby McFerrin era già cominciata da qualche anno. Ben prima che la sua Don’t Worry Be Happy, dopo esser stata la sigla della campagna elettorale di George Bush, diventasse un clamoroso best seller, unica canzone per sola voce ad aver occupato i vertici delle classifiche.

A San Francisco corre l’estate del 1982. Tom Bradshaw è un impresario appassionato di jazz che ha ristrutturato un vecchio bordello del centro città. In O’Farrell Street, infatti, Tom ha fondato il Great American Music Hall, diventato ben presto uno dei club più affascinanti e popolari degli States. È lì che, ogni tanto, Bradshaw sfoga le sue passioni per la vocalità jazzy: ad esempio, fa registrare un memorabile duetto tra due sue favorite, le grandissime Carmen McRae e Betty Carter, produce la più eccentrica band a cappella della Baia (The Bobs), mette sotto contratto la gola più virtuosa del secolo (McFerrin). E convince proprio quest’ultimo, un vocalist newyorkese trasferito in California, ad abbandonare gli strumentisti che lo accompagnano a favore di un set per sola voce. McFerrin, oltre ad avere doti artistiche indiscusse (creatività debordante, intuito e capacità di improvvisazione folgoranti) possiede infatti un’ugola di caucciù che può contare su un’estensione sbalorditiva di 4 ottave (quasi l’intera tastiera di un pianoforte!!!) e soprattutto ha un’abilità comunicativa senza eguali che gli consente di prendere per mano qualunque platea e di condurla dove vuole.

Quando nel 1984 McFerrin incide il live The Voice, entra nella storia: per la prima volta una major (la Elektra) pubblica un disco di un cantante jazz la cui voce non ha alcun accompagnamento. E neppure sovrancisioni. La versione di Blackbird che apre l’album, ancora oggi a quasi vent’anni di distanza ha dell’incredibile: Bobby canta contemporaneamente la melodia, il giro di basso, abbozza un beat ritmico battendo la mano sul petto e, mentre con innato senso del tempo utilizza persino i respiri per enfatizzare le sincopazioni, tra una micropausa e l’altra ci butta dentro pure delle svisatine improvvisate . wow!

Con il successivo Spontaneous Inventions (1986) McFerrin entra nel gotha del jazz, non solo vocale. È ormai un cult artist ambitissimo: Herbie Hancock, Wayne Shorter, l’attore Robin Williams lo affiancano in quello che ad oggi resta il suo masterpiece discografico. Anche se è con il successivo Simple Pleasures (del 1988, che contiene la celeberrima Don’t Worry Be Happy) che Bobby diventa un’assoluta celebrità dello show business. Restando sempre e comunque artista anomalo. La sua carriera prosegue infatti tra sperimentazioni varie che vanno dalla Voicestra, un ensemble vocale insieme al quale gli piace mettere in scena concerti basati su un’improvvisazione ragionata, ad avventure varie a cavallo tra jazz e classica (duetti con il violoncellista Yo-Yo Ma o il tastierista Chick Corea) sino a vere e proprie escursioni in territorio classico (come direttore d’orchestra).

Nel frattempo, ha cambiato anche il look: da qualche anno lunghi dreadlock fasciano quel viso aggraziato dagli occhi furbissimi e dal sorriso accattivante. Occhialetti da intellettuale e un pizzetto sbarazzino completano il quadro: McFerrrin oggi, a 52 anni suonati, rimane un personaggio che continua a calamitare l’attenzione su di sé. Il suo ultimo lavoro (primo disco in studio da 5 anni a questa parte), il favoloso Beyond Words (vedi JAM 80) è uno dei suoi album più riusciti di sempre. In poco meno di un’ora, Bobby trasporta l’ascoltatore in una cavalcata suggestiva tra 16 brani originali (tutti composti da lui) le cui influenze sembrano direttamente mutuate da una enciclopedia di world music: jazz, blues, rock e pop si innestano su temi africani, atmosfere mediorientali, melodie francesi, ritmi caraibici dando vita a una caleidoscopica mélange acustica dal fascino assoluto. E anche se la voce di Bobby è accompagnata da vari strumenti (suonati da lui o da suoi celebri amici come Chick Corea, Omar Hakin, Richard Bona, Cyro Baptista, ecc), Beyond Words è, paradossalmente, uno dei suoi lavori più vocali di sempre. È lui stesso a spiegarlo quando, parafrasando il titolo del disco, sostiene che “cantare senza parole non è la solita forma di improvvisazione vocale: è un rituale interiore, una forma di meditazione, quasi un processo allucinatorio”.

“Non mi sono mai considerato un cantante jazz”, continua McFerrin, “sono semplicemente un vocalist, cioè uno che estende la propria voce oltre le barriere convenzionali e che ne amplia la gamma dei suoni. Non mi sono mai visto come uno che porta avanti una tradizione: piuttosto posso portare una tradizione dentro di me.”

E così sfiora più volte le tradizioni africane facendole sue e rielaborandole con gusto, spensieratezza, eccentricità, divertimento. “È quello che succede in un qualsiasi villaggio africano: il canto non è una performance, è semplicente una normale attività quotidiana.” Che Bobby pratica tutti i giorni. “Beh, non dico che appena mi sveglio inizio a cantare. Però è qualcosa che faccio spesso durante il giorno e pure in maniera rilassata. Voglio dire, non solo perché devo provare qualcosa o comporre nuovi brani: cantare è parte del mio modo di essere. Lo è sempre stato e, credo, sempre lo sarà.”

Ha coinvolto pure il figlio Taylor nella sua avventura tanto che in Beyond Words il brano Taylor Made è stato scritto e musicato insieme. E la composizione sembra essere il focus principale in questo felice momento della sua carriera.

“Quando avevo vent’anni, mi piaceva scrivere poesie. Tra i venti e i quaranta mi sono concentrato sul canto. Dopo i quaranta ho sperimentato la conduzione d’orchestra, vocale e strumentale. Oggi, superati i 50 anni, il mio interesse è per la scrittura. Scrittura di canzoni, poesie ma anche di racconti per bambini. Ho sempre amato i bambini, rimango costantemente stupefatto dalla loro purezza, dalla loro semplicità e dalla loro inarrestabile curiosità, tutte doti essenziali per chi fa arte.”

Questa della composizione sembra essere la chiave artistica più importante del ‘nuovo’ Bobby McFerrin. L’incredibile gola gommosa (che il suo amico Robin Williams ha definito “ai confini della realtà”) non è forse più sufficiente. Il suo talento artistico, può invece ancora dare molto. Perché se è vero che Leonard Bernstein (un suo grande fan e quello che lo ha spinto a fare le prime direzioni d’orchestra) o James Levine hanno dichiarato che Bobby “potrebbe dirigere anche un coro di sordi”, che Yo-Yo Ma lo ha sempre considerato “l’artista più sbalorditivo con cui abbia mai lavorato” e che Herbie Hancock lo ha definito “l’alchimista delle note”, McFerrin sa che il pubblico si attende sempre da lui qualcosa di nuovo. Ma anche su questo è prontissimo perché non scorda mai il consiglio che il padre Robert (un baritono) era solito dargli: “La musica è gioia ed emozione. Ed è parte della nostra vita. E come tale deve essere in costante evoluzione”.

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