«Che cos’è il genio?», si chiedeva il barista Necchi in una celebre scena di Amici miei di Mario Monicelli: è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione. In due parole, John Lydon. Tacciato di essere un semplice burattino mosso da persone molto più scaltre di lui, l’allora Johnny Rotten fu il vero fautore della rivoluzione punk: musicalmente parlando, i pezzi dei Sex Pistols erano molto più classici di quello che si voleva far credere, furono i suoi testi a rompere davvero con il passato. Rotten non era il rozzo ignorante che i media cercarono di dipingere, ma un fine osservatore, in grado di esplicitare un disagio che nessuno scrittore a lui contemporaneo era in grado di cogliere. Inoltre, solo un anno dopo aver scritto God Save The Queen, quando il mondo pullulava di ragazzi col chiodo e le spille da balia, Rotten fu il primo a intuire che la rivoluzione si era già trasformata in business e, con il primo album dei PiL, diede in pratica vita alla new wave.
Di acqua ne è passata sotto i ponti dall’ultimo disco in studio dei Public Image Limited, ma le sparate continue su colleghi, politica e music business, le discusse partecipazioni a show televisivi, uniti alle controverse reunion con i Sex Pistols degli ultimi anni, hanno continuato ad alimentare la fama di personaggio scomodo e contraddittorio. Oggi Lydon è meno marcio di un tempo, i denti sono rifatti e il suo tipico accento cockney è meno marcato, ma sentirlo ridere mette ancora i brividi come al primo ascolto di Anarchy In The UK. I testi di This Is PiL, primo album in studio da That What Is Not del 1992, dimostrano che il fuoco non si è ancora spento: che la tradizione continui.
Il mondo aveva davvero bisogno di un nuovo album dei PiL?
«Il mondo ha sempre bisogno della musica dei PiL, ma soprattutto ne avevo bisogno io. Sai, tutti pensano che mi sia arricchito con il music business, ma la storia della grande truffa del rock’n’roll è una gran bufala. O meglio, c’è stata, ma io non ci ho ricavato un soldo. In pochissimi ci hanno davvero guadagnato e sai bene di chi sto parlando. Per ottener soldi per i miei album ho fatto di tutto, sono andato in televisione ricevendo tonnellate di insulti e sberleffi. La gente diceva che avevo venduto tutto quello per cui ero incazzato nero negli anni ’70, senza pensare a cosa poteva esserci dietro. Con i soldi della tv sono riuscito a distribuire la mia musica, che nessuno voleva finanziare. Ti dirò di più: per poter realizzare This Is PiL abbiamo dovuto fare due anni di tour in giro per il mondo».
Sinceramente pensavo non t’importasse di quello che dice la gente.
«E sostanzialmente è sempre stato così. Però sono un essere umano anch’io e la cosa non poteva scivolarmi addosso senza strascichi. Ai tempi preferii non entrare nei particolari, per una questione di dignità personale e per non fare la figura di quello che si piangeva addosso, ma ora è passato qualche anno e riesco a parlarne in modo più distaccato. Ho iniziato persino a dire la verità su I’m A Celebrity… Get Me Out Of Here!, per il quale vengo ancora denigrato: donai in beneficenza tutti i soldi che mi diedero. Il mondo è così: ti trattano come un coglione, poi parli di beneficenza e diventi una persona degna di rispetto. Quindi ora sono un benefattore».
Insomma non è cambiato niente negli anni…
«Sono cambiato io. Una volta sapevo solo odiare, oggi sono aumentate le sfumature del mio carattere. Di sicuro non è cambiata la società, non sono cambiati i governi, né la stupidità di chi crede nei dementi che tirano i fili delle loro esistenze. La gente non ha memoria, si dimentica subito della merda in cui vive e tende a rifare gli stessi errori. Sarà sempre così. Manca l’amore, manca il perdono e mancano in primis nelle persone che ne parlano, come in quasi tutti gli esponenti del clero e tante altre figure indegne che fanno il male insegnandoti il bene. L’unica figura degna di rispetto è Gandhi, i suoi insegnamenti restano universali. Se fossimo tutti più generosi nei confronti del prossimo forse col tempo qualcosa potrebbe anche cambiare. Ma non succederà mai. Gandhi verrebbe ammazzato altre diecimila volte».
Sentirti parlare di perdono fa un certo effetto. Penso alle dichiarazioni sprezzanti riguardo a tante persone che hai frequentato nella tua vita…
«Se parlassi ancora come nel 1976, sarei davvero il coglione che tutti pensano che sia. Idem se, col tempo, non capissi i miei errori. So che ti riferisci alla parole dette nei confronti di gente come Malcolm McLaren. Sappi che ho perdonato anche lui».
Però gli augurasti ogni male, tra cui il tumore per il quale è morto.
«Me ne vergogno. Ma lui ci rovinò la vita, ci usò come burattini del suo gioco e scappò col bottino. Eravamo troppo giovani, troppo fatti e troppo ingenui. Lui era più grande e ne approfittò. Con gli anni, però, ho capito che quello fu il grande problema irrisolto della sua esistenza: appena si veniva a creare una situazione che non riusciva a gestire, lui fuggiva. Non era cattivo, ma ha fatto male a molte persone».
Torniamo ai PiL. Il titolo del nuovo album fa pensare allo stesso tempo a una dichiarazione di intenti e alla chiusura di un cerchio. È così?
«This Is PiL è un classico album dei PiL in cui è facile trovare un filo conduttore con la produzione passata della band. Allo stesso tempo, penso sia un album folk, nel senso più primitivo del termine. Molti non comprendono cosa intendo dire con questo, pensano mi stia prendendo gioco delle tradizioni, invece è proprio il contrario. In fondo dentro di me vive una buona dose d’Irlanda, quindi le mie radici sono quelle. Questo è l’album folk dei PiL, racconta le mie origini e le mie tradizioni, cuore e anima».
Possiamo definirlo l’album più autobiografico della tua carriera?
«Penso proprio di sì. Quando scrivo non penso mai a cosa può nascere, non ho mai una visione precisa di quello che sto scrivendo, da questo punto di vista sono uno scrittore atipico. Mi piace dire la mia su molti argomenti, in pratica su tutto quello che attrae la mia attenzione e devo dire che, purtroppo, le fonti d’ispirazione continuano ad essere molteplici. One Drop è di sicuro il brano più personale che abbia mai scritto, racconta di quando ero adolescente nei sobborghi di Londra. Che bello essere giovani, bisogna restarlo per sempre, non dimenticarlo mai. È uno dei miei pezzi preferiti del disco».
I Must Be Dreaming sembra il brano centrale del disco, almeno dal punto di vista del testo.
«È il grido di dolore che provo ogni volta che penso all’Inghilterra, ridotta in cenere da decenni di governi scriteriati e da un’istituzione totalmente inutile e dannosa come quella monarchica, che non ha mai avuto senso di esistere e che oggi è patetica. Non so se fosse più una testa di cazzo Tony Blair o quel coglione che è arrivato dopo. Anche l’America è allo sbando, ma almeno hanno avuto le palle di votare uno come Obama, che non avrà fatto tutto nel migliore dei modi, ma è uno che parla col cuore».
Beh, da questo punto di vista ci hai sempre visto lungo. Al di là del celebre «no future», sentire oggi World Destruction che hai inciso con Afrika Bambaataa mette ancora i brividi.
«In certo senso I Must Be Dreaming può essere vista come un proseguimento ideale di quei temi. La cosa più angosciante di World Destruction è che non è cambiato nulla: benché ai tempi la paura più grande sembrava essere quella di una guerra nucleare, le tematiche del testo restano di un’attualità sconcertante. “I ricchi diventano più ricchi e i poveri più poveri” [canta al telefono]. Ai tempi di Anarchy In The UK dissero che ero un nichilista da quattro soldi, e il progetto Time Zone con Afrika Bambaataa fu tacciato di catastrofismo…».
È vero che avevi contattato i membri originali dei PiL, ma hanno rifiutato l’invito a riunirsi con te?
«Verissimo. Credono tutti che io sia un grandissimo stronzo, ma si sbagliano. In realtà se gli fosse stata fatta un’offerta milionaria avrebbero accettato, è solo una questione di soldi, come in tutte le cose della vita. Forse credono che io sposti soldi come Madonna, sono completamente pazzi. Tra l’altro so che anche lei inizia ad avere qualche problema a vendere dischi. Finalmente la gente inizia a capire cosa è spazzatura e cosa vale davvero. Questo grazie alla crisi. E in ogni caso il suo disco fa schifo e quell’allusione all’ecstasy è patetica. Faccia un piacere a tutti e lasci parlare chi ne sa qualcosa. Apprezzo molto di più Britney Spears, che almeno quando è stata male non si è vergognata di mostrarlo al mondo».
The Room I Am In parla proprio del tuo rapporto con la droga.
«Ne parlo in modo indiretto, spiego che la droga aiuta solo a peggiorare la situazione di chi è già emarginato. Non faccio il moralista, né tantomeno punto il dito contro qualcosa o qualcuno, ma bisogna accettare il fatto che non tutto quello che fai nella vita è giusto. Se esortassi i giovani ad abusare delle proprie vite sarei un incosciente. Penso moltissimo a Sid, è una specie di ossessione. Avrei potuto fare di più, avrei dovuto, ma ero troppo coinvolto nella situazione per riuscirci. Ora capisco che portarlo nella band indirettamente lo uccise, perché poteva trovare droga con ancora più facilità e io non ho fatto nulla per impedirlo. Spero riesca a perdonarmi».
Quando prende forma, ti chiedi mai se un brano è più adatto a un progetto solista piuttosto che ai PiL o ad altro?
«Erano vent’anni che non pubblicavo un album con i PiL, ma solo per i problemi di cui ti parlavo, soprattutto di tipo economico. In mezzo ci sono stati anche due tour con i Sex Pistols, dischi solisti e collaborazioni, ma quando scrivo ormai lo faccio pensando solo ai PiL. Non devo sforzarmi o decidere se scrivere in un modo o nell’altro, semplicemente i brani che nascono non potrebbero che stare su un album dei PiL. Sono loro la band della mia vita».
Al di là dei cambi di formazione che ne hanno caratterizzato la storia, il gruppo ha ancora un suono riconoscibilissimo. Certo, lo strumento-voce ha un bel peso da questo punto di vista…
«Ho sempre pensato che la voce abbia la stessa dignità di qualsiasi altro strumento. Col tempo ho iniziato anche io a suonare, capendo che non era poi così difficile: basta prendere uno strumento e fare qualcosa. E dire che ne ho fatta di musica con gente scarsissima, avrei potuto capirlo molto prima che è solo una questione di cuore [ride]. Ho sempre avuto la sensazione che tutti quelli che sono entrati in formazione dalla metà degli anni ’80 lo abbiano fatto con molto rispetto per la storia della band. Penso a un ragazzo come Steve Vai, che sembrava la persona più lontana dalla mia musica e si rivelò una delle persone più belle con cui lavorare e passare il tempo. E a 18 anni suonava con Frank Zappa… Lavorare con musicisti di estrazione musicale diversa dalla mia mi ha sempre stimolato moltissimo e mi ha fatto crescere come uomo e come artista. Anche questa volta è successo: Scott Firth ha un background musicale fatto di collaborazioni con Steve Winwood ed Elvis Costello».
Continuo a credere che Psycho’s Path, il tuo album solista del 1997, sia un grandissimo disco incompreso.
«Per molti addetti del music business resterò sempre un coglione. Mi rivaluteranno tutti da morto, come accade sempre. Ho creduto moltissimo in quell’album, ci ho fatto suonare gente come Moby, che ancora non era nessuno. In sostanza però non me ne frega assolutamente nulla».
Il fatto che tu abbia realizzato un nuovo album con i PiL fa sperare ai fan che, prima o poi, possa succedere anche con i Pistols.
«Non escludo che ci possano essere altre reunion nei prossimi anni e dicendoti così in qualche modo te lo sto confermando. Una cosa è certa però: non comporrò mai più nuove canzoni con loro, non avrebbe senso. Sono cambiato e scrivere qualcosa a nome Sex Pistols vorrebbe dire tornare artificialmente dentro a un mood che non mi appartiene più. Non sto rinnegando nulla, anzi. Ora però sarei patetico, perché non sarei genuino. Ai tempi odiavo tutto e tutti, col tempo ho letto tanto, mi sono fatto una cultura e ho capito molte cose. Ho capito che perdonare è difficile, ma fondamentale. Che senso avrebbe scrivere un brano che fa cagare solo perché i miei fan sarebbero contenti della notizia?».
Avete rifiutato da poco di partecipare ai concerti per la celebrazione delle Olimpiadi di Londra.
«Sì, stanno cercando di riunire le band più influenti della storia del Regno Unito e avrebbero voluto anche i Sex Pistols. Il fatto è che se voglio tornare a suonare con la band devo essere io a deciderlo, non un comitato che ci sceglie come figurine di un album. D’altra parte non so come avrebbero fatto a gestire noi e le Spice Girls sullo stesso palco, mi sembra davvero grottesca come immagine. Ora mi godo i commenti: qualcuno dice già che abbiamo detto di no perché l’offerta era troppo bassa, altri che mostriamo coerenza solo quando vogliamo. Tutti a chiederci di suonare: quando rifiutiamo siamo snob e quando invece accettiamo, siamo dei venduti!».
In effetti qualcuno vi considera una delle band più contraddittorie della storia.
«E sai perché? Perché siamo sempre stati fuori dagli schemi, anche quando abbiamo fatto scelte diverse da quelle che la gente si aspettava da noi. Ci siamo riuniti dopo vent’anni di richieste e ci hanno detto che avevamo venduto i nostri ideali, senza capire che io ho sempre fatto solo quello che volevo. Se non avessi voluto, sarei stato a casa. Non andava bene che guadagnassimo, come se per avere una dignità dovessimo morire di stenti, è assurdo! Guarda che casino è venuto fuori per la decisione di Axl Rose di non farsi inserire nella Hall Of Fame: noi l’abbiamo fatto prima di tutti. Se non credi in qualcosa, perché farlo?».