15/11/2013

Massimo Donno, canzoni d’amore e marchette

Laureato in sociologia ma cantautore per vocazione. L’artista salentino racconta il suo debutto solista

Laureato in sociologia ma cantautore per vocazione, Massimo Donno (sopra in una foto di Luca Barrotta) ha dato alle stampe Amore e marchette (Ululati/Lupo Editore), debutto solista che raccoglie undici brani autografi di pregevole fattura in cui si mesolano spaccati autobiografici e pungenti critiche alla società italiana, il tutto condito da una spiccata dose di ironia, surrealismo e poesia. Ad aprire il disco è la programmatica title track, un vero e proprio manifesto della dura vita del cantautore impreziosito dalla chitarra manouche di Maurizio Geri. L’ascolto svela la capacità dell’artista salentino di sapersi raccontare a cuore aperto, con sincerità, eliminando ogni filtro tra lui e l’ascoltatore. Lo si nota in particolare in brani come Il bianco ed il nero, cantato in duetto con Nilza Costa, oppure La Colpa, in cui fa capolino l’arpa celtica di Guido Sodo. Parimenti piacciono Piccola Storia, romantica ballata densa di poesia, gli stravolgimenti che comporta un rapporto d’amore cantati in Le vetrine e l’autobiografica Bologna A.D. 2012, cartolina dell’odierno capoluogo emiliano in cui fanno capolino le voci di Pier Paolo Pasolini e Alberto Sordi. Completa il disco Il mio compleanno, brano dotato di un testo particolarmente originale in cui spiccano ai cori le voci di Emanuela Gabrieli e Alessia Tondo nonché i fiati di Emanuele Coluccia.
Abbiamo intervistato Massimo Donno per approfondire insieme a lui la genesi dell’album e i temi che lo caratterizzano.

Come sono nate le canzoni di Amore e marchette?

«Il percorso che mi ha portato a questo album è costituito da una miriade di stimoli assecondando i quali è venuto fuori questo contenitore di undici storie. Inizio a suonare la chitarra a 13 anni, la passione per la musica ce l’ho dalla nascita e quella per la letteratura da quando ho memoria e capacità di leggere. Queste due anime era quasi scontato che portassero alla strada del cantautorato. In più si aggiunga la mia morbosa curiosità di raccogliere storie, vere o false che siano e di portarle in musica. Così è nato Amore e marchette».

Quanto ti ha influenzato la ricca tradizione musicale della tua terra, il Salento?

«Sicuramente nascere e vivere, seppure con lunghissime pause, in una terra come il Salento favorisce l’esposizione a suggestioni musicali importanti. C’è una ricca tradizione musicale, di musicisti di musica tradizionale ma anche di nuovissima generazione che coniugano queste istanze in maniera eccellente. Da non sottovalutare anche la prossimità ai paesi dell’Est e alla miriade di ottimi musicisti che vanno e vengono da quei paesi, portando le loro esperienze, i loro racconti, contaminando positivamente quanto si produce sul territorio».

Dal Salento ti sei trasferito a Bologna e poi a Roma. Quanto queste esperienze di vita hanno permeato la tua musica?

«Come dal Salento ho appreso tante cose, anche Roma e Bologna mi hanno letteralmente costruito, fatto uomo. Vivere per tanti anni a Roma e poi a Bologna ha significato entrare in contatto con degli universi anche molto differenti dal mio microcosmo. È interessante vedere come queste città si rivolgono all’arte, come vengono percepiti gli artisti, chi vive di musica e parole. È altrettanto interessante la percezione che i musicisti hanno di se stessi in contesti differenti. Ti assicuro che questo influenza moltissimo quello che si racconta e la modalità del raccontare. Allo stesso modo passeggiare per Otranto è diverso che passeggiare in Piazza Maggiore o in quartiere S. Lorenzo. Tutti questi posti hanno peculiarità così forti da lasciarti dentro segni indelebili, anche nel passaggio da una realtà a un’altra».

Ci puoi raccontare delle session di registrazione? Dove e come si sono svolte?

«Credo che registrare il disco, di per sé, sia stata una delle esperienze più interessanti che abbia mai fatto. Vedere giorno per giorno la costruzione di questi brani è stato un qualcosa di forte. Anche nel coinvolgimento di tanti musicisti che, a loro modo, rileggono quello che scrivi e componi. Tutto ciò è avvenuto nell’autunno del 2012 a Monteroni di Lecce, presso Chora Studi Musicali di Valerio Daniele. E questo non è un caso. Valerio è una persona che stimo molto, sia umanamente che come fonico/musicista. Il suo parere su quello che andava costruendosi in quei giorni è stato più che fondamentale».

Tra i brani più intensi del disco c’è Il bianco ed il nero. Come è nato?

«Il bianco ed il nero può rappresentare una serie di opposizioni binarie, metafora di tutto ciò che continuamente e quotidianamente siamo costretti a vivere. La scelta di stare da una parte o dall’altra. La scelta di appartenere a qualcosa, a qualcuno senza accorgersi che la vita non è fatta soltanto di dicotomie. Questo ci porta a fare delle scelte spesso inconsapevoli, ma porta anche a tutta una serie di stereotipi di discriminazione tra l’IO e L’ALTRO che non fanno che accrescere le distanze tre le persone. Spesso non ci accorgiamo, appunto, che non c’è solo il bianco ed il nero, l’io e l’altro, il bene ed il male. Esistono anche delle istanze di superamento, di coesione e di unione che rappresentano qualcosa di più grande di una semplice somma delle parti».

Nel disco si rincorrono temi diversi come l’amore, il senso della vita e quello di fare il cantautore. Come nascono le tue canzoni?

«Le mie canzoni nascono sempre da un’esigenza. L’esigenza di condividere delle notizie, delle informazioni, delle storie. Spesso partono solo da una brevissima frase appuntata su un’agenda o sulle bozze degli sms nel telefonino (forse è poco romantico, ma non vado sempre in giro con l’agenda). E allora questa frase diventa uno spunto che mi fa interrogare sul perché ho appuntato proprio quel pensiero. Da una frase si srotolano dei pensieri e spesso, solo alla fine, comprendo il motivo che mi ha portato ad avere quella suggestione. Mi capita spesso di scrivere delle cose e di capire appieno il mio stesso stato d’animo a distanza di mesi. In quel caso capisco che a volte è più forte l’impulso di scrivere della razionalità, che ogni tanto ti porta a scrivere cose che non pubblicherai mai».

In una scena musicale come quella italiana, sempre ricca di giovani promesse del cantautorato, qual è il tuo obiettivo?

«La mia sfida è raggiungere un pubblico attento, goloso di storie. Se, come dicono, il grande pubblico è disattento e più interessato ad altre cose, vorrei raggiungere un pubblico piccolo (non mi piace il termine “nicchia”) che sia interessato ad ascoltare storie e a regalarmene. Manzoni si rivolgeva ai suoi venticinque lettori quando scriveva i Promessi sposi. Non voglio fare parallelismi assurdi, però è meglio puntare al lampione e colpire la luna che viceversa».

La Colpa è un brano emblematico se lo si legge nell’ottica di una critica alla società italiana, sempre pronta a scaricare le proprie responsabilità…

«È esattamente così. I social network favoriscono le prese di posizione comode e la loro pubblicizzazione. C’è una gara non più ad avere un’opinione, ma a sbandierare posizioni in maniera spesso superficiale e senza una vera radice che tenga in piedi l’idea. La provocazione che di fondo esiste nel brano vuole solo lasciare un dubbio a chi ascolta, vuole mettere nella testa delle persone il seme del dubbio su quanto facciamo e su quanto le cose che critichiamo, in fondo, non siano parte di noi che le viviamo come fautori inermi e inconsapevoli».

Hai collaborato con Maurizio Geri per la realizzazione della title track. Quanto ha influito il suo stile chitarristico sulla tua musica?

«L’ho conosciuto a un suo concerto in Salento più di dieci anni fa. L’ho cercato poco dopo per avere lezioni di chitarra. Prendevo un treno da Bologna che, con infiniti cambi di stazione, mi portava nel suo paesino sull’appennino tosco–emiliano. Il suo stile per me rappresenta l’esatta sintesi di istanze tradizionali che si abbracciano a generi di difficile catalogazione. L’anima manouche, la propensione all’ascolto e al racconto fanno di lui un artista completo. Per questo l’ho voluto come maestro e come grande ospite nel brano Amore e marchette. In più è anche presente nel videoclip girato da Gianni de Blasi. In quell’occasione è stato bello anche dividere il palco con lui in occasione di alcuni live tenuti nel Salento in cui abbiamo “dialogato” proponendo uno scambio tra Puglia e Toscana, tra tradizione e canzone d’autore. Un’esperienza bellissima per quanto mi riguarda».

Concludendo, ti senti più un sognatore disilluso o piuttosto uno scettico speranzoso?

«Ho studiato Sociologia, prima a Roma e poi a Bologna. Questo percorso di studi mi ha portato tendenzialmente ad avere un approccio scettico alle cose. Se dovessi ragionare come un sociologo che fa ricerca sociale dovrei credere solo in ciò che vedo (in base ad alcune scuole di pensiero). Per fortuna non è sempre così. Anzi. Le undici storie dell’album partono spesso da una prospettiva surreale per giungere a concetti che definiamo reali. Ma l’importanza della storia di fantasia, del surreale, delle istanze inconsce, del sogno, credo siano importanti quanto quello che vediamo empiricamente. Sono immagini e pensieri che abitano in noi e come tali fanno parte di noi e vanno condivise. Dall’importanza del sogno all’essere disillusi ne passa di strada. Scettico? Forse un po’ dovrei esserlo, ma prevale sempre la speranza che l’uomo possa affezionarsi alle cose vere, alle cose lente, all’abbandonare la fuga vigliacca, a riaprire la passione per l’ascolto, a mischiare con la “n” le lettere della parola “io”, e farla diventare NOI. Io ci credo ancora, e credo che l’arte possa essere il motore di tutto ciò».

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