Trent’anni di carriera. Potrebbe bastare questo ad accendere un’ammirazione spontanea per una band che, dagli scaffali dei negozi di dischi, entra direttamente nella storia della musica e nella coscienza collettiva di ascoltatori e artisti. Ma sbirciando oltre gli spiragli che s’intravedono tra queste parole, ci si trova davanti a una realtà sorprendente, pura energia sprizzata dai pori di saltimbanchi del genere, una lucida consapevolezza di sé e delle proprie origini che si traduce in un’opera impossibile da ignorare.
Il nono album in studio dei Madness The Liberty Of Norton Folgate travalica la definizione di concept: è il fluire su supporto digitale della vita stessa di una Londra in costante mutamento, afferra l’essenza di una realtà territoriale mai rinnegata, al contrario di molti, anzi vissuta, inspirata ed espirata tra le corde vocali di Graham “Suggs” McPherson e Carl “Chas Smash” Smyth, nel sassofono di Lee “Kix” Thompson, tra i battiti del basso di Mark “Bedders” Bedford e le percussioni di Daniel Woodgate, accentuata dalle chitarre di Chris “Chrissie Boy” Foreman e dalle tastiere di Mike Barson. Ed è proprio Monsieur Barso a svelare il nucleo più intimo di questo disco, un progetto che dalla sua incisione ai versi, passando per ogni singolo accordo, risale alle origini della band britannica, facendo germogliare uno spirito a quanto pare mai sopito, nemmeno dopo il provvisorio scioglimento della metà degli anni 80, e proiettandoli verso un rinnovato futuro.
«Norton Folgate è una zona a nord di Londra», spiega Barson con entusiasmo. «Qualche secolo fa e fino agli inizi del Novecento, aveva un’amministrazione completamente distinta e per questo motivo ospitava di tutto. Anche in tempi più recenti, lì hanno vissuto insieme indiani e pakistani, un crogiolo di umanità che arrivava con le proprie esperienze, tutte diverse e in alcuni casi apparentemente inconciliabili. Ovviamente, c’erano anche molti artisti, ognuno con le sue proposte, e vivevano in uno scambio continuo di idee. Quello che esce dal nostro lavoro è lo spaccato di una città vitale, comunque molto ironico, non è un ritratto sociale o altro. Anche mentre lo stavamo scrivendo, il quartiere era in trasformazione e non potevamo sapere come sarebbe andata a finire. È la sensazione che ti dà in particolare questa zona, per la sua storia e le sue caratteristiche, ma propria di Londra: di non avere mai una fine». Del resto la band arriva spesso a citare la psicogeografia, la disciplina che, in ambito urbano, studia gli effetti dell’ambiente su chi vi abita, e Peter Ackroyd, studioso della cultura londinese. «Quando nasci in una città e ci vivi, diventa il tuo mondo e non puoi far altro che parlare di lei: arrivi a conoscerla a fondo e hai un rapporto fisico e dialettico sia con i suoi lati migliori, sia con quelli da cui vorresti fuggire. Londra è il primo luogo da cui assorbiamo non solo tutte le influenze, ma anche il nostro modo di comportarci, di essere e di vestire. Quindi, ancora prima degli ascolti che ci possono ispirare mentre scriviamo, è naturale parlare di lei… Anzi la sto guardando dalla finestra proprio ora», ride finemente.
Come da tradizione ciascun componente della band ha contribuito con il proprio stile alla realizzazione dei brani. Conseguenza diretta è una vera e propria colonna sonora caleidoscopica, con la skyline della capitale britannica in sottofondo, dove la lotta tra conformismo e avanguardia si aggira sottile, manifestandosi in brani classici nelle strutture che trovano libertà tra finali di oltre 10 minuti o irruzioni ritmiche senza freni. Norton Folgate è il quartiere simbolo di uno spirito che i Madness infondono nel disco, ma di cui da sempre sono portatori sani, una zona indipendente della città, tana di artisti e personaggi eclettici, tra cui lo stesso Christopher Marlowe, in bilico tra dubbia moralità e spinta all’innovazione. «Questo disco nasce a Londra e anche lo studio di registrazione è proprio nei pressi del quartiere che gli da il titolo», continua Barson. «È stata una sorta di ritorno alle radici: non solo per quanto riguarda il parlare della nostra città e il ritornare a sonorità che si erano via via evolute nel corso della nostra carriera. Ad esempio, abbiamo utilizzato una strumentazione anni 60. Tutto questo ha garantito un sound particolare, più caldo e omogeneo, e più vicino a quello che è il cuore originario dei Madness. Adesso il disco riceve recensioni entusiastiche e in effetti un po’ mi chiedo perché: tutti ne vanno matti, addirittura ricevo telefonate dall’Italia che mi chiedono di parlarne e sono qui a chiedermi il motivo».
È un flashback, come dice Barson, che parte dai luoghi dove sono state registrate le innumerevoli tracce preparatorie per il disco, i Toe Rag Studios, ambiti da molti e frequentati da gente come Billy Childish e Supergrass, ma anche prediletti da Jack White. Proprio qui, infatti, è custodito un mixer audio Emi provenienti dagli studi di Abbey Road, insieme a un mucchio di strumentazione vintage, dagli amplificatori agli strumenti, tra i quali spiccano degli Hammond. E se l’intenzione della band era quella di produrre un disco più denso di significato, è indubbio siano riusciti a piazzare una pietra miliare sulla lunga e tortuosa via della musica, impennando nelle loro ispirazioni anziché crogiolarsi nei propri giardini con una coperta di plaid sulle ginocchia, a contemplare secondi posti in classifica di One Step Beyond… nel 1979 e Absolutely l’anno seguente. «Non sono tanto gli elementi musicali che fanno la differenza, quanto piuttosto il modo in cui vengono suonati. Al di là del considerarsi o meno dei bravi musicisti, e per inciso io non mi considero tale, c’è un modo di suonare che caratterizza ciascun membro della band. Alla fine da come suoni si può dire che tipo di persona sei, il tuo background. Un po’ come dire: fammi vedere come suoni e cosa suoni e ti dirò chi sei. Dopo aver sfornato un po’ di dischi, posso dire con certezza che si viene a creare una chimica tutta particolare tra i membri della band, un’unione che porta ad avere un risultato che sarà sicuramente un’opera dei Madness, al di là di come viene suonato il sassofono o il piano, e di quanto sia veloce la batteria».
I Madness sono un unicum che proprio quest’anno celebra i tre decenni di vita, nonostante la già citata sospensione dell’attività e i numerosi cambi di formazione. Mike Barson ha messo in piedi i North London Invaders nel 1976 con Chris Foreman e Lee Thompson, e il primo successo arriva tre anni dopo con la nuova ragione sociale. Lavoratori e teppistelli, i primi Madness inaugurano ufficialmente la carriera con la pubblicazione del debutto e un concerto al pub londinese Dublin Castle, iniziando a farsi notare sì per la musica, ma pure per i costumi improbabili, raccattati in un negozio d’abiti di seconda mano e che avrebbero caratterizzato, nel futuro, il richiamo mai celato a varietà come Monty Python. Almeno sino al placarsi dei bollenti spiriti, a metà anni 80, con …Rise And Fall. Tutto ciò è immortalato solo in parte dal documentario Take It Or Leave It. La storia complessa e sgargiante del gruppo pare prendere linfa vitale da un mondo in veloce trasformazione, che si butta a capofitto nel caos della seconda metà dei 70 e dei primi 80, dove batterie elettroniche e synth dei new romantic spostano il baricentro del rock verso sonorità più edulcorate. «Noi siamo arrivati prima del punk. Con il punk non era necessario essere grandi musicisti, ma avevi comunque un grande impatto. È stato una rivoluzione e uno spartiacque nella storia della musica, prima inglese e poi globale, ha aperto nuove possibilità espressive e distrutto i canoni precedenti. Giusto al tempo della sua esplosione, ci siamo prima messi insieme, poi registrato il primo album e firmato con la 2 Tone. Il sound ska arrivava dalla Giamaica e tradizionalmente era associato alla black music, forse vedere le prime band bianche prendere in prestito quel modo di fare musica era po’ strano. Almeno per alcuni. Tuttavia non credo nella divisione di generi: se fai musica, devi necessariamente avere delle prospettive ampie e assorbire influenze e questo è proprio ciò che abbiamo fatto, assorbendo elementi ska, ma anche rock’n’roll e punk».
Esiste un momento preciso in cui la musica occidentale entra in inevitabile collisione coi lontani ritmi giamaicani: il 6 agosto 1962, giorno in cui l’isola ottiene l’indipendenza da Sua Maestà. Ripercussione immediata è l’emigrazione di centinaia di giamaicani, spinti a cercar fortuna verso il Regno Unito, e proprio nelle grandi città si sviluppa la sottocultura dei rude boys, gli estromessi dalla società ufficiale e generalmente disoccupati, che è facile scovare al seguito di sound system itineranti e impegnati in gare tra rivali, spesso violente. Sono ragazzi (e ragazze) dall’abbigliamento mutuato dai gagster americani con scarpe in pelle lucida, che trasmettono nello ska, importato direttamente da oltreoceano, la nuova filosofia di vita: i ritmi rallentano e le pulsazioni si fanno più profonde, la minaccia è oscura, a esaltare la componente malavitosa che, suo malgrado, contraddistingue questa prima era. Ma il sincretismo tra le culture non tarda a nascere e la Rudie Can’t Fail dei Clash ne è un esempio illuminante: ska e reggae si trovano a collidere con i ritmi e le prerogative del punk-rock, non ultima la schiettezza dell’esecuzione, fino alla seconda metà degli anni 70 quando questa tendenza prende corpo nella produzione dei Coventry Automatics, in seguito meglio noti come Specials. «Eravamo al posto giusto al momento giusto perché, a dir la verità, non ho mai pensato valessimo un granché come musicisti. Abbiamo registrato il primo disco e iniziato a suonare in giro, da lì tutti ci accoglievano come se avessimo reinventato la musica. In realtà è stato piuttosto facile agli inizi, e non eravamo certo i soli a essere preda di questa tendenza. Credo che il segreto, tuttavia, stia nel fatto che non ci siamo mai veramente presi sul serio… e probabilmente è per questo che, dopo tanti anni e tante cose che sono successe, siamo di nuovo qui».
È proprio con gli Specials, e in modo particolare con il tastierista Jerry Dammers, che lo ska britannico diventa vero e proprio genere, manifestandosi in mattoni e scartoffie con la fondazione della 2 Tone Records nel 1979, etichetta discografica e, di lì a poco, vero e proprio identificativo di genere. I “due toni” sono quelli del bianco e del nero indossati dai primi artisti ska giamaicani approdati all’ombra della corona, così come il bianco e nero causa delle tensioni razziali. Ancora, i rude boy tornano nel logo dell’etichetta, con il personaggio di Walt Jabsco. Inoltre, se il primo ska prende linfa vitale da calypso e mento, fondamentale è la sua contaminazione con il jazz americano e il rhythm & blues, in un continuo scambio di sonorità captate dalle trasmissioni radio dell’isola, così come di Miami e New Orleans, che prendono lentamente la loro strada con il rocksteady. Diversamente, in Europa basso, batteria, chitarre, tastiere e ottoni danno origine a una musica in quattro quarti fatta per ballare, e la combinazione con il punk-rock non fa altro che dare uno schiaffo all’eccitazione da essa trasmessa. È così che il cosiddetto two tone ska, suonato anche da bianchi e non più solo da immigrati giamaicani, dà vita alla seconda ondata di questo genere, popolata da nomi come Bodysnatchers, Bad Manners, Beat e gli stessi Specials. Il tutto senza dimenticare che, dalla metà degli anni 60, la vecchia Inghilterra porta in gloria una conquista: quella degli Stati Uniti, ad opera della British Invasion. «Siamo stati paragonati spesso ai Kinks sia per la nostra musica sia per il fatto di essere visti un po’ come fuori di testa», dice a tal proposito Barson. «Sinceramente penso che quello che hanno fatto, e il contributo che Ray Davies ha lasciato, siano su un altro livello: non solo per il suo modo di suonare la chitarra, ma anche nella costruzione dei brani, nelle melodie… Insomma, non è possibile non amarli e loro sì che hanno dato un contributo a tutto ciò che è venuto dopo».
Nonostante la modestia di Monsieur Barso, il dato evidente è che l’onda dello ska britannico non si è sopita, ma è persino arrivato un terzo tempo, spostandosi nuovamente oltre l’Atlantico e, questa volta, negli Stati Uniti. Le band americane mutuano lo stile del two tone ska e non tanto di quello tradizionale, accentuando la componente punk e rock e l’immediatezza dell’esecuzione, predilezioni di gruppi che vanno dai Less Than Jake ai No Doubt. «Oggi, diversamente da trent’anni fa, è sicuramente più facile farsi spazio. S’impara più facilmente a suonare e anche registrare un disco è un processo più semplice e meno costoso. Quando abbiamo iniziato, essere una band era un impegno non alla portata di tutti e non era possibile diffondere la propria musica in modo immediato, bisognava passare attraverso le radio e organizzare tour. Di contro, vedo cose che mi lasciano perplesso, come artisti ridotti a bambolotti vestiti e preparati per fare una cosa per cui ti sei sbattuto anni. Ci sono addirittura reality che ti preparano a essere un musicista».
Ma in fondo, poco importa. Quel che conta è che i Madness non si sono reinventati, si sono anzi spogliati del superfluo e hanno tolto la polvere dalle giunture, scavando a fondo e plasmando la propria anima, vitale e britannica come non mai. Per un disco che è loro essenza, e quest’essenza è inimitabile, e che scava solchi dei vinili e nell’entusiasmo da oltre tre decenni.