MICK: Una dea sulla porta
di Eleonora Bagarotti
Tenetevi pronti: la “pietra rotolante” per eccellenza sta per sfornare il suo quarto album, Goddess In The Doorway, ricco di ospiti importanti e di belle canzoni rock. Il migliore della sua carriera solista?
——————————————————————————–
Mick Jagger è un mito, nessun dubbio. E tuttavia – tralasciando la solita, lunghissima e già nota storiografia rollingstonesiana – la carriera solista di Jagger era parsa finora piuttosto scontata. Ebbene, cari lettori di JAM, preparatevi: il quarto album della rockstar più sexy del mondo, dal titolo Goddess In The Doorway (La Dea sulla porta) è in uscita il giorno 20 novembre e un bell’album lo è davvero.
Per dirla con Pete Townshend, il chitarrista degli Who che è uno degli illustri ospiti del disco di Jagger e suona in tre brani, “Goddess In The Doorway non solo è l’album migliore di tutta la carriera solista di Mick, ma è anche quello che contiene le canzoni più belle tra le ultime da lui firmate, comprese quelle scritte con Richards”.
Ciò rappresenta senza dubbio una grande rentrée, dopo un periodo dedicato a produzioni cinematografiche piuttosto coraggiose, paternità illegittime (una ben nota, ma si vocifera di altre), un divorzio pagato a suon di proprietà e miliardi, un’imbarazzante intervista rilasciata per sbaglio a una rivista destinata a lettori anziani – che pare abbia mandato Jagger su tutte le furie, dopo essere già stato definito “decrepito” nel cattivissimo libro di John Strausbaugh intitolato Rock ‘Til They Drop (Rock finché non crollano) – e perfino la recente fine della relazione con la biondissima modella ventiquattrenne per taglie extralarge Sophie Dahl, che ha piantato in asso Jagger dopo circa un anno dall’inizio della loro storia d’amore.
Eppure tutto questo non cambia la sostanza della storia della musica rock, passata e presente: Mick Jagger era e rimane il simbolo indiscusso di quella ribellione urlata in musica a partire dalla fine degli anni Cinquanta attraverso il mondo intero. È stato riconosciuto, descritto e definito di volta in volta poeta rock, animale da palcoscenico, esperto musicista, abile e agguerrito gestore delle proprie finanze (al punto di citare in tribunale i Verve e ridurli al lastrico per una strofa di Bitter Sweet Symphony), sex symbol per eccellenza, rivoluzionario, icona della pop art, infaticabile playboy e provocatore instancabile. Tutto ciò corrisponde a verità, parola per parola.
——————————————————————————–
Un album romantico e spirituale
Mick riparte da Goddess e lo fa con stile, varietà, scioltezza vocale, duttilità, senso del ritmo dando vita – insieme ai guests dell’album che sono Lenny Kravitz, Wyclef Jean, Joe Perry, Pete Townshend, Rob Thomas e Bono Vox – a un percorso dalle fresche sonorità e dai testi particolarmente intimi.
“Si tratta di canzoni tutte molto personali”, spiega Jagger. “Ciò che mi è piaciuto di questo album è il modo con il quale è rimasto fedele all’idea iniziale. Talvolta le cose prendono vita da sole, il che può essere una cosa altrettanto positiva, ma in questo caso il lavoro si è sviluppato portando avanti il concetto di base.” Nel definire meglio questo concetto, Mick prosegue: “Canzoni molto intime e dirette che, volendo, ciascuno potrebbe eseguire con la chitarra acustica, sussurrandole appena, in un angolo tranquillo della propria casa. L’album si basa essenzialmente sull’idea di un tipo con la chitarra che canta una melodia; naturalmente, ogni qualvolta si è reso necessario, in certe canzoni sono stati aggiunti arrangiamenti e orchestrazioni, ma il senso e il tono delle canzoni e di quello che volevano esprimere è rimasto intatto”.
Jagger ha dichiarato che l’esigenza di un nuovo album solista è giunta da sé, al seguito di un periodo di composizioni profondamente sentite e scaturite spontaneamente. “Mi piace molto comporre”, spiega. “Questa è stata la parte davvero piacevole legata a quest’album, fin dalla sua nascita. Sono rimasto seduto a lungo nella piccola stanza insonorizzata della mia casa in Francia, minimamente adibita a studio di registrazione, e ho scelto alcuni ritmi elaborandoli al computer e suonato la chitarra. Quel tipo di sensazioni – o lo stesso suono originale della chitarra – sono rimaste e si possono percepire molto bene ascoltando l’album. Il percorso legato alla composizione è dunque sempre presente, intrinseco e testimoniato dal risultato definitivo del lavoro svolto.”
Le canzoni dell’album sono molto romantiche, alcune di esse spirituali. “Anch’io provo dei sentimenti umani! Sentimenti e spiritualità sono le due caratteristiche che emergono da questo disco ma, a dir la verità, non ci ho mai prestato particolare attenzione, non fino a quando mi sono seduto per ascoltare tutte le canzoni insieme, dalla prima all’ultima. Poi me ne sono reso conto.”
Il sessantenne Mick Jagger si dimostra perfettamente in grado di sorprendere ancora gli ascoltatori, come se il trascorrere del tempo non fosse stato poi così rilevante da avergli impedito di trovare una nuova ispirazione.
Le canzoni sono molto belle, hanno un significato che definirei ‘autentico’ e non suonano per nulla scontate. Si percepisce una vena contemporanea, legata all’attualità, ma anche fuori del tempo. L’artista riesce a presentarsi in modo inedito. Colpisce la sua capacità introspettiva attorno ai due temi esistenziali principalmente presenti nell’album. E dietro a un viso – ma si potrebbe semplicemente anche solo scrivere “a una bocca” – si intravede un uomo, un compositore e un cantante di talento che prova emozioni e le suscita nell’ascoltatore.
La canzone migliore dell’album è la stupenda Gun, nella quale riconoscibilissima è la chitarra di Pete Townshend con le sonorità tipiche dei suoi riff in sottofondo. Una serie di armonie dure e distorte per una canzone dal forte impatto, di quelle che più si ascoltano e più aumenta il nostro grado di apprezzamento. La tensione della canzone viene interrotta, per un attimo, dal suono della chitarra acustica durante il ponte, subito seguito da una cadenza d’inganno, prima di un trascinante finale tornato ad essere di nuovo hard. “Gun s’è da subito configurata come un pezzo puramente rock”, dice Jagger a proposito della canzone. “Non so cosa mi passasse per la testa perché mi sono accorto che è risultata una canzone molto dura: si vede che attraversavo un momento di amarezza; chissà da dove è venuta fuori. Perfino Under My Thumb è tenera al suo confronto. Non si tratta veramente di un brano sulle armi, Gun è piuttosto una metafora.” Una bellissima metafora.
Joy è invece un fremente gospel del XXI secolo: ritroviamo il protagonista Jagger in qualità di narratore-cantante che, alla guida di un fuoristrada, va alla ricerca di Budda. C’è la partecipazione vocale di “Mister U2” Paul Hewson alias Bono Vox. “Riguardo a Bono”, dice Jagger, “l’idea di invitarlo a collaborare con me si rifà a un ragionamento molto semplice: quando si sono fatti tanti dischi per tanti anni bisogna offrire una possibilità ai giovani.”
Se ci è concesso, quest’ultima frase ci suona lievemente ironica. È senz’altro vero che Mick Jagger è un mito inossidabile del rock, fin dalle sue origini, ma lo è altrettanto il fatto che Bono, soprattutto dal punto di vista della propria carriera, proprio un emergente non è. Anzi, è l’ospite ideale per ‘garantire’ un certo numero di vendite, superiore anche a quello prevedibile per un disco solista di Mick Jagger.
“Io avevo già realizzato la parte vocale, dopo aver scritto la canzone alla chitarra praticamente di getto nel mio studio in Francia”, prosegue Jagger a proposito di Joy. “Successivamente, portai le melodie delle voci a Bono e lui ci lavorò sopra. L’idea del flusso di coscienza presente alla fine della canzone è stata una sua idea e comunque ha funzionato molto bene.” Certo, fa un bell’effetto ascoltare le voci di Mick Jagger e Bono rincorrersi sul pentagramma, quasi ad agevolare il protagonista della canzone nel raggiungere la “joy of the heart” di cui parla il testo. E alla fine la gioia si trova eccome, con una melodia appena accennata dalla voce di Bono in sottofondo e il “Jump for joy!” grintoso di Mick, ripetuto in stile “a cappella”.
Il rock martellante di God Gave Me Everything nasce invece dalla collaborazione di Jagger con Lenny Kravitz. “Io e Lenny abbiamo scritto il brano insieme. Lui ha preparato la struttura armonica, con l’intera successione degli accordi, e poi abbiamo composto a due le linee della melodia. A un certo punto ho chiesto a Lenny se aveva qualche idea per il testo e lui mi ha risposto: ‘Neanche una’. Allora mi sono sistemato in un angolo della sua casa di Miami, casa in cui ogni particolare sembra uscito direttamente dal film Arancia Meccanica, e ho scritto il testo in soli dieci minuti. Poi l’ho mostrato a Kravitz e gli ho chiesto un parere. Era d’accordo.”
Lenny Kravitz, per tutta risposta, ha sintetizzato l’esperienza della collaborazione con Jagger attraverso queste parole: “Beh, Mick Jagger è Mick Jagger e cioè un tipo incredibile. Abbiamo scritto la canzone insieme e io l’ho prodotta. Mi piace perché si tratta di un pezzo molto rock e molto bello. Mick a me piace così”.
A proposito del titolo, God Gave Me Everything (Dio mi ha dato tutto), Jagger ha specificato che “tuttavia Dio non riceverà alcuna royalty per questa canzone; Egli non ha preteso niente e niente gli è stato dato”. Sarà per questo che il ritornello finale sfuma in un ripetitivo “Thanks”?
Lenny Kravitz ha ricordato la visita di Mick Jagger nella sua casa di Miami con un “sottofondo di bevute di spremute fresche e succhi di frutta tropicale”. Così si intuisce come “brown sugar” sia ormai – e fortunatamente, per certi aspetti – stato sostituito da “white yogurt” e – c’è da scommetterci – pasticche di vitamine e melatonina. Ironia a parte, il risultato scaturito dal binomio Jagger-Kravitz è ottimo e, dunque, noi pure ringraziamo Dio per questo brano.
Un’altra canzone ritmicamente travolgente è Hideaway, prodotta da Wyclef Jean. “All’inizio il brano era in pieno stile Sam Cooke”, spiega Mick. “Poi, al momento del demo, divenne un brano più ballabile e più vicino allo stile di Al Green. In seguito, pensai che Wyclef, avendolo incontrato parecchie volte e trascorso molto tempo con lui, l’avrebbe cambiata un altro po’. Conoscendolo, ne ero certo. Nella produzione definitiva, in realtà abbiamo utilizzato molte tracce del demo originale, ma Wyclef ha in qualche modo ottenuto una diversa atmosfera. La canzone ricorda ancora Al Green però ha un’impostazione leggermente caraibica, alla quale devo aver contribuito anch’io. Comunque, a mio parere, si tratta di un brano molto soul.”
In effetti, Hideway ‘spezza’ il tenore generale su cui si regge il disco e rientra piacevolmente nello stile finale come una giusta dose di spezie aromatiche in una pietanza. In questo frangente, Mick usa la propria voce con modalità effettivamente molto soul. Il coretto finale è comparabile al finale della No Use In Crying di Tattoo You dei Rolling Stones – riprova che comunque, per quanto scorre, il sangue non si tramuta mai in acqua.
Spaziando qua e là tra le songs, notevole risulta il brano d’apertura, Visions Of Paradise, struggente soul-pop frutto squisito della collaborazione con Rob Thomas dei Matchbox 20. “Avevo incontrato Rob Thomas durante una tournée e, chiacchierando, ci eravamo detti che prima o poi avremmo scritto un paio di canzoni insieme. Tempo dopo, in un piccolo studio di registrazione, stavamo lavorando su un’altra melodia quando venne fuori questo pezzo. Il brano è una delle canzoni romantiche dell’album e ha un tema carico di speranza.” In effetti la canzone è molto romantica, impreziosita da tante diverse sfumature. Peccato per quei suoni degli archi elettronici sul finale, probabilmente un pochino di troppo. La melodia e il testo non necessitavano di ulteriori sottolineature in tal senso: “Don’t tell me how to talk with my friends, just tell me the name of the stars in the sky, just tell me. visions of paradise” (“Non dirmi come devo parlare ai miei amici, dimmi solo il nome delle stelle nel cielo, dimmi solo. visioni di paradiso”).Un brano quasi perfetto.
E sempre a proposito di brezze notturne e costellazioni, buona parte della canzone Dancing In The Starlight è stata scritta da Matt Clifford, ex tastierista dei Rolling Stones. “Io ho scritto il testo”, dice Jagger, “che fondamentalmente parla di una spiaggia e di uno splendido cielo notturno, con le stelle che si riflettono sull’acqua.” Nel brano vengono utilizzati parecchi suoni elettronici e l’ascolto risulta molto easy e un po’ troppo melodico anche se l’interpretazione vocale di Mick resta impeccabile come in tutto il resto dell’album, in questo caso con aggiunta delle sue tipiche “a-a-a-a-a-a” sospirate in chiusura.
Mick Jagger è il produttore di una buona parte del repertorio contenuto in Goddess In The Doorway, ma ha lavorato in stretta unione proprio con Matt Clifford, insieme a Marti Frederiksen, già produttore degli Aerosmith. “Il pezzo più vecchio dell’album”, dice Mick, “è Don’t Call Me Up. L’ho scritto alla fine dell’ultima tournée dei Rolling Stones. Cioè, ne scrissi allora metà, mentre l’altra parte, ossia il ritornello, l’ho completata solo molto tempo dopo. Una canzone romantica, piuttosto triste e amara.”
——————————————————————————–
Goodbye, Jerry
Don’t Call Me Up, volente o nolente, riporta al probabile conflitto interiore del periodo in cui Jagger compose la canzone. Ricordiamo che durante l’ultimo tour degli Stones Jagger intraprese una relazione di una certa durata con una modella che rimarrà incinta – stavolta non “silenziosamente” – e gli darà un maschio, quasi contemporaneamente alla moglie legittima Jerry Hall che, una volta partorito il quarto figlio avuto da Mick, impugnerà la causa per un divorzio miliardario, vincendola.
Di questo narra, più o meno esplicitamente tra le righe, il testo della bella, melodica Don’t Call Me Up. Una curiosità: Jagger la canta facendo un po’ il verso a Bob Dylan, utilizzando i suoi toni sfumati nei versi conclusivi delle frasi musicali. Il testo è poetico, nella sua semplicità: parla di quel senso di solitudine che tutti, prima o poi, ben conosciamo, ma che si fa più doloroso e lancinante quando sopraggiunge la pioggia e non vi sono più stelle nel cielo. Il pezzo, piuttosto lungo, ripete una melodia non banale e si conclude con l’utilizzo di una chitarra acustica e di archi, binomio che ricorda piacevolmente il sound dei primi Stones.
A un certo punto un sorso di musica reggae viene introdotta nell’album dal brano Lucky Day. “Si tratta di una canzone reggae al cinquanta per cento”, spiega Jagger. “Il testo parla di una persona che ha dovuto vivere per troppo tempo a Los Angeles. Non si tratta di me, nonostante mi sia capitato di vivere quell’esperienza.” L’atmosfera calda è ricordata dai riff della chitarra, decisamente blues, così come blues è lo stile dei ricami vocali che ne impreziosiscono il coro. Ad un tratto, il brano si fa cupo. Una canzone un po’ ripetitiva ma con bellissime chitarre, in particolare nell’assolo centrale.
Ben più allegra e vivace è Everybody Getting High: “Si tratta di una commediola rock”, dice Jagger, “e di un testo che osserva la vita con divertimento. Poiché per la maggior parte nell’album non c’è nulla di frivolo, ho pensato fosse la canzone giusta per ristabilire un certo equilibrio.” Da prendere alla lettera.
C’è anche un brano country in Goddess In The Doorway e s’intitola Too Far Gone. “È un brano sul mondo che cambia molto rapidamente e non si può mai tornare indietro. Se si togliesse la batteria, sarebbe un brano in puro stile country. In effetti, i Rolling Stones hanno fatto qualche canzone country ma questa non è certo allo stesso livello di Far Away Eyes.” Mick ha ragione: nel brano sono percepibili oscillazioni impure e un’atmosfera molto più sensual che country. Potrebbe essere un suggerimento musicale per creare “quel certo tipo di atmosfera in sottofondo”.
In chiusura, un brano che Mick ha scritto “una sera stando seduto sul suo letto”, intitolato Brand New Set Of Rules. “Si tratta di un’altra canzone scritta in un battibaleno. È una canzone molto semplice e innocente, direi dolce. Le voci d’accompagnamento sono quelle delle mie due figlie che, devo dire, cantano con magnifica intonazione.” Cuore di papà. La canzone è gradevole ma molto semplice, comunque ben si adatta al finale. La voce di Jagger è accompagnata da semplici arpeggi di chitarra e nulla più.
Tutti i musicisti che hanno partecipato alla realizzazione dell’album, completato in vari studi qua e là per il mondo, hanno contribuito con qualcosa di personale e, diciamolo pure, se Jagger sostiene di aver chiesto a Bono e a Lenny Kravitz una mano per “aiutare i giovani”, in realtà qui l’aiuto è palesemente reciproco. In effetti, con maggiore obiettività, Mick Jagger aggiunge: “Lavorare con tanti collaboratori è un divertimento in sé e fare quest’album è stata una bella esperienza. Il risultato è ottimo. Bono è stato fantastico e mi ha molto stimolato a scrivere in collaborazione con altri, ad esempio con Rob Thomas per Visions Of Paradise, perché l’atteggiamento è differente e alla fine ci si trova in mano una canzone totalmente diversa dal punto di partenza. In un paio di brani ha suonato Joe Perry, fornendo un notevole contributo. Dato che in larga parte del repertorio sono da solo, è positivo che si possano sentire anche altre voci”.
“Mi piace suonare insieme ad altri. Pete Townshend abita a pochi passi da me, in Inghilterra, e ha dato il suo contributo, esattamente come era accaduto diciotto anni fa con il mio primo album, She’s The Boss. Certo, tutti quelli che hanno partecipato sono persone che conosco bene, ad eccezione forse di Thomas, che avevo incontrato occasionalmente, per cui si è lavorato in un clima di amicizia e familiarità e questo è stato importante.”
Coming soon. the Rolling Stones!
“Parteciperò con moltissime altre star del rock al concerto al Madison Square Garden previsto il 20 ottobre, serata dedicata alle vittime del WTC organizzata da Paul McCartney”, ha detto Jagger. “In quanto ai Rolling Stones. Non mi risulta che si siano ancora sciolti. Gli Stones esistono e continueranno ad esistere. Posso già annunciare che abbiamo intenzione di intraprendere un tour mondiale per festeggiare i 40 anni del gruppo.”
Quest’ultima notizia farà la gioia di tutti i fan degli Stones e degli appassionati di musica rock – compreso il pubblico italiano che, si spera, potrà rifarsi dell’ultimo concerto abortito del Bridges Of Babylon Tour (il motivo ufficiale della cancellazione del concerto a San Siro sarebbe stata una lieve raucedine del frontman ma questa scusa era parsa a tutti quanti un po’ deboluccia, per la verità.).
Tuttavia, è molto probabile che per un altro po’ di tempo Mister Jagger non si ritroverà coi suoi amici di un tempo. Attualmente (vedi box) è molto impegnato in un ruolo al quale sembra tenere moltissimo: quello di produttore cinematografico. Inoltre, il suo sito ufficiale (www.mickjagger.com) non è ancora del tutto finito ma presto sarà terminato, secondo un suo preciso desiderio.
È logico ipotizzare un’immediata, nuova fase amorosa dalla chiusura del rapporto con la modella Sophie Dahl, che i media di tutto il mondo come sempre cattureranno al volo e diffonderanno via etere. Forse Mick, a quest’ora, si starà già dando da fare, fregandosene, come sempre, di tutto e di tutti. Personalmente, ciò che rende Jagger tutto sommato simpatico, al di là del suo mito e di ciò che egli ha rappresentato musicalmente, è proprio questa sua coerenza nel proseguire con un certo tipo di filosofia e atteggiamento, senza mutare a seconda di quello che età, status e convenzioni sociali potrebbero invece suggerirgli di fare. Coerenza che mi pare sia il segnale di una reale autenticità nel vivere e non solo un cliché da riprodurre su un palcoscenico. Per questo motivo a Mick riesce ancora così bene il mestiere della rockstar, perché lui “è” una rockstar.
Se per Jagger realizzare Goddess In The Doorway è stata una gioia, altrettanto sarà entusiasmante poter ascoltare uno dei più grandi artisti rock al culmine della sua intensità espressiva e creativa. Sarà anche stato definito “decrepito” da qualche critico di fama mondiale (magari a sua volta un po’ vecchiotto e, in più, roso dall’invidia di non suscitare a sua volta cotanto richiamo sessuale nel prossimo?), ma è un dato di fatto che il mito Mick Jagger non ha età o, per meglio dire, va ben oltre ai rintocchi regolari dell’umana clessidra, pur avendo appena scritto e registrato un album intrinseco di emozioni e romance. Per fare ciò, una musa ha bussato alla sua porta, fornendogli ispirazione per le sue nuove composizioni. E non sarà neppure l’ultima visita, c’è da scommetterci. Perché il bello di chi non prova mai soddisfazione è che può permettersi di continuare a vivere avventurosamente.
Mick ci riesce – in tutti i sensi. E lo fa alla grande.
PAUL: a caccia di fantasmi
di Riccardo Russino
Due donne, il dramma della morte e della solitudine aleggiano nelle note di Driving Rain, il nuovo disco di Paul McCartney. Ma incombe anche il paragone con Flaming Pie, l’ottimo album pubblicato nel 1997.
——————————————————————————–
“No more worries and no more pain”, canta Paul McCartney in Back In The Sunshine Again, dodicesima traccia del suo nuovo disco, Driving Rain.
Un’affermazione di ritrovata serenità che conclude un periodo drammatico seguito alla morte della moglie Linda, scomparsa nell’aprile del 1998 dopo una lunga malattia. Driving Rain (di cui abbiamo ascoltato in anteprima una versione che potrebbe non essere definitiva) non è il solito disco “alla McCartney”, ma è l’album del dramma e della rinascita che ruota intorno alle tematiche amore-morte-solitudine-amore salvifico. Paul, che canta spesso in prima persona (una rarità per lui), ripercorre gli ultimi tre anni della sua vita. L’apertura è affidata a Lonely Road e From A Lover To A Friend, che descrivono la disperazione e lo smarrimento seguiti alla scomparsa di Linda. Nella prima si affaccia lo spettro della solitudine (“I Don’t wanna walk a lonely road again”), mentre in From A Lover To A Friend un McCartney insicuro (“How can I walk when I can’t find the way”) cerca in Linda la forza di innamorarsi ancora (“Let me love again”). Testi profondi, intensi, che svelano l’inferno in cui si è trovato Paul. Ecco Heather Mills, la nuova fidanzata (un’ex modella che ha perso una gamba dopo essere stata investita) che diventa musa e protagonista di una parte dell’album (Magic, Your Loving Flame, About You, Heather, Back In The Sunshine Again). Driving Rain risulta così uno dei dischi più personali e intimi di McCartney.
Un flash e nelle nostre orecchie riecheggiano le note di Silly Love Songs, canzone con la quale Paul affermava il suo diritto a cantare “stupide canzoni d’amore”, proprio perché credeva fortemente in questo sentimento e nel suo enorme potere. Ed è proprio l’amore gli ha fatto abbandonare la “lonely road” nella quale si era perso. Ricorrono le immagini di Paul alla Rock’n’Roll Hall Of Fame nel marzo del 1999 (in occasione del suo ingresso, come solista, nell’olimpo terreno delle rockstar). A ritirare il premio c’era un uomo provato: “Questa è una notte brillante per me, ma anche triste. Mi sarebbe piaciuto avere con me la mia baby (Linda, nda)”. Passano pochi mesi, dicembre 1999, e lo ritroviamo alla trasmissione tv inglese Parkinson Show, dove presentò una ballata inedita, Your Loving Flame: l’ammissione del nuovo amore, la necessità di trasformarlo in una canzone. I versi principali del brano (“Cause when we kiss, nothing feels the same / I can spend eternity inside your loving flame / What I am to, If I don’t have you / I’ll be feeling blue, sitting here without you”) delineano un Paul nuovamente innamorato, rinfrancato e ringiovanito.
Heather Mills, che aveva solo un anno quando Paul e Linda si giurano amore eterno tra gli ultimi vagiti della beatlesmania, ha aiutato McCartney nel momento più drammatico della sua vita, proprio come Linda lo aveva sostenuto dopo la fine dei Beatles. In molti hanno disapprovato l’eccessiva velocità con cui McCartney si è fidanzato (a poco più di un anno dalla morte di Linda). Una scelta troppo privata, troppo personale che non si può criticare con leggerezza.
——————————————————————————–
Driving Rain, un album rock
“Siamo entrati in studio lunedì mattina”, così Paul ha ricordato le incisioni di Driving Rain, “ho fatto ascoltare le canzoni e abbiamo iniziato a suonarle. Abbiamo registrato 18 canzoni nelle prime due settimane, in febbraio; poi sono tornato a Los Angeles in giugno per registrare ancora qualche pezzo e mixare l’album. Così, completare l’intero disco dall’inizio alla fine mi ha impegnato per circa cinque settimane. Un buon modo di lavorare, che era quello dei Beatles.” Un disco nel quale Paul non fa più tutto (quasi) da solo (come nel precedente album di inediti, Flaming Pie): “Una delle cose che mi sono ricordato quando abbiamo registrato Run Devil Run, l’album di rock’n’roll, è che io sono fondamentalmente un bassista. Questo è il mio ruolo. È semplice e appagante, canto e suono il basso”.
“Non ci sono state prove, svela il produttore David Kahne. “Ha portato le canzoni e abbiamo iniziato a suonarle. Fondamentalmente ci ha fatto sentire le canzoni alla chitarra acustica e noi le abbiamo imparate. Voleva lavorare nello stesso modo che usavano i Beatles. Ringo e George in realtà non sentivano mai le canzoni prima che i Fab 4 le registrassero.” Sono affermazioni che richiamano le note di copertina di Flaming Pie: “Anthology mi ha ricordato il tempo che non impiegavamo per registrare un disco e il divertimento che avevamo quando lo facevamo”.
Anche se lo spettro e il paragone con Flaming Pie aleggiano per tutto il disco, le analogie tra i due cd finiscono qui. L’album del 1997 è stato inciso dal solo Paul con l’aiuto di qualche amico fidato (Ringo Starr, Jeff Lynne, Steve Miller, George Martin), con un lavoro certosino in sala di incisione (a eccezione di un paio di pezzi), mentre Driving Rain vuole essere un disco spontaneo, figlio dell’improvvisazione, quasi un live in studio con saltuarie aggiunte di violini. Se vogliamo un paragone beatlesiano, ricorre il White Album, disco di graffianti rock e ballate acustiche. Ma l’album rimanda anche ai dischi rock della carriera solista di McCartney, Back To The Egg e Off The Ground, o ad alcuni brani di Ram (Smile Away, Eat At Home, Monkberry Moon Delight). Inoltre, dopo quasi vent’anni di collaborazioni illustri sia in fase di scrittura (Stevie Wonder, Michael Jackson, Eric Stewart, Elvis Costello) sia di esecuzione (David Gilmour, Carl Perkins, Jeff Lynne, Steve Miller), Driving Rain segna un ritorno all’autarchia: nessuna firma eccellente, nessuna rockstar, nessun ospite (a eccezione del cameo familiare del figlio di McCartney, James, che firma e suona in Back In The Sunshine Again e Spinning On An Axis).
Ma Driving Rain segna soprattutto un nuovo capitolo nel processo di scrematura e scarnificazione delle canzoni di Macca da arrangiamenti troppo ricercati e da produzioni smaccatamente pop che ne avevano caratterizzato nel bene (Tug Of War, Flowers In The Dirt) e nel male (Pipes Of Peace, Press To Play) i dischi degli anni Ottanta. Un processo iniziato con Unplugged (’91), proseguito con Off The Ground (’93), ma che ha preso la svolta decisiva dopo il bagno di memoria beatlesiana di Anthology. Risultato di questa immersione l’ottimo Flaming Pie. Le reminiscenze degli anni Sessanta, l’esperienza di Run Devil Run hanno quindi convinto Paul ha registrare quasi in presa diretta il nuovo disco.
Driving Rain è un disco molto americano (non a caso la nuova band è “made in Usa” al 100%), con sonorità country (Your Way, un brano a metà strada tra Country Dreamer e Sally G), accenni blues (She’s Given Up Talking, Back In The Sunshine Again), sterzate rock (About You, Lonely Road), una buona dose di ballate (From A Lover To A Friend, I Do, Heather, Your Loving Flame), qualche rinfrescata pop (Driving Rain, Tiny Bubble). Colpisce il suono delle chitarre: raramente avevamo ascoltato così tante sonorità diverse delle sei corde in un disco di McCartney (in particolare in She’s Given Up Talking, Spinning On An Axis e la conclusiva Rinse The Raindrops). Un disco variegato, un calderone di stili diversi (proprio come il White Album), ma purtroppo non uno dei migliori album di McCartney, né tanto meno un capolavoro. L’intensità di Flaming Pie è solo un pallido ricordo, la freschezza di Run Devil Run latita. Il disco non dispiace, ma non riesce a convincere sino in fondo. Manca il capolavoro, il brano che rimane e che caratterizza l’album, come potevano essere Somedays (da Flaming Pie), Put It There (da Flowers In The Dirt), Here Today (da Tug Of War). Quasi una replica di Off The Ground, inciso con la touring band del momento, un disco secco e vibrante ma che non riusciva mai ad andare oltre il piacevole.
Altro limite del disco, spiace rilevarlo, va individuato nella voce di McCartney che, provata da quasi sessanta primavere, non ha più il calore, l’intensità e la profondità che negli anni passati erano in grado di giustificare anche la peggiore canzone. Non è un caso infatti che i brani migliori siano i rock, per i quali Paul rispolvera la sua voce roca, mentre le ballate soffrono maggiormente di questo inaridimento. Piacciono quindi Lonely Road con chitarre sporche, basso sinuoso e una notevole doppia voce di Paul sul ritornello, She’s Given Up Talking un blues arricchito da chitarre acide e tastiere psichedeliche, come colpisce Spinning On An Axis, caratterizzata da continui cambi di tempo e da un ottimo intreccio tra chitarra elettrica, acustica e basso. Tra le cose migliori bisogna anche ricordare From A Lover To A Friend (che sentiremo anche nel film Vanilla Sky con Tom Cruise), la classica ballata che ti aspetti da McCartney, che piace ma non riesce a trasformarsi in un capolavoro: le manca il guizzo, il colpo decisivo. Ottima cartina di tornasole di tutto Driving Rain.
Per gli abituali standard di Paul, il disco contiene tre piacevoli sorprese. La prima è Heather, caratterizzata da una gioiosa e solare introduzione strumentale che vede protagonisti tastiere, chitarra elettrica e violino, con cori anni Sessanta che aprono la via alla voce di McCartney. Un brano vario, ricco di entusiasmo (“And I will dance to her warm simple tune / With a queen of my heart”), il migliore di Driving Rain. La seconda sono le sonorità indiane di Riding To Jaipur, che ricordano i Beatles di Love You To e Within You, Without You. La terza toglie il fiato: Rinse The Raindrops, una jam session di dieci minuti! Un azzardo che Paul si era concesso solo ai tempi di McCartney II (’80), anche se allora aveva tolto dalla versione definitiva del disco i brani più folli (Check My Machine, Secret Friend). Questa volta non interviene alcuna autocensura. Ecco quindi un cavalcata di dieci minuti, che parte da un rock ordinario per prendere il largo in una bollente scorribanda rock’n’roll. Un finale in crescendo, un atto di anarchia che il ‘perfezionista’ Paul non aveva mai permesso sui suoi dischi.
——————————————————————————–
When I’m sixty-four
Se mancano cinque anni alla data celebrata da Paul in When I’m Sixty-Four (Sgt. Pep-per’s Lonely Hearts Club Band), i sessanta sono dietro l’angolo: scatteranno il prossimo 18 giugno. Sono passati 39 anni dal primo singolo dei Beatles (Love Me Do, 1962) e 31 dal primo disco solista di Paul (McCartney, 1970), eppure l’interesse non solo verso la memoria dei Fab 4, ma anche verso le attività attuali degli ex Beatles, è vivissimo (vedi anche box su Ringo), fino a calpestare ogni concetto di privacy come è successo la scorsa estate per la malattia di George Harrison.
Nonostante la scomparsa di Linda, Paul non si è mai fermato. Anzi, ha trovato rifugio proprio nella musica. Nel marzo del 1999 ha convocato qualche amico (David Gilmour, Ian Paice, Mick Green, Pete Wingfield) e ha inciso nel volgere di una settimana Run Devil Run, un bagno ristoratore nel rock’n’roll anni Cinquanta scandito sia da classici (All Shook Up, I Got Stung) sia da oscuri brani (Coquette, No Other Baby). Complice il repertorio e gli ottimi musicisti (Gilmour su tutti), Run Devil Run è un album piacevole, una spensierata corsa alla fonte alla quale si sono abbeverati i Beatles. Ma il disco ha anche un altro livello di lettura. Quello terapeutico. Nei peggiori momenti della sua carriera e della sua vita, McCartney è ricorso allo spirito del rock’n’roll per rinfrescare la sua vena creativa o per superare un momento difficile (Get Back Session, tour clandestino del 1972, Choba B Cccp, “l’album russo” inciso nel 1987). Run Devil Run quindi non è stato solo un divertissement di un vecchio rocker, ma anche, e soprattutto, un rifugio.
Ma la musica è servita anche per ricordare Linda. Oltre a completare l’album solista della moglie (Wide Prairie, più un atto d’amore che altro), nel luglio del 1999 Paul ha organizzato un concerto di musica classica, A Garland For Linda, al quale hanno partecipato, oltre a McCartney presente con il brano Nova, altri nove compositori. Oltre a commemorare Linda, scopo dello spettacolo era raccogliere fondi per la lotta contro i tumori. Ma il disco, pubblicato nel gennaio del 2000, è passato quasi inosservato.
McCartney comunque non era nuovo a incursioni nel campo della “musica colta”. L’esordio è datato 1991 con il Liverpool Oratorio, il bis è del 1997 con Standing Stone. Limite principale di questi lavori è la distanza dai gusti dei fan di McCartney e, nello stesso tempo, l’incapacità di conquistare il pubblico colto, che li guarda con malcelata diffidenza. Per questo motivo il disco classico che più è piaciuto è stato Working Classical (’99) che presenta versioni per orchestra o per quartetto d’archi di nove brani di McCartney, più quattro inediti (Haymakers, Midwife, Spiral, Tuesday) e una nuova versione di A Leaf, pubblicata come cd singolo nel 1995. Paul aveva scelto i suoi brani da rielaborare tra quelli scritti per Linda (con la sola eccezione di Junk), tra i quali spiccano le nuove interpretazioni di Maybe I’m Amazed, Calico Skies, My Love e Somedays.
Ancora più lontane dai gusti dei fan di Macca sono le sue incursioni, travestito da The Fireman, nel mondo della dance. Del primo disco, pubblicato nel 1993, l’aspetto migliore era il titolo (Strawberries Oceans Ships Forest), mentre le nove canzoni si snodavano in un’ossessionante ripetitività di batterie e sonorità elettroniche. Gli amanti di questo genere hanno meno diffidenza verso le novità rispetto a quelli di musica classica, così il disco ha avuto una discreta programmazione nei club dance di Londra. Il secondo capitolo targato The Fireman, Rushes (’97), segna una svolta verso sonorità ambient, con brani più complessi e melodie più ricercate rispetto al precedente. Nuovo capitolo della saga elettronica di McCartney è il Liverpool Sound Collage, composto da cinque brani della durata media di dieci minuti, nel quale McCartney ha coinvolto i Super Furry Animals e il celebre produttore Youth.
La passione di Paul per la musica elettronica e la sua volontà di giocarci non stupiscono. Negli anni Sessanta i Beatles sono stati dei grandi sperimentatori, sfruttando tutte le sonorità e gli stili che ascoltavano. Quindi non meravigliano le attenzioni che McCartney riserva all’elettronica che, nel bene e nel male, rappresenta una delle maggiori novità degli ultimi dieci anni. Una passione che ultimamente lo ha portato a inondare le radio con remix di brani tratti dall’antologia Wingspan. Le canzoni in questione, difficilmente riconoscibili dopo il trattamento remix, sono Silly Love Songs, Coming Up, Let ‘Em In, Goodnight Tonight, No More Lonely Nights.
In mezzo a tante sonorità futuristiche Paul ha partecipato al disco tributo per la Sun Records Good Rockin’ Tonight – The Legacy Of Sun Records, nella quale suona That’s All Right Ma, con tanto di Scotty Moore alla chitarra.
——————————————————————————–
Pace, amore e comprensione
Chi è Paul McCartney a pochi mesi dai sessant’anni? Fondamentalmente una persona che vive per la musica, della quale apprezza tutte le sfaccettature, e un musicista che non ha ancora smesso di sperimentare tutto quello che le tecnologie offrono. Certo, non è tutto oro quello che brilla, ma la passione che lo animava quando a 25 anni registrava Sgt. Pepper’s Lonely Heaets Club Band è ancora intatta. Per rendersene conto basta riepilogare i quattordici dischi pubblicati negli ultimi dieci anni, divisi tra live (Unplugged, Paul Is Live), musica classica (Liverpool Oratorio, Standing Stone, Working Classical, A Garland For Linda), musica elettronica (Strawberries Oceans Ships Forest, Rushes, Liverpool Sound Collage), una collezione (Wingspan), un album di rock’n’roll (Run Devil Run) e tre album pop/rock (Off The Ground, Flaming Pie, Driving Rain).
A quasi 60 anni Paul è un musicista che ha superato la perdita della moglie, che ha fatto definitivamente pace con l’ombra dei Beatles (“I laugh to think how young we were”, canta in Somedays) e non si è ancora stancato di incidere e suonare musica. Prima di impegnarsi nell’organizzazione del Concert For New York, la cui organizzazione è iniziata dopo gli attentati dell’11 settembre, stava lavorando a una sua esibizione sulla Piazza Rossa di Mosca.
Ma soprattutto, come dimostra anche Driving Rain, Paul crede ancora al messaggio di fondo di quasi tutte le canzoni dei Beatles: “Amore, pace e comprensione”. E non è poco.