27/09/2014

Luz

Nei suoi 15 episodi strumentali l’esordio dei Luz, formazione di Centocelle a vocazione internazionale, si dipana in un alternarsi e sovrapporsi di generi
L’Italia vanta una solida tradizione nelle contaminazioni tra rock, jazz e avanguardia, il cui apice di popolarità è stato raggiunto negli anni ’70, quando gruppi come Perigeo, Napoli Centrale, Arti e Mestieri cercavano di tradurre quel magma proveniente da oltreconfine. Un’attitudine innescata da vere e proprie pietre miliari come Bitches Brew di Miles Davis del 1969 (sorta di Newport ’65 in ambito jazz) o Les Stances à Sophie degli Art Ensemble Of Chicago e l’omonimo album di Joe Zawinul del 1970, sviluppata in seguito da gruppi illuminati quali Weather Report, Mahavishnu Orchestra e altri. Si era in piena epoca progressive pertanto timbriche e ritmiche di questi nostri gruppi ne assorbivano le derive, pur cercando vie d’uscite peculiari, pescando appunto nella contaminazione di genere.  

C’è stata poi una nuova fiammata negli anni ’90, quando da Chicago e dintorni sono partiti i rivoli confluiti nel calderone del cosiddetto post rock, con quest’ultimo che fungeva da baricentro sonoro marginalizzando l’aspetto melodico, mentre i ritmi si palesavano con precisione matematica perciò poco inclini a dare la stura alle improvvisazioni tipiche del jazz, a parte qualche caso come i Tortoise. Questo preambolo, per inquadrare il perimetro musicale in cui si muove il debutto dei Luz, uscito da qualche mese, formazione di Centocelle a vocazione internazionale composta dal chitarrista Giacomo Ancillotto, dal contrabbassista Igor Legari e dal batterista Federico Leo, attivi come trio già dal 2011 e arricchito l’anno seguente dalla violoncellista d’avanguardia Tomeka Reid, proveniente da Chicago. 
 
Le prime soffuse battute della traccia di apertura (Frate Mitra) sono di per sé indicative dell’identità della band, incentrate nello scardinare in partenza una linearità melodica convenzionale pur senza abbandonarne le evoluzioni, a vantaggio di trame suggestive nei suoni vocate a dialogare con pause di silenzio, generando stop and go talvolta perfino tribali. Sussurri lirici alternati a grida strumentali che recuperano la tradizione afro e al contempo evocano i patrimoni musicali europei e del mediterraneo. Una scrittura e arrangiamenti mai banali, spesso ostici, contrassegnati da un fitto ordito in cui fanno sobriamente capolino improvvisazioni jazz, ma dove è evidente l’impalcatura metronomica tipica del (post) rock. Nei suoi 15 episodi strumentali Polemonta si dipana in un alternarsi e sovrapporsi di generi, richiamando la solennità di certi collettivi canadesi quanto il senso di severità dei piccoli ensemble cameristici di New York. Un andirivieni sollecitato dalle variazioni di callo e di ritmo, che consegna alla chitarra (in odore di prog, inteso alla Fripp) di Ancillotto il ruolo di voce narrante, che negli anni ’70 poteva essere ricoperto dai fiati (Shorter) o dalle tastiere (Zawinul). Se qualche punto debole questo album, comunque piacevole e ben riuscito, evidenzia, sono da cercare nella propensione reiterata al citazionismo e in un’autoindulgenza che a tratti narcotizza la vivacità naturale delle trame, imbrigliandole in melodie più prevedibili, aspetto disinnescato da un apparente approccio ironico che richiama certe cose di Frank Zappa.  

L’album può essere fruito anche come colonna sonora immaginaria di un viaggio nomade, dove i territori musicali e quelli geografici proiettano immagini in rapida e cangiante successione. In questo senso si colgono ulteriori derive, soprattutto quando è la ritmica stessa a trascinare gli strumenti in nuovi ambiti, dalle spezie latine a una certa psichedelia ibrida. La title track è il volano attorno cui ruota l’essenza dell’album: un tessuto melodico efficace e ficcante che rimane comunque in penombra rispetto alle evoluzioni quasi virtuosistiche dei singoli strumenti, in straordinaria collisone ma con libertà di spazi e soluzioni e con particolare esaltazione della sezione ritmica. A livello più generale colpiscono le architetture, le dinamiche e la produzione sonora. Non è un caso, quindi, che all’estero il gruppo sia sempre più richiesto per valutarne l’elevato potenziale live.

On demand

Iscriviti alla Newsletter

Vuoi rimanere sempre aggiornato su rock e dintorni? Iscriviti alla nostra newsletter
per ricevere tutte le settimane nuovi video, contenuti esclusivi, interviste e tanto altro!