«Esecuzione telepatica»: sono queste le parole usate da critici e osservatori d’epoca per descrivere l’ Bitches Brew. Esagerati? No. Perché se Kind Of Blue, alla fine degli anni Cinquanta, ha traghettato l’improvvisazione dallo stadio adolescenziale (il furore bebop) all’età adulta (il modale: concentrato sulle linee melodiche e le loro variazioni piuttosto che il gioco degli accordi), con Bitches Brew la musica cambia strada. Dieci anni dopo. Directions in music, farà scrivere il trombettista sulle copertine dei suoi album. Una provocatoria quanto caleidoscopica strumentazione. Elettrifica ed elettrizza, Miles. Un modo di dare evangelicamente . Musica in sintonia (e che anticipa) i tempi. Davis attacca la spina all’amplificatore. Alza il volume. Come il rock e forse meglio, salvo eccezioni.
È musica liquida, quella di Bicthes Brew. Musica organica. Che si compone, si decompone, acquista forme nuove. Musica metamorfica. Infaticabile sperimentatore, il trombettista aveva esaurito la spinta propulsiva del suo , quello con Herbie Hancock, Ron Carter, Tony Willliams e Wayne Shorter. In Filles de Kilimanjaro s’introducono quasi di soppiatto il basso dell’inglese Dave Holland e il piano (elettrico) di Chick Corea. È il primo, progressivo slittamento verso il suono del futuro. Che, si badi bene, prima e dopo Davis, è rimasto fermo lì. Alcune novità tecniche, ma nessuna novità estetica.
La fine del quintetto è la fine del mondo. Di un mondo ai confini con l’informale. Libero senza essere mai free (jazz). Eppure il musicista di Alton, nell’Illinois – dove nasce il 25 maggio del 1926, segno zodiacale creativo e irrequieto per eccellenza: Gemelli – vuole andare oltre. Un alchimista alla ricerca del sound filosofale. Il cui inizio è l’album precedente a quello in esame, In A Silent Way, in cui Miles evoca e canta il corpo elettrico (I Sing The Body Electric sarà poi il titolo del disco-manifesto dei Weather Report di Joe Zawinul e Wayne Shorter, entrambi protagonisti di Bitches Brew). Ricorda Dave Liebman, sassofonista intellettuale e intelligente che con Davis condivide quegli anni fecondi: .
Motivi commerciali? Sollecita-zioni dalla major Columbia con l’intento di vendere più dischi? Impossibile rispondere con sicurezza. Dividendo il suo periodo fusion in tre fasi differenti, lo stesso Liebman osserva: so dalle normali convenzioni jazzistiche».
È un’orgia di ritmi, suoni e timbri. L’avamposto della rivoluzione. Una giungla di (s)concertanti polifonie. Tribale e futuribile. Arcaico e tecnologico. Elementi contrastanti, che giocano sullo stesso tavolo sonoro e a tutto campo. Un mix rischiosamente (post?) moderno. Dicono che fu merito di Wayne Shorter e soprattutto di Zawinul. Oggi tutti o quasi (sper)giurano sulla rivoluzione di Bitches Brew e sulle intuizioni anticipatrici di Davis, capace di universi e topografie sonore della musica prossima ventura. Tra rock, funky e jazz. Con un sottofondo psichedelico. Sempre e comunque con una radice black marchiata a fuoco, segno dell’identità. Ma allora, e in parte ancora oggi, fu uno choc. Sciamano elettrico e stregone del jazz (forse della nuova musica tout court), Miles è davvero the man with the horn, l’uomo con la tromba, il leader che dà il segnale non della rivolta ma dell’avvenuta rivoluzione. Lui fa ciò che gli altri pensavano ». Sullo sfondo delle sue innovative ipotesi sonore si muovono le ombre di Jimi Hendrix e di Sly & The Family Stone. E con entrambi, ricorda Gianfranco Salvatore che al Davis elettrico ha dedicato uno studio ricco di spunti, .
Non solo. Tra le coincidenze legate alla nascita di questo album – che segnò, più che la nascita, l’affermazione e la sistematizzazione del cosiddetto jazz rock o, meglio, jazz elettrico – ce n’è una che merita attenzione. La seduta inaugurale di Bitches Brew risulta contemporanea all’inizio di Woodstock: 19 agosto 1969. Data simbolica, da non dimenticare. E se Ornette Coleman aveva sdoppiato nell’epocale Free Jazz il suo quartetto, Miles va oltre. Le batterie diventano tre (tra queste, Jack DeJohnette) più un percussionista, mentre si duplicano i bassi (normale e Fender) e i pianoforti elettrici (Zawinul e Corea) addizionati in alcuni brani dall’organo lisergico di Larry Young. Una sconvolgente discesa nel Maelstrom articolata in sei temi, perlopiù di lunga durata e con un ritmo rockeggiante di base. Pharaoh’s Dance, che insieme a Sanctuary di Shorter è l’unico brano non firmato dal leader (fa parte del repertorio di Zawinul), comincia con un contagioso beat di batteria intercalato da accordi di piano elettrico. Le sonorità della chitarra di John McLaughlin – cui il trombettista dedica il tema omonimo, un siparietto di quattro minuti – e poi del clarone di Maupin danno al brano una tensione particolare, che il primo intervento di Miles non scioglie. Anzi. Chiamata e risposta: questi i riferimenti del doppio album, che nulla hanno a che vedere con il tradizionale schema jazzistico tema-assoli-tema. Qui trionfa un dionisiaco caos (ben) organizzato. Il di suoni che arrivano da ogni parte, di timbri che s’intrecciano e si accavallano, di strumenti che dialogano come voci impazzite. Drammatico nei 27 minuti della title-track. Strepitosamente solare in Spanish Key: il tema che apriva in origine il secondo lp e dove, passata autorevole la tromba del leader, ecco emergere il soprano di Shorter (intonazione meravigliosa), che sembra condurre la musica verso sentieri tutt’altro che selvaggi. Anche se, fa notare Salvatore, .
Quindi con Miles Runs the Voodoo Down e Sanctuary, . Una nuova cosmogonia sonora. Dopo l’incisione di Bitches Brew, propiziata dal genio del producer Teo Macero, niente nel jazz sarà più come prima. Per fortuna.
DISCHI DELLA MEDESIMA VENA ARTISTICA
Bill Laswell / Panthalassa (Columbia, 1998)
Bassista e produttore, Bill Laswell non compare in veste di leader nel cd ma solo nei crediti. Eppure l’operazione di remixaggio della musica di Davis è tipicamente sua. Nei 58 minuti di questo album si ascoltano medley da In A Silent Way e altri capolavori successivi. Temi accorpati, incollati, espansi ma con un certo timore reverenziale.
Henry Kaiser – Wadada Leo Smith / Yo, Miles! (Shanachie, 1998)
Un’operazione bizzarra quanto geniale. Due improvvisatori radicali, il chitarrista bianco Kaiser e il trombettista nero Smith, riprendono partiture estreme del Davis afro-elettro-funky, successive a Bitches Brew. Che però fa capolino nei 34 minuti di medley Themes From Jack Johnson, dove spunta anche la citazione di Spanish Key. Un doppio cd al tempo stesso rispettoso e irriguardoso nei confronti di Miles. Cui, forse, sarebbe piaciuto.
Nils Petter Molvaer / Solid Ether (Ecm, 2000)
Giovane trombettista venuto dal freddo (cioè dall’Europa del Nord, e quindi lanciato dall’Ecm di Eicher), Molvaer sembra aver introiettato il Miles più visionario. Quello di On The Corner, per intenderci, che viene fatto rivivere in chiave tecno-ambient. Effetti elettronici, batterie ossessive, vibrazioni industriali e sonorità glaciali: qualcuno ha detto che il mix è mono-tono, ma certo Molvaer qualche buona idea ce l’ha.