19/06/2007

Mama

Quando la world music è donna

Omara Portuondo, Virginia Rodrigues, Miriam Makeba, Cesaria Evora. Lo straordinario impatto che queste interpreti di classe, non più giovanissime, sono in grado di esercitare all’interno di un panorama musicale sempre più inflazionato da giovani meteore dovrebbe fare riflettere.

La musica world è infatti da sempre una delle poche espressioni in cui non è necessariamente valida l’equazione che coniuga il successo alla giovinezza con i suoi attributi di esteriorità e bellezza. La Evora ha sessant’anni, la Portuondo e la Makeba hanno superato i settanta, mentre la Rodrigues, pur essendo molto più giovane, non è certo l’interprete che si impone per il suo fisico, eppure il loro successo è stato limpido, cristallino, spontaneo. La capacità di evocare sentimenti e l’esistenzialità espressa dalle loro voci sono andate oltre qualsiasi parametro dell’effimero e hanno rispolverato il vero concetto di arte inteso come comunicazione viscerale. (r.c.)

Omara Portuondo
    

Riscoperta dal film Buena Vista Social Club, Omara Portuondo ha al suo attivo una lunga carriera artistica iniziata in giovane età, prima come ballerina, sulle orme della sorella, e poi come cantante nel Cuarteto Las D’Aida.

“Il grande pubblico di oggi”, racconta durante un nostro incontro, “mi conosce per aver interpretato il film di Wenders e di conseguenza per il repertorio di canzoni cubane tradizionali che ho interpretato in quell’occasione e che costituisce tuttora il contenuto del mio ultimo disco, ma la mia storia di cantante va ben oltre. Nei primi anni Cinquanta interpretavo standard di jazz americano con un gruppo di amici che includeva tra gli altri Cesar Portillo de la Luz, Josè Antonio Mendez e il pianista cieco Frank Emilio Flynn che lo si poteva già sentire suonare nei night club de L’Avana.

Poi arrivò la bossa nova che mi piaceva cantare contaminata col jazz, uno stile che prese il nome di filin, e mi conquistai le prime simpatie. Allora mi presentavo in scena con il nome di miss Omara Brown, erano di moda i nomi americani, così me ne procurai uno anch’io, ed ero nota come la novia del filin (la fidanzata del filin, nda). Durò poco perché nel ‘52 formai un quartetto fatto di sole donne, che prese il nome da quello della pianista Aida Diestro, destinato a diventare il più importante gruppo femminile della musica cubana.”

Per arrivare al debutto da solista bisogna aspettare il 1959, quando la Portuondo incide Magia Negra, un album ancora una volta incentrato su un mix tra musica cubana e jazz in cui spicca una versione di Caravan di Ellington.

Quando nei primi anni Sessanta si delinea la crisi cubano-americana a causa dei missili russi, Omara sta cantando in un locale di Miami insieme alla sorella e, al contrario di quest’ultima, decide di rientrare precipitosamente a Cuba. Diviene in breve tempo un’autentica stella e rappresenta il suo paese al Sopot Festival in Polonia, in cui canta Como Un Milagro di Juanito Marquez, canzone che le permette di conquistare una notorietà internazionale.

“A L’Avana vado in scena ancora regolarmente e il mio repertorio varia a seconda del pubblico che mi viene ad ascoltare. Quando per esempio mi esibisco al Tropicana, un teatro frequentato quasi esclusivamente da turisti, vengono in gran parte richieste canzoni della tradizione cubana; quando invece canto al Teatro Nacional viene a sentirmi la gente del posto, anche molti giovani che apprezzano tanti altri motivi : rumbe, havaneras, sones e standard di jazz. A questo proposito sul mio ultimo disco ho inciso la versione in spagnolo di The Man I Love.”

Quando le chiedo quale sia il genere di musica che preferisce cantare Omara mi risponde: “Dopo tanti anni di carriera ho imparato ad amare molte canzoni appartenenti a generi diversi tra di loro, ho capito che quello che fa grande una canzone è lo spirito con cui viene scritta. Se riconosci in una canzone onestà e trasposizione di uno stato d’animo genuino puoi farla tua e conseguentemente interpretarla nel modo giusto. Certo, in genere le canzoni con un ritmo lento e ammaliante si prestano maggiormente ad essere interpretate con passione e forse le preferisco”.

Molto si è detto a proposito delle canzoni apparse nel film Buena Vista Social Club, ma quanto abbia effettivamente influito la presenza di Ry Cooder nella loro riproposizione non è ancora del tutto ben noto. “Lo conobbi cinque anni fa quando venne a Cuba a registrare con i Chieftains e lo rincontrai poi in occasione del film, anzi in quest’ultima occasione me lo ritrovai proprio negli studi del World Circuit mentre stavo incidendo e fu lì che venni invitata ad eseguire il bolero Viente Anos insieme a Compay Segundo. La canzone fu registrata e inserita nell’album esattamente come la cantai e così successe per tutti gli altri pezzi, in particolare quelli eseguiti da Ruben Gonzales con il solo piano. Le canzoni che dovevano essere sostenute da un ensemble strumentale più massiccio sono invece state orchestrate, ma questo era inevitabile. Certo, poi nella loro versione originale l’accompagnamento di alcune canzoni era fatto con il jug piuttosto che con il basso, ma lo spirito è sicuramente rimasto uguale all’originale.” (r.c.)

Virginia Rodrigues
    

È una nuova stella nel firmamento della musica brasiliana. Scoperta quasi casualmente da Caetano Veloso, Virginia Rodrigues, trentacinquenne, ex manicurist e domestica degli slums di Salvador de Bahia, con soli due album al suo attivo è diventata una delle più apprezzate interpreti del samba e di quel mondo legato alle musiche del carnevale. La sua capacità interpretativa è strabiliante e la sua presenza sul palco alterna lo statuario al passo di danza appena accennato, una leggerezza che va oltre la sua fisicità e la rende grande personaggio, ipnotico e evocativo.

Il suo primo disco Sol Negro contiene splendide interpretazioni di Gilberto Gil e Chico Buarque, mentre l’ultimo lavoro Nos riprende a piene mani dai repertori di alcuni dei più leggendari Carnival Group come Ile Ayé, Olodum e Afrekété.

“Il mio incontro con Caetano Veloso è stato del tutto fortuito”, mi racconta Virginia al termine del suo concerto al Ciak di Milano. “Tre anni fa stavo cantando in uno spettacolo dell’Olodum Theather e lui è rimasto affascinato dalla mia voce. Per me è stato l’incontro della vita perché subito dopo mi ha proposto di incidere Sol Negro che mi ha fatto conoscere in tutto il mondo e partecipare ad alcuni concerti con personaggi del calibro di Cesaria Evora, Jesie Norman e Clementina de Jesus.”

La sua voce straordinaria deve certamente molto alla massiccia struttura fisica, ma l’impostazione rigorosa e sicura della vocalità la si deve probabilmente anche ad uno studio particolare. “Ho preso lezioni di canto lirico perché sono sempre stata affascinata dalla musica colta europea e sapevo di essere in possesso di una voce che mi consentiva spazi di miglioramento. Devo molto però anche al periodo in cui cantavo nelle strade e nei locali di Bahia, dove per farmi ascoltare ero costretta a tenere dei toni molto alti alternati ad altri molto profondi. È stato un esercizio utile.”

L’album dedicato alle canzoni del carnevale è un omaggio alla tradizione brasiliana, ma forse anche a quella africana in cui questa festa sembra aver avuto la sua genesi.

“Per quel che mi riguarda il carnevale non è tanto legato alla tradizione africana quanto invece a quella brasiliana con tutti gli attributi religiosi e ludici che gli sono relativi. Il carnevale per un brasiliano è un evento che coinvolge totalmente per cui è stato molto intrigante andare a rivisitare canzoni che avevano già inciso gruppi da me considerati autentici punti di riferimento.”

La voce di Virginia Rodrigues colpisce nel profondo per lo spirito evocativo che possiede e rimanda a qualcosa di quasi mistico, per questo le chiedo quanto influisca la componente religiosa all’interno della sua musica. “Io sono una seguace della religione Candomblé (credenza animista con elementi di religione cattolica e divinità proprie dette orixas, nda) e per me ha un’importanza fondamentale che sicuramente si manifesta anche nelle mie canzoni. Componenti estatiche e ipnotiche di antica origine africana sono normalmente presenti nelle musiche che evocano il carnevale, le ho sempre percepite e ora che canto probabilmente le riesco anche ad emanare.”

Viste le enormi potenzialità della sua vocalità e considerato il tipo di canzoni che ama interpretare, sarebbe interessante ascoltarla in qualche performance per sola voce. “Nel mio passato ho più volte cantato a cappella, un genere a cui tengo molto tanto è vero che anche attualmente mi capita di interpretare solo vocalmente qualche canzone. È però un genere molto faticoso e bisogna essere in perfette condizioni per evitare di fare brutte figure. Fino ad ora non se ne è mai parlato, ma prima o poi è anche possibile che incida un disco per sola voce.” (r.c.)

Miriam Makeba
    

Miriam Makeba, la mitica Mama Africa. Fin da bambina, in occasione della visita ufficiale di Giorgio VI in Sudafrica, viene scelta per cantare davanti a un re annoiato che sfila con la sua limousine senza degnarla di uno sguardo. Poi comincia la sua carriera come interprete di Kwela. Si esibisce in piccoli bar e arriva in breve a cantare le melodie classiche del jazz in uno dei gruppi più famosi di allora, i Cuban Brothers, interpreta successivamente il musical African Jazz And Variety Review e assume, nel 1959, la parte dell’eroina nel musical King Kong, la chiave che le apre la porta del successo internazionale. Partecipa a molti festival, tra i quali quello di Cannes, viene invitata a New York per esibirsi al Village Vanguard Jazz Club e finisce per cantare al party di compleanno del presidente John Kennedy.

Tutto questo sotto la guida dell’amico fraterno Harry Belafonte, col quale pubblica una serie di brani: Click Song, West Wind, Zoulou Song e Pata Pata, il primo grande successo di un brano africano (1967) che si piazza nella Top 10 della classifica pop americana e lancia il drammatico messaggio dell’apartheid.

L’esilio della Ma-keba è lungo e doloroso e sarà destinato a finire solo nel 1990 con l’avvento di Nelson Mandela alla carica di presidente della Repubblica Suda-fricana. “Dopo qua-si trent’anni di lontananza dalla mia terra mi sento ringiovanita”, ci dice la Makeba durante un nostro incontro parigino. “Dopo tutti questi anni di divisioni assurde la cosa più bella è vivere ogni momento profondamente. Ho sempre detto che l’Africa è dove il mio cuore giace, ma di tutto il tempo passato in esilio ho ancora molto viva la profonda nostalgia che sentivo per la mia terra. Ora l’Africa è su buoni binari, l’eredità di Mandela mi ha molto confortata, in modo particolare mi ha fatto piacere che tutte le sue proposte, e non soltanto quelle a sostegno dei movimenti anti-apartheid, siano state realizzate alla lettera e il mondo intero lo abbia sostenuto. Un sostegno che si è concretizzato in un’opera di sensibilizzazione incredibile con tante testimonianze importanti e lo sviluppo di innumerevoli attività educative e culturali.”

“La vittoria del presidente Mandela ha avuto anche un grande impatto psicologico sull’intera Africa, una personalità come la sua stimola gli altri a seguire l’esempio e tutta l’umanità ne viene elevata, il suo successo è una luce di speranza per milioni di persone che lottano per sopravvivere. Vi posso citare infine due esempi dell’effetto Mandela: il colpo di stato in Costa d’Avorio che è avvenuto senza guerra civile e il cambio di governo in Senegal che ha avuto luogo democraticamente, con elezioni regolari.”

Dal suo ritorno in patria Miriam Makeba ha aspettato otto anni per cominciare ad elaborare il nuovo album, Homeland, una specie di omaggio alla sua terra natià colmo di dolcezza e di sentimento, una manciata di canzoni velate di malinconia che sono recentemente apparse sul mercato. “In questo disco ho voluto metterci un po’ di tutto ciò che è legato al mio rapporto con il Sudafrica. Le canzoni parlano di politica, delle ingiustizie, della religione dell’esilio e anche di misticismo. Per l’occasione ho incluso una versione 2000 di Pata Pata per parlare anche del presente e non solo del passato. E proprio per dimostrare che guardo a ciò che accade oggi mi sono avvalsa di un cast di giovani musicisti come Lukua Kanza, Nelson Lee e Zenzi Lee e ho utilizzato per queste canzoni arrangiamenti moderni, dal sapore quasi pop.” (b.l.)

Cesaria Evora
    

È nata nella cittadina portuale di Mindelo, a Sao Vicente, un’isola dell’arcipelago di Capo Verde, crocevia ideale per i commerci tra Europa e Africa frequentato da oltre cinquecento anni da viaggiatori di varia etnia che rendono ancora oggi difficile la comprensione tra abitanti delle isole circostanti.

Le musiche di Cesaria Evora sono la morna e la coladera, una specie di blues dell’Atlantico sviluppatosi all’inizio del secolo dalle influenze e dalle mescolanze del vicino fado portoghese con altri ritmi che arrivavano di rimando dal sudamerica come il tango, il son e il samba.

“La musica di Capo Verde”, racconta Cesaria Evora durante una nostra chiacchierata, “ha in sé molto della cultura della madre Africa, ma anche tanto di quella europea che ci ha colonizzato. Poi a queste se ne sono aggiunte altre derivate dai continui contatti con la gente di mare che proveniva da mille paesi. Non è un caso che i locali dove si faceva musica fossero soprattutto concentrati nelle città della costa dove il commercio era florido. Nel mio ultimo album, Cafè Atlantico, ho proprio voluto sottolineare il valore simbolico che questi locali assumono per la gente del posto sia dal punto di vista culturale che da quello dello scambio di esperienze. Oltre a significare riparo dalle tempeste, costituiscono anche un riferimento che salva dall’isolamento.”

Le canzoni della Evora sono spesso malinconiche e piene di nostalgia, in esse ricorrono spesso termini come morabeza e saudade, coniati proprio in virtù delle caratteristiche migratorie della sua popolazione.

“Sono due termini molto usati per definire lo stato d’animo della mia gente, ma hanno significati diversi”, spiega la Evora. “Morabeza sta a significare la gentilezza e la generosità che viene riservata agli stranieri che arrivano in un posto nuovo per lavorarare, è la consapevolezza della tristezza che lo straniero si porta appresso e il tentativo di alleviarla da parte dell’ospite, mentre la saudade è qualcosa di più personale. È un sentimento che nasce con l’abbandono della propria terra da parte dei propri cari, è la nostalgia che si prova quando un familiare è lontano da casa e non si sa quando ritornerà. La morna nasce proprio in queste occasioni, le prime canzoni venivano costruite in modo libero con degli arrangiamenti assolutamente personali. Solo successivamente, con le prime registrazioni, si è cercato di dare una forma più strutturata al genere. È stata un’esigenza commerciale che necessitava dei riferimenti precisi.”

Nell’ultimo album la Evora ha introdotto nell’orchestra che normalmente l’accompagna nuovi musicisti provenienti da Cuba, un modo per allargare la musicalità, ma forse anche per trovare nuovi stimoli.

“La musica cubana è sempre stata presente come influenza primaria nella morna”, spiega. “Il son cubano è nato esattamente nello stesso modo perché è stato originariamente elaborato proprio dai discendenti degli schiavi africani deportati. È normale che abbia voluto allargare il mio organico orchestrale con musicisti cubani perché hanno la stessa nostra sensibilità e dietro i loro suoni c’è la stessa nostalgia.” (r.c.)

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