Conviene partire dalla fine, dal gruppo stremato sul palco che si gode l’entusiasmo di un pubblico che è riuscito a mandare sold out l’Alcatraz in entrambe le serate. Per quanto il locale fosse a capienza ridotta, erano anni che il gruppo non otteneva un simile riscontro, anni nei quali si è trovato a dover girovagare tra location più o meno sperdute tra i monti. E oggi invece siamo al quasi trionfo, pur con le dovute proporzioni.
I motivi sono molteplici. A partire dalla formula: due date concepite come una sorta di happening in due atti, con due scalette diverse, dove solo gli estratti dall’ultimo album Sounds That Can’t Be Made sono state ripetute (la promozione ha comunque il suo peso). Dopo anni di rodaggio con le convention organizzate per i fan club il gruppo ha deciso di esportare la formula su più serate anche nei tour. Una lunghezza che permette di spaziare maggiormente nel repertorio, attirando più pubblico e confezionando spettacoli che stanno in piedi anche singolarmente per chi deve accontentarsi di una singola data. In questo caso molto meglio la prima serata a livello di scaletta, ma in compenso la seconda si è giovata di un finale killer con Steve Hogarth letteralmente posseduto e capace di prendere la sala per la gola e trascinarla con sé.
E qui c’è il secondo motivo del successo: Hogarth. Se dal punto di vista vocale il cantante non è mai stato in discussione, la sua crescita sotto il profilo della tenuta scenica è evidente. È come se, dopo anni di fantasmi sulle spalle, si fosse calato nei panni di leader del gruppo. Un frontman fatto e finito, capace di gigioneggiare quando la situazione lo permette e di entrare nelle canzoni e viverle al limite del parossismo, al punto da rischiare più volte di andare sopra le righe nell’interpretazione. E il pubblico ne è stato talmente rapito da perdonare qualche piccola caduta di gusto (la tracolla della chitarra in pelliccia stile coprivolante anni ’70 o il palandranone con artigianale segno della pace indossato per Gaza) o di diplomazia (spiegare di non voler eseguire Montreal richiesta a gran voce perché «riservata solo alle occasioni speciali» ha attirato qualche protesta).
Infine buona parte del merito va all’effetto che sul pubblico ha avuto Sounds That Can’t Be Made, apprezzato da molti, in particolare da una nuova fetta di pubblico, che si poteva notare nel ringiovanimento delle facce presenti. E se questo ha significato un’ulteriore spaccatura con parte della vecchia guardia, pazienza. Gaza, la title track e The Sky Above The Rain sembrano essere state già adottate come piccoli classici, per quanto, in entrambe le serate, Power sia apparsa una spanna sopra le altre per compattezza, atmosfera, apertura melodica e, a differenza delle sopraccitate, capacità di battere strade nuove. Che poi Warm Wet Circles/That Time Of The Night (unico sopravvissuto dall’era fishiana), gli estratti da Brave o Invisible Man e Neverland siano stati dei rigori a porta vuota va quasi da sé, ma il poter costruire lo show spaziando tra il presente, il passato prossimo e quello remoto senza tabù e senza saliscendi qualitativi tra un pezzo e l’altro certifica la statura dei Marillion, un gruppo che dopo oltre trent’anni di carriera merita ancora di regalarsi (e regalare) serate come queste.