E poi arriva un disco così e capisci una cosa sulla musica e sulle linee che tracci alla ricerca di un’identità che ti definisca e risolva. Lei si chiama Maya Arulpragasam, in arte M.I.A., è nata in Sri Lanka ed è cresciuta in Inghilterra. Ha alle spalle altri tre dischi, un paio di successi clamorosi, una bella serie di polemiche tra cui quella suscitata dal dito medio alzato durante l’esibizione con Madonna e Nicki Minaj al Super Bowl 2012. Produce arte grafica, assembla mixtape, disegna vestiti a stampe digital-esotiche. E quando si tratta di far musica è indecisa se essere Chuck D o Madonna, se somigliare al rapper intransigente e politicizzato dei Public Enemy o alla pop star interessata alla celebrità e al costume. Il bello è che M.I.A. non sceglie. È entrambe le cose: l’attivista che solleva polveroni mediatici difendendo la causa dei Tamil e l’artista che collabora con Versace; la rapper che mette in fila parole sovversive e la pop star in cerca di attenzione; la cittadina consapevole e la ragazetta sbruffona. Siamo il prodotto di un cumulo incoerente di stimoli, gusti, influenze. M.I.A. lo ha accettato. Matangi te lo sbatte in faccia.
«È il mio album spirituale», ha detto M.I.A. «I miei punti di riferimento trascendono l’industria musicale. Canto della dea Matangi, che ha inventato la musica cinquemila anni fa». Come dire: non sto nella mischia. È un atteggiamento sorprendente, per l’inglese. Il suo disco più apprezzato, il secondo, era stato prodotto girando per il mondo alla ricerca di stimoli sonori e di una qualche forma di verità per le strade di India, Giamaica, Liberia, Trinidad, Australia, una specie di hip-hop terzomondista. M.I.A. ne era uscita vincente, con un singolo di successo (Paper Planes) e un bel profilo d’alchimista controculturale. Aveva stile e sostanza. L’album successivo cercava di dare un suono all’accumulo sensorial-digitale di questi nostri anni, arrivando a preconizzare lo scandalo Datagate. L’acclamato Kala (2007) e il controverso Maya (2010) – ci metterei dentro pure l’esordio Arular (2005) – non davano l’impressione di essere stati prodotti tenendosi fuori dalla mischia, ma di essere scaturiti da un rapporto gioiosamente irrispettoso con la contemporaneità.
Ora invece M.I.A. pubblica un disco dedicato a una divinità hindu che inizia con un «om» e che è pieno di esotismi musicali integrati alle basi elettroniche confezionate da gente come Switch e Hit-Boy. Nei momenti migliori, questi elementi sono ben amalgamati e Matangi risulta eccitante quando lo era il mixtape di tre anni fa Vicki Leekx. Con quest’ultimo condivide la presenza di Bad Girls, il singolo migliore di M.I.A. dai tempi di Paper Planes. Maya ribalta il significato del singolo di Drake Y.O.L.O. (acronimo di «You Only Live Once», si vive una volta sola) e incide una Y.A.L.A. (ovvero «You Always Live Again») sulla reincarnazione e il karma. Non è solo un richiamo all’induismo, è una pratica artistica: ogni canzone, qua dentro, potrebbe essere una diversa incarnazione della rapper che passa dall’R&B all’electro, dal dub al pop e al reggae in un flusso sonoro che comprende ritornelli canticchiabili (Come Walk With Me, eseguita di recente coi Roots allo show di Jimmy Fallon) e cantilene noiose (Lights), rap apocalittici (Bring The Noise) e un pezzo pensato per Madonna, che però l’ha rifiutato (Sexodus, in collaborazione coi Weeknd). E alcuni (troppi) pezzi che strizzano l’occhio ai club: efficaci, ma meno originali di quelli in cui collidono Oriente e Occidente.
Fantasia e imprevedibilità sono i punti di forza di Matangi. Le canzoni prendono direzioni inaspettate, mutano forma, accelerano o decelerano bruscamente, scartano di lato. È un grande collage digitale che fa dimenticare che M.I.A. non è una cantante dotata (dal vivo è a volte inascoltabile), un collage esaltato da campionamenti bollywoodiani, con (si dice) una collaborazione non accreditata col creatore di WikiLeaks Julian Assange nel gioco di parole di atTENTion e un colpo ben assestato ai detrattori nel minuto di Boom Skit. «Ti invitiamo al Super Bowl» cinguetta Maya facendo il verso ai suoi critici «e cerchi di rubare la corona a Madonna». Il cumulo di stimoli e la presenza di pezzi minori lo rendono a tratti confusionario e sfilacciato, e può darsi che la colpa sia della lavorazione lunga e travagliata, ma per due terzi Matangi è il ritratto sfaccettato di un’artista esuberante, che “parla” un linguaggio sonoro personale. Pesante e leggera, mainstream e underground, fisica e politica: M.I.A. è queste cose assieme, e altre ancora. I suoi dischi ti spiegano che non è necessario tracciare alcuna linea, che non devi cercare un’identità che ti definisca in modo profondo e definitivo. Non c’è alcun forziere culturale da difendere, nel pop non esiste purezza. Tanto vale morire e reincarnarsi, anche solo per la durata di un disco.